Qualche giorno fa Rai radio 1 ha mandato in onda un’intervista al responsabile di un’associazione svizzera di tutela dei diritti per i cittadini che parlando della situazione nel suo paese ha fatto dichiarazioni che meritano qualche riflessione, non foss’altro che per il fatto che esse ci presentano un quadro che in parte sfugge allo stereotipo della terra ricca, felice e civile che il nostro immaginario assegna alla confederazione elvetica. Da tale quadro emerge un paese lacerato da profonde disuguaglianze sociali in cui, al dire dell’intervistato, il 2% della popolazione detiene il 65% della ricchezza complessiva; nella sola Zurigo il 12% della popolazione vivrebbe in condizioni di indigenza e così nel resto della Svizzera, e ciò anche a causa di un sistema sanitario esclusivamente delegato a lucrose assicurazioni private.
“Il paese è dominato” aggiunge “da una oligarchia di banchieri di fronte alle cui manovre criminali il Parlamento appare del tutto incapace di opporre un’azione efficace”. E su tutto domina il segreto bancario, vero limite insormontabile ad un’efficace iniziativa giudiziaria che sia tesa a contrastare un’azione criminale in cui attraverso il fenomeno del riciclaggio il nodo tra le mafie e l’alta finanza internazionale appare ormai inestricabile.
Nel quadro di questo benessere artificiale realizzato con strumenti non sempre leciti, si pone la campagna di alcune forze politiche volta alla conservazione dei privilegi. Quando si è votata la possibilità di costruire minareti, la proposta è stata bocciata ma, afferma l’intervistato, “non più dello 0,5% della popolazione elvetica sa cosa sia un minareto”. E d’altro canto, non c’è da stupirsi se testimonianza di tale ristrettezza di orizzonti culturali provengono da un paese in cui sino a tutti gli anni ’70 era pratica comune esporre presso gli esercizi commerciali cartelli con scritto “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani” (quelli che non avevano capitali con cui rimpinguare il già corrotto sistema bancario, naturalmente!) e se intere generazioni di figli di emigrati italiani e non sono cresciuti nascosti in buie soffitte, nel timore che l’occhiuta vigilanza della polizia elvetica, magari dietro delazione di un solerte vicino di casa, potesse sottrarli alla tutela genitoriale e rinchiuderli in appositi orfanotrofi (in territorio italiano, naturalmente, onde evitare di dovere pagare le spese di mantenimento). Pochi sanno, infatti, che in Svizzera, sulla base del principio secondo cui si accettavano soltanto emigrati che concorressero alla produttività del paese, la presenza di bambini era bandita. Una norma incredibile nel cuore dell’Europa abolita soltanto sul finire degli anni ’70 su pressione della comunità internazionale.
Nel 1992 Marina Frigerio, psicologa di Lugano che ha avuto in cura parecchi di questi bambini, in collaborazione con la giornalista Burgherr, ha pubblicato un libro (Versteckte Kinder, “Bambini scomparsi”) in cui raccoglie le toccanti testimonianze di numerosi di questi casi che hanno contribuito a segnare in modo determinante la sua esperienza professionale. Bambini che presentavano problemi al linguaggio, alcuni incapaci, anche una volta cresciuti, di parlare ad alta voce o spesso anche di correre, per il fatto di essere stati abituati a reprimere sistematicamente queste attitudini; bambini di allora allevati nella paura di ridere, piangere, gioire, nel terrore che un fruscio udito dietro la porta di casa fosse preludio ad un distacco dai genitori. Adulti di oggi che nella psiche recano i traumi di quanto vissuto. Le scandalose rivelazioni della Frigerio hanno avuto nel corso degli anni qualche isolata risonanza in Italia: già all’apparire del libro il Corriere della Sera del 28/10/’92 vi dedicò un articolo, circa un anno fa Rai Storia ha trattato l’argomento in un’intera puntata, mentre Rai Radio 3 lo scorso 2 dicembre ha mandato in onda un’intervista alla psicologa. Voci isolate, tuttavia, in un paese, il nostro, in cui significativamente il testo della Frigerio non è stato mai pubblicato. Di tali crimini, dunque, commessi dalla “civilissima” svizzera, nell’Italia e nell’Europa dei banchieri pochi sanno e quasi nessuno parla.
Anche da queste cose, e non soltanto dalla conta delle cartacce gettate per strada, si misura il livello di civiltà di un popolo. Svizzera che ci pare un po’ metafora di un’ Europa oggi sempre meno dei popoli e sempre più delle banche e del malaffare, sempre più “civile” su un piano esteriore e formale, ma sempre meno attenta ai diritti e ai bisogni degli ultimi, incapace di coniugare la propria idea di civiltà con quel principio di “humanitas” in cui invece storicamente affonda le proprie radici culturali il nostro continente, il cui innaturale viraggio verso modelli socio-economici d’oltre oceano che le sono estranei è forse la causa non ultima del grave processo di crisi in atto. Un’Europa troppo spesso priva degli strumenti di una critica razionale in grado di smontare i falsi miti e i falsi eroi, per svelare il marcio che dietro di essi si nasconde.
Raimondo Augello
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