di Raimondo Augello
Alle 18.57 del 28 marzo 1997,
Quel giorno, in applicazione con gli accordi siglati tra il governo Prodi e quello del corrotto Salim Berisha, nelle acque pugliesi viene inviata la Sibilla per invitare con un megafono l’imbarcazione albanese a cambiare rotta; dall’alto un elicottero sorveglia la scena. Quanto accade nei minuti seguenti, proviamo a ricostruirlo con l’ausilio delle dichiarazioni dei superstiti, pubblicate dall’Osservatorio sui Balcani di Brindisi: LA SIBILLA , SEMBRA SCOMPARSA, PENSIAMO DI ESSERE STATI LASCIATI IN PACE, QUANDO ALLE 18,55…CI APPARE, A TUTTA VELOCITA’, A LUCI SPENTE LA PRUA DELLA SIBILLA, CHE CI VIENE ADDOSSO DA DIETRO E CI COLPISCE A DESTRA, SUL FIANCO, VICINO ALLA POPPA.
Questo ed altro raccontano quelle dichiarazioni. Certo è che al di là di come nel dettaglio andarono le cose, rimane la responsabilità politica e morale di un governo che non ha voluto o non ha saputo (fate voi cosa sia peggio!) prevenire la cronaca di una strage di innocenti annunciata, incapace di opporsi ad una barbara deriva populista e xenofoba dai tragici esiti.
Ciò che forse è ancora più grave, ciò che offende una seconda volta la memoria di quei morti, è il muro di gomma contro cui ogni tentativo di ricostruire i fatti per stabilire le responsabilità è andato a cozzare. Buona parte delle registrazioni delle conversazioni tra le centrali operative e le navi sono state manomesse o sono sparite: l’italica pratica dell’insabbiamento e del depistaggio è tornata ad offrire il meglio sé. Gli accertamenti giudiziari lasciano sostanzialmente impunita la strage (l’ennesima!): assolti i vertici della marina (i cui ordini, naturalmente, non possono essere stati frutto di una gestione “casuale” della vicenda, ma furono espressione di una volontà “politica” i cui responsabili vanno sicuramente ricercati più in alto). Alla fine gli unici colpevoli, condannati a pene lievi, sono il comandante della Kater e quello della Sibilla, una sorta di “concorso di colpa”, una conclusione insomma degna, come afferma la giornalista Paola Zanuttini di Repubblica, più di un incidente stradale che di una strage, lo ripetiamo, “politica”.Nel suo lavoro Leogrande restituisce voce a chi non ne ha più, percorre l’Albania in cerca delle testimonianze degli scampati o dei parenti delle vittime, delle associazioni antirazzismo, analizza le carte processuali, per ricavarne le tessere che possano contribuire a ricostruire parte di quel mosaico che è “la somma di tanti abissi individuali, privati, ognuno dei quali è incommensurabile, intraducibile, mai pienamente narrabile”. Una vicenda che, al dire di Leogrande, appare come paradigma e al contempo spartiacque nella nostra storia, una strage, osserva l’autore, costata, tra morti e dispersi, 81 vite umane, esattamente quanto la strage di Ustica, con la quale presenta inquietanti analogie, ma della quale ormai quasi nessuno si ricorda, forse a causa della nazionalità di quelle vittime. Un esempio di giornalismo, quello del Leogrande, al quale tutti dovremmo guardare come modello di libertà intellettuale e di coraggio civile.
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