di Francesco Scrima
“Ma sulla gola di K. si posarono
le mani di
uno dei due signori, mentre l’altro gli
spingeva
il coltello in fondo al cuore
rigirandolo due volte.
Con occhi ormai spenti K. vide ancora
come
i signori, guancia a guancia davanti al
suo volto,
spiavano l’attimo risolutivo. – Come un
cane! – disse,
e fu come se la vergogna gli dovesse
sopravvivere”.
(F.Kafka – Il processo)
Per le
sue abitudini, stava rientrando a casa molto presto.
Non
albeggiava ancora, ma lui, chissà in quale parte dell’animo, sentiva che la
luce non sarebbe tornata più.
Sanguinava. Alla schiena, o forse più in alto, fra le scapole, da una
ferita aperta scorreva copioso del sangue, del sangue suo – solamente suo.Ne poteva percepire il calore, lungo la colonna vertebrale, come un ruscello di fuoco che si apra la strada sul pendio d’un vulcano, ed è esile, giovane, ma distruttore. Eppure non provava alcun dolore, il vulcano ch’era in lui si era spento quella stessa sera, una lampadina fulminata da un cortocircuito improvviso, e forse c’erano compiacimento e rimpianto e nessun segnale dal cuore.
Vergogna sì, giusto quella che basta a se stessa, che vince la finzione e si relaziona alla colpa, per misurarla e poterne sorridere.
Si era
trascinato lungo le strade con le gambe pesanti. Aveva bevuto? Sicuramente sì,
faceva parte del gioco, del suo personaggio, del ruolo di cattivo in un western
di serie B, di quelli moderni, dove i deboli hanno sempre ragione, e alla fine
vincono.
Era
dunque lui, il “forte”?
A
vederlo adesso, appoggiato ad un lampione semispento, con la barba lunga e le
vesti lacerate, nessuno gli avrebbe dato una lira. Ma non c’era nessuno, per
strada, a guardarlo. Peccato: a lui sarebbe piaciuto farsi vedere, reo
confesso, così in catene, schiacciato dal peso della condanna.
II
Gli
ultimi mesi del nostro eroe sanguinante erano stati vissuti al galoppo.
Una
corsa contro il tempo, contro tutto e tutti – in verità, anche contro se
stesso.
Il
vizio del gioco si era impadronito di lui – giocatore da sempre – e nient’altro
era esistito, tranne quello, nella sua nuova vita. Le carte, le fiches, l’odore dell’alcol e del tabacco
nell’aria buia lo facevano sentire vivo come non si era mai sentito.
La sua
mente, brillante sempre del resto, era lucida, folle, proiettata, sul tavolo da
gioco, verso la vittoria.
Nessuno
poteva resistergli. Aveva tutto, conosceva tutto, anche le carte nelle mani dei
suoi avversari, le loro mosse future. Si sentiva come un dio. E, ovviamente,
vinceva.Tutto ciò, tuttavia, non lo aveva cambiato dentro. In fondo, era sempre lui, misurato, controllato, sincero. Mai e poi mai, per vincere, avrebbe compiuto una scorrettezza; rispettava tutte le regole del gioco e, di conseguenza, tutti lo stimavano.
III
E poi,
cos’era accaduto?
Non lo
ricordava bene. C’era come una fitta nebbia che copriva quelle ultime ore.
Entrò
in un bar. Rimase in piedi, al banco, e ordinò un doppio whisky. Pensava che,
se si fosse seduto ad un tavolino, non si sarebbe alzato più.Il sangue continuava a scorrere, si allargava, e con lui il bisogno di capire, di fare luce.
Dove aveva sbagliato?
Era
successo tutto durante l’ultima mano.
Stava
vincendo, come sempre, ma nello sguardo dei suoi avversari aveva colto un
brillio insolito, minaccioso, pregno di morte – sembravano diversi da come li
aveva conosciuti prima e durante tutti quei mesi.
Arrivò
il doppio whisky. Ecco cosa gli avrebbe schiarito le idee.Chiuse gli occhi per catturare immagini lontane. Le prime ad arrivare gli fecero sentire di nuovo il battito del cuore – c’era ancora, allora, e pulsava come il sangue della ferita.
Erano immagini di partite lontane nel tempo, di quando quegli stessi avversari lo studiavano con circospezione, ne ammiravano la grazia dei gesti, lenti a scoprire le carte, l’intelligenza tattica, il bel volto tenebroso e malinconico. Sembrava quasi che amassero la sua bravura, che non dispiacesse loro di perdere. Ed il suo narcisismo si beava di quegli avidi sguardi, e li ricambiava.
Un altro bicchiere. Solo un altro e tutto gli sarà aperto. Allora, saprà.
IV
Stava
cominciando a capire?
Si era
sentito troppo sicuro di sé. Ed aveva iniziato ad abbassare la guardia, ad
avvicinarsi e mettersi in mostra, a non pensare più al gioco come finzione, ma
come alla vita vera. Ecco, c’era: aveva preso ad amare i suoi avversari.
Non gli
importava più dei soldi che aveva vinto, che continuava a vincere. Voleva
dell’altro. Voleva tutto. Voleva l’anima di chi gli stava di fronte. Era lui il
vincitore! Lui il persecutore! Lui il dio senza un segno di pietà per le sue
creature!
Pur
rispettando tutte le regole, pur essendo stato un giocatore generoso – spesso
aveva restituito la vincita ai perdenti, spesso li aveva aiutati, insegnando
loro l’arte del gioco -, aveva commesso la colpa suprema, quella che non si
perdona: aveva mescolato male le carte, le aveva distribuite solo in una
direzione e, che idiozia!, aveva giocato a carte scoperte…
V
Poteva
sentire l’odore del sangue.
Quando
uscì dal bar, barcollava. Qualcuno l’avrebbe aiutato?
Si
mosse in direzione di casa sua nel buio di una notte cattiva. La sua ultima
notte.
C’era
un barlume di saggezza ancora in lui, e gli diceva che non provava odio verso i
suoi accusatori. Verso i suoi giudici.
L’aveva
impressionato la loro sicurezza. Si capiva ch’era gente decisa, spietata,
incapace di sbagliare il colpo – anzi, incapace proprio di commettere sbagli
come lui.
“Forse,” si disse,”quando perdevano, era solo che mi facevano vincere,
volevano soltanto giocare con me”.
Eppure,
era certo che la sua colpa non meritasse tale accanimento: in fondo, erano
anche loro giocatori d’azzardo. Perché infierire così? Perché quell’ultima mano
era riuscita, da sola, a cancellare tutte le altre partite?
Il
colpo gli era arrivato all’improvviso, alle spalle, con la dolcezza delle
promesse mancate, delle parole inascoltate, dei baci andati a vuoto.Ora era tutto finito. I ricordi cominciavano a subire la dissolvenza del rimpianto e lo stesso sangue si era fermato, raggrumato nel fermo-immagine del nulla.
Gli
dispiaceva andarsene così. Era un giocatore sentimentale, di quelli che
vorrebbero morire con le carte fra le mani, o magari accanto all’avversario più
fedele.
Ma
tutto avvenne velocemente.
E non
si accorse neppure che la luce era tornata.
Che cosa aveva sbagliato il nostro eroe? Lui con il sangue mascherato dalla vergogna e dal mistero.Lui con il volto disegnato dalla nebbia. Lui senza rifugio,lui con l'anima venduta a chissà quale desiderio.Il nostro eroe.Lui - delirio della ragione.Aveva esagerato! Si;forse aveva proprio esagerato.
RispondiEliminaUno.Due.Tre.
Aveva camminato per troppo tempo in equilibrio;e poi? C'era stato quel passo falso.Quel passo troppo grande.Più grande del sogno,e troppo piccolo per la realtà.Non era più un dio,non era più lui che giocava con le vite degli altri,no. Erano cambiate le regole del gioco,stavolta qualcun altro si burlava di lui.
Allora chiuse gli occhi,senti un fuoco dentro,e il battito del cuore diventare sempre più forte:era il sangue,continuava a scorrere come i suoi ricordi,lentamente: gli ritornavano in mente tutte quelle volte in cui era stato seduto a quel tavolo,e soffriva,soffriva maledettamente.Nessuno riusciva a vederlo:sapeva cosa era il paradiso,ma era all'inferno. In catene.In trappola.Tra le fiamme.Le fiamme;quelle che bruciano dolorose con la forza e la bellezza delle cose che fanno male.E poi,cosa era successo? Il sangue si era fermato. Non era rimasto più nulla,se non le ceneri della rinascita,quelle di una fenice che risorge dal nulla,dal niente.
Giulia
Nel gioco delle parti c'è chi vince e chi perde. Ma vittoria e sconfitta hanno un confine esile, inesistente. Nel tempo, le parti si confondono, si capovolgono, diventano un unico, definitivo massacro. Come Socrate, è il nostro eroe: "Ma adesso io vado a morire, voi a vivere. Solo il dio sa quale via è la migliore"...Con affetto,
EliminaFrancesco
Racconto interessante e intrigante.Il" giocatore sentimentale" è destinato, comunque, ad essere sempre un vincente.
RispondiEliminaRosalba
Cara Rosalba, il "giocatore sentimentale" è vincente quando può volare. Se resta per terra, di fronte ai suoi avversari, perderà sempre. Con affetto,
EliminaFrancesco
La fragilità dell'uomo nel gioco della vita? E' questa la condanna? Grazie Francesco,ci hai regalato un altro bellissimo racconto.
RispondiEliminaLoredana
La fragilità e la responsabilità e la voglia di donarsi interamente ci rendono, inevitabilmente, esposti alle intemperie.
EliminaFrancesco
Nel gioco delle parti spesso si ricopre un ruolo per sentirsi più a proprio agio o perché meglio si confà alla propria natura.
RispondiEliminaPenso che il vero mistero stia nel capire se il nostro giocatore sia finto o vero: nel primo caso è un perdente, perché chi gioca d'azzardo sa di rischiare, e deve mettere in conto che la vittoria è spesso nelle mani del fato prima che dell'intelletto.
Nel secondo caso, sta bluffando, perché chi gioca d'azzardo ama confondere gli avversari per rimescolare le carte quando ha servito una mano sbagliata.
Almachilde
Realtà e finzione fanno parte della vita, ahimè, sempre. Ma il nostro giocatore è come il poeta di Pessoa, che "finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che veramente sente"...
EliminaFrancesco
La prima impressione, leggendo il racconto, è stata un senso di vicinanza e lontananza contemporaneamente; familiarità e distanza.
RispondiEliminaIl giocatore che pure conosce a perfezione le regole del gioco, si ritrova fuori dal gioco, estraneo a se stesso, alla sua stessa vita che si perde nel flusso del proprio sangue che sente colare dalla schiena; al contempo è estraneo al mondo intero: non riesce a decifrare l'enigma della sua morte, non sa cosa ha fatto di sbagliato per meritare la morte.E' estraneo al mattino che sorge, di cui non si accorge neanche. Molto bello!
Sandra