di Enzo Barone
Oggi voglio parlare del concetto di verità, non di quella
metafisica, assoluta, ma della relazione di carattere squisitamente retorico
che si instaura tra chi, comunicando, tenta di convincere della verità del suo
messaggio e coloro che questo messaggio ricevono e di come mutino di volta in
volta a seconda delle diverse necessità comunicative i relativi registri linguistici.
Mescolerò, lo dico subito, il sacro col profano. Veda il
lettore a quale casistica riferire l’uno e l’altro aggettivo.
In questi giorni vediamo invece in TV il Monti candidato, un
politico come gli altri, il leader di un partito e di una delle coalizioni in
lotta nell’agone elettorale.
Cominciamo parlando di Mario Monti, il premier uscente e
neocandidato premier alle prossime elezioni venture.
Dapprincipio, quando è stato invocato come provvidenziale
salvatore in una situazione economica del paese che appariva disperata, un pò
tutti (lo testimoniano sondaggi relativi ai primi suoi mesi di governo), senza
entrare ora nel merito strettamente politico sulle sue prime scelte, abbiamo
ammirato in lui, la serietà, la distinzione nei comportamenti, la sobrietà nei
modi, l’equilibrio delle esternazioni, la volontà di terzietà rispetto alla
bagarre politica, cioè la volontà di essere equidistante dalle parti
politicamente schierate, soprattutto l’immagine ben costruita di leader di stampo
nordeuropeo, sobria, discreta di un alto funzionario di stato e basta.
Apprezzavamo, sorpresi, il suo star fuori, con eleganza
anglosassone e con asepsi da tecnico, dalla commedia farsesca della scena politica
italiana, anche a costo di non rispondere a taluni duri attacchi personali.
Il Monti prima maniera, intendo dire il Monti fino allo
scioglimento delle camere, adoperava un linguaggio neutro, essenziale, con una comunicazione
puramente referenziale, da mero tecnico per l’appunto, un raro portatore di una
fragile, sgradevole, ma in qualche modo credibile parvenza di verità.
E tanto bastava per renderlo rivoluzionariamente diverso da
chi lo aveva preceduto.
Il Monti che ha – a dir suo soffrendo - scelto di scendere, pardon, salire,
nell’agone politico e diventare un candidato tra i tanti, che si è trovato
costretto a comunicare con i suoi potenziali elettori con le tecniche
retoriche, iconiche, massmediologiche di tutti gli altri, da mistificatore
cioè.
Intanto il professore ha in quattro e quattr’otto abrogato
l’immagine e deposto il linguaggio del
medico scrupoloso e coscienzioso, che ti dice freddamente, con assoluta
professionalità quali dolorose cure sono indispensabili per la sopravvivenza
dell’ammalato: ha per esempio ammorbidito la necessità imperscrutabile
dell’imposizione generalizzata dell’IMU, lasciando intravedere in futuro una
sua attenuazione (per gareggiare con chi prometteva di abolirla per il presente
e per il futuro).
Quindi, tra le altre cose, ha promesso una progressiva
riduzione dei carichi fiscali per i privati e le imprese (sempre per rintuzzare
le mirabolanti promesse del Cavaliere, suo concorrente); ha lasciato intendere
che obiettivo fondamentale del suo progetto politico è la creazione di posti di
lavoro (per contrastare sul suo terreno il messaggio principale di Bersani); ha
lasciato intravedere la speranza, anzi ci ha rassicurato su un futuro prossimo
di possibile ripresa e crescita per l’economia italiana (per coprire con la sua
voce di autorevole economista i potenti, maliosi canti delle sirene delle
altrui sponde).
Ha addirittura preso in diretta TV tra le sue premurose
braccia un cagnolino, che ha poi adottato, per rincorrere le furbate mediatiche
del Berlusconi del giorno prima e ha anche svelato con sincera commozione a
tutti di avere in realtà un cuore tenero, da nonno affettuoso e umanissimo per
i nipotini.
Il ricatto degli affetti, quelle forme puerili di appeal elettoralistico
made in USA per cui (Berlusconi a parte) noi italiani potevamo ancora,
tutto considerato, sorridere davanti a trovate simili dei Bush o degli Obama di
turno, con un sorriso di superiorità.
E dunque, tornando all’assunto principale dell’articolo, il
problema è questo: era verità umana, morale o almeno politica quella trasmessa dal
Monti prima maniera o quella che, con diverso stile e convinzione, ci trasmette
il Monti di oggi?
Nessuna delle due, diranno in tanti, il che potrebbe equivalere
però a dire, per assurdo, tutte e due.
Per quanto appaia incongrua, sul concetto di retorica e di
verità mi è giunto in soccorso bizzarramente una mia lettura di questi giorni del
Notturno dannunziano. Mi riferisco alla intenzione comunicativa e il registro linguistico
dell’opera.
Il Notturno, come molti sanno, si sviluppa su tre piani
narrativi, ma anche su due registri comunicativi diversi.
In uno di questi registri, quello iniziale, lo scrittore,
ferito ad un occhio durante una missione aerea e costretto ad una cecità e ad
una immobilità forzate, si esprime con una inedita, sorprendente (almeno
per il Dannunzio più consueto) sincerità; instaura un dialogo disarmato,
diretto, confidenziale col lettore.
E’ il Dannunzio che non ti aspetti, che non si vergogna di
apparire debole, senza difese, che dà mostra di rivelare, senza più prosopopee
estetizzanti, il suo io più vero; svela le sue emozioni, usando un inedito linguaggio
fatto di frasi brevi o di periodi paratattici, da confessione vera e intima,
appunto.
L’oggetto letterario vuole apparire narrativamente come
semplicemente corrispondente ai moti d’animo del soggetto che lo produce,
facendosi verità, letteraria, ma pur sempre verità.
L’opera presenta però un secondo registro, quello più consumatamente
dannunziano, quello con cui riconosciamo generalmente lo scrittore e cioè
quello dell’esteta estenuato che ricama preziosi arabeschi attorno al mito
della bella impresa, della bella morte, della bella guerra.
E’ proprio qui che mi si presenta alla porta, come un ospite
inatteso, il confronto: il nostro poeta-vate è più autentico quando adopera il
primo registro comunicativo o quando ritorna a quello consueto?
Quando dice la verità, nel primo o nel secondo caso?
Bisognerebbe prima però che ci si metta d’accordo sul
concetto, sull’idea di verità.
Se per verità si intende “ciò che corrisponde esattamente a
una rappresentazione astratta del vero e che viene considerato certo, assoluto
o inconfutabile” oppure più semplicemente “ciò che corrisponde esattamente a una determinata realtà”, come da
vocabolario Zanichelli, è evidente che siamo del tutto fuori strada: non è
questa la verità di cui potrebbero essere portatori i nostri due personaggi.
E proprio a questo punto il vate pescarese mi ha rivelato,
con la potenza diabolica di ogni paradosso, la chiave di lettura possibile per
comprendere come molti italiani possano oggi - e forse anche fra qualche giorno
– pensare veridico, credibile il nuovo Monti politicante, demagogo, predatore
d’affetti, venditore di speranze, dimenticando che prima hanno creduto invece nel
Monti statista affidabile, economista autorevole, Cincinnato e uomo della
provvidenza al di sopra delle parti.
Perché in fondo la sorpresa che proviamo infatti nel vedere nel
Notturno il Dannunzio intimo cedere la penna presto al Dannunzio trombone auto
incensante è assimilabile a quella di metabolizzare il Monti bifronte.
Seguitemi: davanti alle perplessità dannunziane tutti,
critici e lettori, risolviamo a buona ragione la questione ritenendo in
definitiva più autentico il Dannunzio retore-mistificatore?
Perché, per quali ragioni? E per quali ragioni tirare in ballo un confronto tra un poeta del passato e un politico di oggi?
Perché, per quali ragioni? E per quali ragioni tirare in ballo un confronto tra un poeta del passato e un politico di oggi?
Perché ci accorgiamo che per entrambi, nel momento in cui adoperano una comunicazione persuasiva, la verità non va
ricercata nella corrispondenza di un messaggio ad una determinata realtà oggettiva.
Per il poeta, esattamente come per il Monti politicante, la
verità consiste unicamente nella verità retorica o meglio nella vera retorica.
Se cioè la retorica è l’insieme di artifici formali
adoperati per convincere il lettore o l'ascoltatore di determinati principi,
tesi, idee, allora certamente Dannunzio e Monti, siccome sembrano dare somma importanza più che ad ogni altra cosa a far passare il messaggio retorico, sono più veri quando sono retorici e non
quando si confidano al lettore/ascoltatore.
Per assurdo quindi la volontà di condurre a sé qualcuno,
usando ogni tecnica utile a trasformare il messaggio in volontà e la volontà in
fede, nell’ambito di una comunicazione persuasiva (non espressiva o
referenziale), corrisponde più fedelmente al più profondo desiderio del comunicatore
stesso. Più di ogni suo manifestare sé stesso, in modo
diretto, come sobrio comunicatore di un linguaggio referenziale, senza orpelli,
cose queste che, forse, per il retore, sarebbero paradossalmente la vera retorica, nella
sua accezione peggiore stavolta.
Un persuasore insomma è più vero quando fa il suo mestiere,
non quando afferma di dire il vero.
E’ una verità speciale quindi, quella dei due retori, una
verità che non significa che ciò che essi affermano corrisponda al reale, ma
che invece corrisponde assai più intimamente alle intenzioni vere del loro io.
Ma è pur sempre una qualche verità…se vogliamo.
Ecco perché mutatis mutandis, se dovessi dirimere io la
questione sul professore, crederei più al Monti retorico e demagogo di oggi,
piuttosto che al Monti vecchia maniera, al disinteressato salvatore della
patria, senza macchia né paura, come Zorro.
Grazie. Scritti come questi sono salutari per la mente di ciascuno.L'ho letto di un fiato e lo rileggerò
RispondiEliminaun buon tentativo di "svelamento", interessante anche il parallelo letterario...
RispondiEliminaennio