lunedì 18 febbraio 2013

La condanna

di Francesco Scrima
“Ma sulla gola di K. si posarono le mani di
uno dei due signori, mentre l’altro gli spingeva
il coltello in fondo al cuore rigirandolo due volte.
Con occhi ormai spenti K. vide ancora come
i signori, guancia a guancia davanti al suo volto,
spiavano l’attimo risolutivo. – Come un cane! – disse,
e fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere”.
(F.Kafka – Il processo)
   Per le sue abitudini, stava rientrando a casa molto presto.
   Non albeggiava ancora, ma lui, chissà in quale parte dell’animo, sentiva che la luce non sarebbe tornata più.
   Sanguinava. Alla schiena, o forse più in alto, fra le scapole, da una ferita aperta scorreva copioso del sangue, del sangue suo – solamente suo.


   Ne poteva percepire il calore, lungo la colonna vertebrale, come un ruscello di fuoco che si apra la strada sul pendio d’un vulcano, ed è esile, giovane, ma distruttore. Eppure non provava alcun dolore, il vulcano ch’era in lui si era spento quella stessa sera, una lampadina fulminata da un cortocircuito improvviso, e forse c’erano compiacimento e rimpianto e nessun segnale dal cuore.
   Vergogna sì, giusto quella che basta a se stessa, che vince la finzione e si relaziona alla colpa, per misurarla e poterne sorridere.
   Si era trascinato lungo le strade con le gambe pesanti. Aveva bevuto? Sicuramente sì, faceva parte del gioco, del suo personaggio, del ruolo di cattivo in un western di serie B, di quelli moderni, dove i deboli hanno sempre ragione, e alla fine vincono.
   Era dunque lui, il “forte”?
   A vederlo adesso, appoggiato ad un lampione semispento, con la barba lunga e le vesti lacerate, nessuno gli avrebbe dato una lira. Ma non c’era nessuno, per strada, a guardarlo. Peccato: a lui sarebbe piaciuto farsi vedere, reo confesso, così in catene, schiacciato dal peso della condanna.

 
II
 

   Gli ultimi mesi del nostro eroe sanguinante erano stati vissuti al galoppo.
   Una corsa contro il tempo, contro tutto e tutti – in verità, anche contro se stesso.
   Il vizio del gioco si era impadronito di lui – giocatore da sempre – e nient’altro era esistito, tranne quello, nella sua nuova vita. Le carte, le fiches, l’odore dell’alcol e del tabacco nell’aria buia lo facevano sentire vivo come non si era mai sentito.
   La sua mente, brillante sempre del resto, era lucida, folle, proiettata, sul tavolo da gioco, verso la vittoria.
   Nessuno poteva resistergli. Aveva tutto, conosceva tutto, anche le carte nelle mani dei suoi avversari, le loro mosse future. Si sentiva come un dio. E, ovviamente, vinceva.
   Tutto ciò, tuttavia, non lo aveva cambiato dentro. In fondo, era sempre lui, misurato, controllato, sincero. Mai e poi mai, per vincere, avrebbe compiuto una scorrettezza; rispettava tutte le regole del gioco e, di conseguenza, tutti lo stimavano.

 
III
 

   E poi, cos’era accaduto?
   Non lo ricordava bene. C’era come una fitta nebbia che copriva quelle ultime ore.
   Entrò in un bar. Rimase in piedi, al banco, e ordinò un doppio whisky. Pensava che, se si fosse seduto ad un tavolino, non si sarebbe alzato più.
   Il sangue continuava a scorrere, si allargava, e con lui il bisogno di capire, di fare luce.
   Dove aveva sbagliato?
   Era successo tutto durante l’ultima mano.
   Stava vincendo, come sempre, ma nello sguardo dei suoi avversari aveva colto un brillio insolito, minaccioso, pregno di morte – sembravano diversi da come li aveva conosciuti prima e durante tutti quei mesi.
   Arrivò il doppio whisky. Ecco cosa gli avrebbe schiarito le idee.
   Chiuse gli occhi per catturare immagini lontane. Le prime ad arrivare gli fecero sentire di nuovo il battito del cuore – c’era ancora, allora, e pulsava come il sangue della ferita.
   Erano immagini di partite lontane nel tempo, di quando quegli stessi avversari lo studiavano con circospezione, ne ammiravano la grazia dei gesti, lenti a scoprire le carte, l’intelligenza tattica, il bel volto tenebroso e malinconico. Sembrava quasi che amassero la sua bravura, che non dispiacesse loro di perdere. Ed il suo narcisismo si beava di quegli avidi sguardi, e li ricambiava.
   Un altro bicchiere. Solo un altro e tutto gli sarà aperto. Allora, saprà.


IV

 
   Stava cominciando a capire?
   Si era sentito troppo sicuro di sé. Ed aveva iniziato ad abbassare la guardia, ad avvicinarsi e mettersi in mostra, a non pensare più al gioco come finzione, ma come alla vita vera. Ecco, c’era: aveva preso ad amare i suoi avversari.
   Non gli importava più dei soldi che aveva vinto, che continuava a vincere. Voleva dell’altro. Voleva tutto. Voleva l’anima di chi gli stava di fronte. Era lui il vincitore! Lui il persecutore! Lui il dio senza un segno di pietà per le sue creature!
Pur rispettando tutte le regole, pur essendo stato un giocatore generoso – spesso aveva restituito la vincita ai perdenti, spesso li aveva aiutati, insegnando loro l’arte del gioco -, aveva commesso la colpa suprema, quella che non si perdona: aveva mescolato male le carte, le aveva distribuite solo in una direzione e, che idiozia!, aveva giocato a carte scoperte…

V

   Poteva sentire l’odore del sangue.
   Quando uscì dal bar, barcollava. Qualcuno l’avrebbe aiutato?
   Si mosse in direzione di casa sua nel buio di una notte cattiva. La sua ultima notte.
   C’era un barlume di saggezza ancora in lui, e gli diceva che non provava odio verso i suoi accusatori. Verso i suoi giudici.
   L’aveva impressionato la loro sicurezza. Si capiva ch’era gente decisa, spietata, incapace di sbagliare il colpo – anzi, incapace proprio di commettere sbagli come lui.
   “Forse,” si disse,”quando perdevano, era solo che mi facevano vincere, volevano soltanto giocare con me”.
   Eppure, era certo che la sua colpa non meritasse tale accanimento: in fondo, erano anche loro giocatori d’azzardo. Perché infierire così? Perché quell’ultima mano era riuscita, da sola, a cancellare tutte le altre partite?
   Il colpo gli era arrivato all’improvviso, alle spalle, con la dolcezza delle promesse mancate, delle parole inascoltate, dei baci andati a vuoto.
   Ora era tutto finito. I ricordi cominciavano a subire la dissolvenza del rimpianto e lo stesso sangue si era fermato, raggrumato nel fermo-immagine del nulla.
   Gli dispiaceva andarsene così. Era un giocatore sentimentale, di quelli che vorrebbero morire con le carte fra le mani, o magari accanto all’avversario più fedele.
   Ma tutto avvenne velocemente.
   E non si accorse neppure che la luce era tornata.
  

 

 

 

9 commenti:

  1. Che cosa aveva sbagliato il nostro eroe? Lui con il sangue mascherato dalla vergogna e dal mistero.Lui con il volto disegnato dalla nebbia. Lui senza rifugio,lui con l'anima venduta a chissà quale desiderio.Il nostro eroe.Lui - delirio della ragione.Aveva esagerato! Si;forse aveva proprio esagerato.
    Uno.Due.Tre.
    Aveva camminato per troppo tempo in equilibrio;e poi? C'era stato quel passo falso.Quel passo troppo grande.Più grande del sogno,e troppo piccolo per la realtà.Non era più un dio,non era più lui che giocava con le vite degli altri,no. Erano cambiate le regole del gioco,stavolta qualcun altro si burlava di lui.
    Allora chiuse gli occhi,senti un fuoco dentro,e il battito del cuore diventare sempre più forte:era il sangue,continuava a scorrere come i suoi ricordi,lentamente: gli ritornavano in mente tutte quelle volte in cui era stato seduto a quel tavolo,e soffriva,soffriva maledettamente.Nessuno riusciva a vederlo:sapeva cosa era il paradiso,ma era all'inferno. In catene.In trappola.Tra le fiamme.Le fiamme;quelle che bruciano dolorose con la forza e la bellezza delle cose che fanno male.E poi,cosa era successo? Il sangue si era fermato. Non era rimasto più nulla,se non le ceneri della rinascita,quelle di una fenice che risorge dal nulla,dal niente.

    Giulia

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    1. Nel gioco delle parti c'è chi vince e chi perde. Ma vittoria e sconfitta hanno un confine esile, inesistente. Nel tempo, le parti si confondono, si capovolgono, diventano un unico, definitivo massacro. Come Socrate, è il nostro eroe: "Ma adesso io vado a morire, voi a vivere. Solo il dio sa quale via è la migliore"...Con affetto,
      Francesco

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  2. Racconto interessante e intrigante.Il" giocatore sentimentale" è destinato, comunque, ad essere sempre un vincente.

    Rosalba

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    1. Cara Rosalba, il "giocatore sentimentale" è vincente quando può volare. Se resta per terra, di fronte ai suoi avversari, perderà sempre. Con affetto,
      Francesco

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  3. La fragilità dell'uomo nel gioco della vita? E' questa la condanna? Grazie Francesco,ci hai regalato un altro bellissimo racconto.
    Loredana

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    1. La fragilità e la responsabilità e la voglia di donarsi interamente ci rendono, inevitabilmente, esposti alle intemperie.
      Francesco

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  4. Nel gioco delle parti spesso si ricopre un ruolo per sentirsi più a proprio agio o perché meglio si confà alla propria natura.
    Penso che il vero mistero stia nel capire se il nostro giocatore sia finto o vero: nel primo caso è un perdente, perché chi gioca d'azzardo sa di rischiare, e deve mettere in conto che la vittoria è spesso nelle mani del fato prima che dell'intelletto.
    Nel secondo caso, sta bluffando, perché chi gioca d'azzardo ama confondere gli avversari per rimescolare le carte quando ha servito una mano sbagliata.

    Almachilde

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    1. Realtà e finzione fanno parte della vita, ahimè, sempre. Ma il nostro giocatore è come il poeta di Pessoa, che "finge così completamente che arriva a fingere che è dolore il dolore che veramente sente"...
      Francesco

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  5. La prima impressione, leggendo il racconto, è stata un senso di vicinanza e lontananza contemporaneamente; familiarità e distanza.
    Il giocatore che pure conosce a perfezione le regole del gioco, si ritrova fuori dal gioco, estraneo a se stesso, alla sua stessa vita che si perde nel flusso del proprio sangue che sente colare dalla schiena; al contempo è estraneo al mondo intero: non riesce a decifrare l'enigma della sua morte, non sa cosa ha fatto di sbagliato per meritare la morte.E' estraneo al mattino che sorge, di cui non si accorge neanche. Molto bello!
    Sandra

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