di Francesco Scrima
“… e un ridere rauco/
e ricordi tanti/
e nemmeno un rimpianto”.
(F. De Andrè - Il suonatore Jones)
Esordio
Ora
che i vostri occhi sono tutti puntati su di me, ora che ogni vostro indice mi
sceglierà come obiettivo da colpire, ora che sono qui, davanti a voi, cercherò,
signori giudici, di spiegarvi i fatti, tutti i fatti recenti.
Non ci
sarà finzione, vi prego di credermi: ascolterete soltanto le ultime parole,
quelle di uno che si è già condannato da solo alla solitudine eterna, come gli
ultimi battiti di un cuore che si spegne.
Vi
avviso, signori cari : sono bravo con le parole. Sono nato in mezzo a loro e
con loro cresciuto fino a diventare un mostro da disprezzare, un solitario
essere dell'aria, irraggiungibile e inconoscibile, il dio nascosto, il Poeta,
cui nulla è dovuto ma che possiede l'arma micidiale: la parola alata.
Volete
sapere cosa accadde, dopo?
Parte prima: genesi
Con la mia arte a disposizione, non c'era
bisogno di amare: bastava crearne l'artificio, camuffare sogni e bisogni,
dipingere l'atmosfera dell'infinito che aiuta i cuori a pulsare, le labbra ad
incontrarsi, i corpi a fremere di piacere, mentre la vita, a poco a poco, se ne
va.
Una
mente in fiamme: era già sufficiente a suggerire l'inferno e il paradiso, gli amanti sull'orlo
dell'abisso.
Non
ridete di me. Era proprio così: ogni verso cesellato sul pentagramma di Eros
avrebbe sempre sconfitto la vita reale, il banale affannarsi quotidiano, tutte
le sordide passioni quotidiane degli umani. Loro sospiravano, piangevano,
urlavano e si strappavano le anime; a me, Orfeo e Lino e Apollo insieme,
bastava un tocco leggero, et voilà,
tutto l'universo traboccava di colori e piaceri, di ninfe e amorini, satiri e
menadi sfrenati.
Non
c'era nulla che potesse fermarmi. Nulla.
E
allora, vi state chiedendo, perché sei
qui, ora, davanti a noi, fra due guardie rigide, le manette ai polsi, come un volgare ladro?
È presto detto, cari giudici: ma dovrete avere
ancora un po' di pazienza e tutto vi sarà chiaro.
Immaginate un piccolo essere grazioso. Niente più che due occhi che
s'abbassano per non guardarvi, due giovani guance che arrossiscono di pudore e
vergogna per essere state troppo audaci, una piccola mano di cristallo che
trattiene qualcosa, un foglio, due fogli, pronti a volare verso di voi, diritti
nel cuore. E poi?
E poi,
basta. A parte l'Inferno.
C'era
un tunnel, un silenzio soffocato da voci lontane, un vuoto di luce che
s'espandeva, e tu lì, invasato da te stesso, e
già pronto a cedere ogni pezzo dell'anima - la dignità dell'Arte!
Il
gioco era appena iniziato, il dado tratto, il baluginio delle armi ad incendiare
il cielo, eppure non sembrava finzione, non a me, e perfino le mie
vecchie-nuove parole non suonavano le
stesse di sempre: avevano ali più forti, più dolorose, e rimbalzavano nel
sangue come se volessero esplodere.
Cercate
di comprendermi, voi che mi dovrete giudicare, voi che non vorrete perdonarmi –
SCIRENT SI IGNOSCERE MANES – , era
proprio quella, l’esplosione, a mascherare il poeta da uomo, ovvero a
smascherarne i fragili contorni di onesta voluttà: l’Eros si era lasciato alle
spalle le favole del mito, le orge bacchiche, i desideri sfrenati di Priapo.
Tutto
era tornato come all’inizio dell’universo. Euridice aveva rivisto la luce,
Medea riabbracciato i propri figli. Ogni cosa prima del nulla. La genesi prima
del sangue.
Parte seconda: agnitio
Che
potete saperne, voi, del dolore?
Con
quale arbitrio mi giudicherete, cari signori, se non avete mai conosciuto
l’odore della pelle che vi s’attacca addosso?
se il mattino non vi ha mai colpito con quel raggio acuminato che apre
le viscere e si propaga nella mente? se
l’arrivo della sera, vestita di cobalto e di lavanda, non vi ha recato con sé
un turbinio di ricordi e rimpianti e grevi malinconie, depositandoli ai vostri piedi e lasciandovi annichiliti?
Vedete,
non sono cattivo, né perverso, ma so bene che nessun uomo può possedere più
bene di quanto ne sappia contenere il suo cuore: quello che avanza, prima o
poi, diventa fiele, e sangue, e cumuli su cumuli di macerie.
Ma
lasciate che continui. Anche un assassino ha diritto a qualcosa; no, non al
perdono, di cui, del resto, se ne infischia , e nemmeno alla comprensione, che
non serve a nulla. Il poeta-assassino vuole soltanto rappresentare la propria
colpa e addolcirla fino al punto da poterla amare, perché è quello – l’Amore - che
l’ha generata.
L’inizio è solo saper riconoscere. Fare luce, nell’oscuro groviglio, su
qualcosa che vale la pena, o così sembra; su ciò in cui ti sei specchiato, e
l’hai riconosciuto, ci hai letto dentro e ti è piaciuto farlo.
Prima
dell’inizio, c’è un mare confuso di nebbia e passioni lontane. Sono sepolte, da
qualche parte, come foto che hai messo da parte e non sai (non vuoi sapere) se
esistono ancora, e le dimentichi, le perdi, non le cerchi più perché sono brave
solo a farti del male.
Prima
dell’inizio, c’è anche silenzio. Oppure le parole di ogni giorno, quelle che
conducono sempre nel solito posto, tranquillo, caldo, una grigia coperta che
protegge dal freddo della notte, e la tieni vicina non sai più se per abitudine
o per allontanare i tuoi fantasmi.
Prima
dell’inizio, c’è un vuoto che hai deciso da tempo di voler riempire solamente
con l’inganno delle parole dell’arte: rime baciate o incrociate, e tante figure
retoriche che riflettono il nulla.
Parte terza : Amore e Psiche
Ve lo racconterò, strappando a forza la lama
dalle carni e scavando in quel che resta.
Ci
credereste, sommi giudici, se vi dicessi che quel che vidi, all’inizio, era
solo un fragile e minuscolo abitante di un mondo invisibile?
La
rivedo come fosse qui, adesso: le pupille guardano verso un luogo che non c’è,
infinitamente grande e infinitamente piccolo, un luogo che solo quegli occhi
scorgono e senza di essi non esiste.
Tu
quegli occhi vorresti scioglierli dentro di te, come un dolce sciroppo che
vinca gli affanni dell’anima, acciuffare lo sguardo che sorride di avida vita a
qualcuno, e farlo prigioniero per sempre.
C’è una
linea sottile, invisibile a tutti ma non a te, lungo l’asse che dalla fronte
scende, crudele, fino al mento, che un ignoto artista ha disegnato, e quella
linea dice che non c’è più guerra nel mondo, non c’è altro che amore, o
l’attesa di qualcosa che si chiamerà così, che sarà luce, sarà un lunghissimo
sguardo di luce.
Cosa
dite? Volete anche conoscere il resto?
Il
resto è accanto a voi, ascoltatene le
parole, vergini alate che la bocca carnosa sussurra al silenzio, e le labbra
hanno il colore del sangue, e chiamano altro sangue – non lo sentite? –
umettando di sé ogni particella attorno.
Se la
linea si piega nella roteazione del collo, l’ovale del viso – divinum opus – è una sfera di fuoco
pronta a incendiare il cielo, a scuotere gli abissi degli oceani, ridestando
tutte le sopite passioni. E i capelli scivolano lentamente a coprire luoghi
segreti , che una mano invidiata solcherà, impassibile e ferma, per i secoli
dei secoli, fino alla fine del tempo.
Ecco,
di quell’essere io fui subito l’amante invisibile. Eros che nasconde la sua
Psiche nella stanza più nascosta di un palazzo incantato, e la coltiva come un
tenero fiore, e, nel buio più fitto, la ama con la passione di un giovane dio e
con la delicatezza di un pedagogo che accarezza la sua creatura per provarla
alla vita.
Non può
svelare il suo volto, il dio-maestro, non può farla sua per sempre, ché di un
essere mortale si tratta, ma ogni notte è lì, accanto a lei, abbandonato e
stupito, come in un sogno infinito. Ma non è infinito, come tutte le cose
belle. È fragile, evanescente, un petalo di rosa selvatica, e vittima
dell’altrui invidia.
Le
sorelle di Psiche vorrebbero, anch’ esse, un amante siffatto, miei stimati
giudici, e spingono la fanciulla al gesto proibito: vedere ciò che non si può.
E così il sogno svanisce, l’olio della lampada brucia pelle e magia; Eros ne
rimane tramortito.
C’è un
finale, in questa favola bella? Sicuro, miei cari, ed è lieto, ma soltanto nel
mito. La vita reale è tutta un’altra cosa.
E,
dunque, anch’io, Eros bruciato dalla fiamma, tenterò di spiegarvi la mia scelta
e di raccontarvi, in questo finale, come morì la mia fragile Psiche.
Parte quarta: Amore e
Morte
Dietro
ogni bella favola c’è una storia tragica; dietro ogni mito, umane passioni, e
lacrime e sangue. Dietro ogni amore, il volto della morte.
Chissà
cos’è che ci rende così fragili.
Forse è
che non vogliamo essere forti, non ci affascina lo scorrere del tempo o la
strada che ci porta sempre a casa. Vogliamo di più.
Nella
mia storia d’amore, o sommi interpreti della legge, non c’è stato mai spazio
per la normalità: nel bene e nel male,
ogni gesto ogni carezza ogni parola non sarebbero mai stati, per me e per lei,
quel solito gesto quella solita carezza quella solita parola.
Non
eravamo fatti per essere l’una dell’altro, ma l’una nel sangue dell’altro – e
viceversa. E il sangue genera sangue.
È stato
tutto molto bello. Il tempo si è fermato in un soffio di luce infinita, dove
ciò che accadeva poteva essere per sempre – lo scambio perfetto di pelle e
odori e sudori – proprio perché era solo lì, in quell’attimo.
Non
potevo non volerne la fine, capite?
A chi,
se non al dio creatore, è concesso di porre fine alle cose belle? Anzi, proprio
alle sue creature più giovani e più belle?
Deve
farlo lui. Non può aspettare ch’esse
muoiano da sole.
Ecco,
miei cari carnefici, cosa è successo a me, e non m’importa di quello che mi
accadrà. Sono pronto a tutto: nessun dio regna per sempre. Ho fatto quello che
era necessario fare. C’è un solo limite alle azioni umane, e questo è l’amore.
Ed è più facile uccidere che amare.
Quando
ho visto il suo sorriso dilagare su quella bocca desiderata, le sue braccia
protendersi nell’atto del perdono e dell’offerta, il suo seno spingersi su di
me come un dono pietoso, le mie mani si sono strette attorno a lei.
Ho sentito
le sue ultime rauche parole.
Ho
pensato all’ultimo orgasmo fatale.
Ho
respirato il suo respiro che tremava e godeva di quell’abbraccio.
Stavo
componendo la mia ultima poesia, la più vera, e la recitavo anche, beandomi
dell’inebriante sapore del possesso.
E ora,
se volete, mi esibirò anche per voi nella più assoluta delle recite, quella
dell’amore e della morte. Reciterò i versi
della mia poesia: ascoltate!
“Troppi
luoghi tormentano il tuo tempo.
Troppo
luoghi
dicono che
i tramonti fanno male –
che non
sempre al giorno segue un altro giorno –
ch’è più
dolce il silenzio d’uno sguardo
di mille
parole chiuse dentro gli occhi”.
Epilogo in forma
d’apologia
Ora che
non ci sei più, sei finalmente, totalmente, mia.
Non
illuderti: non ti terrò a lungo, se non nelle pieghe dei miei sogni, laddove
confluiscono i ricordi di quello che è stato e di quello che poteva essere.
Farmi del male, non è il mio esercizio quotidiano – ed il tuo non lo sarà più, ma belle dame sans merci.
C’è
stato un momento, tanto tempo fa, in cui ho creduto di conoscerti; ed un altro
– non troppo tempo dopo – in cui ho pensato di riconoscere in te quello che
avevo dimenticato. Non era così.
C’era
solo l’amore che poteva salvarti – e, per quello, bastavano mani forti ed un
esile collo da accarezzare.
Non
avrei potuto pensarti diversamente, non senza di me, non con me. Ed io non ho
mai avuto troppo coraggio. Sono un misero poeta, io, mentre a te sarebbe
servito qualcuno che ti potesse portare sempre i pezzi di legno che lanciavi
lontano di continuo – che so? un atleta o un acrobata da circo.
Eppure
la tua bellezza aveva un suo stile. Eri un animale predatore – e femmina in
ogni centimetro della pelle.
Nessun
rimpianto, adesso; niente di niente. HO ESAURITO LA MIA SCORTA DI NOSTALGIA. Soltanto un senso di liberazione
che si è fatto largo fra il tuo corpo,
disteso per terra, e la mia anima, condannata all’oltraggio del rimorso. Eppure
non c’è spazio per il rimorso nei tuoi confronti.
Non
credevo, che avrei avuto il coraggio di farlo, ma il coraggio di uccidere viene
sempre, anche ai miti; è il coraggio di vivere quello che non verrà mai a
trovarmi. Neppure nel luogo senza luce e senza tempo dove fra un po’ mi
condurranno.
Cos’altro dire? Credo di aver detto tutto.
E
dunque basta parole, basta poesia. Meglio un addio, no, un arrivederci, un
ultimo “ ti amo” lungo come un tramonto, come un volo d’aquila solitaria, come
una promessa lanciata da un balcone…
Grazie a te per non aver temuto lo sguardo di Marica.
RispondiEliminaMario
Non comprendo il senso di questo commento, che, fra l'altro, è identico alla mia risposta ad un commento di Giulia su L'angelo del mare (mio primo racconto su Palingenesi con il personaggio di Marica!).
EliminaC'è un errore tecnico o cosa? Mario può rispondermi?
Francesco Scrima
Lirico, delicato, suggestivo, come ti è consueto.
RispondiEliminaEnzo
Grazie per il sempre affettuoso commento. Che ne pensi di quello di "Mario"? (Vedi sopra). Ti abbraccio,
EliminaFrancesco
Qualcuno dovrebbe spiegarti che scrivere qualcosa di decente non significa riempirla di ridondanti citazioni che lasciano soltanto trasparire superbia.
RispondiEliminaDavide
Ma perchè te la prendi tanto, mio caro Davide? Non è che mi dispiaccia tanto il girone dei superbi. E a te, quello degli invidiosi? Di spiegazioni, poi, sono sempre avido. Vedi, a tre peccati capitali ci siamo già...I miei rispetti,
EliminaFrancesco
Il dio-poeta è un essere sublime: mezzo dio e mezzo uomo. È figlio dei pensieri della notte e del cielo il dio-poeta: tanto vicino alle stelle quanto agli uomini. È dannato all'elegante tormento,conosce bene la solitudine eterna - Orfeo senza la sua Euridice. Lui danza con le anime,ne conosce ogni lacrima d'inquietudine, sente sulla sua pelle il calore che porta con sé l'alba, conosce il malessere che diviene arte - parole soavi che danno sollievo ai cuori.Il dio-poeta è vittima della realtà - schiavo di tutto ciò che si cela dietro i sospiri del nulla.Sa cosa significa sognare il dio-poeta:cammina per i luoghi della mente,viaggia per le strade del cuore.Il dio-poeta si arrende alla bellezza femminile della sua Psiche: ai suoi che scrutano l'immensità,vorrebbe vivere in quello sguardo,ne brama l'infinità che tanto osservano.Vuol possedere le labbra della sua Psiche il dio-poeta, labbra che sussurrano al vento i segreti del cielo.Rincorre l' anima della sua amata nel vuoto della notte il dio-poeta. Lui non conosce la giusta misura,quella che serve alle mani degli amanti per stringersi e non lasciarsi mai più; il dio -poeta è talmente vicino all'infinito da non saper mormorare alla finitezza dell'essere.
RispondiEliminaAma troppo.E poi è sangue.
Amore.
Morte.
Amore e morte - un unico sguardo.
Orfeo che desidera riconoscere Euridice,e la condanna a morte,per sempre.
Amore e morte. Per sempre.
Giulia
Il dio-poeta non sa vivere nella terra di tutti. Il poeta-assassino conosce un solo modo per vivere, ed è questa la sua condanna.
EliminaFrancesco
Non occorre dispiegare un'impertinemte provocazione associativa(di cui mi scuso)che ha sortito gli effetti attesi, di fronte agli occhi vivi di quella cecità omerica che consente al poeta di girare tra i morti per cantare la vita.
EliminaMisurarsi con lo sguardo di Orfeo(di cui mi permetto di segnalare le letture di M.Blanchot, G.Benn e R.M.Rilke)rappresenta una sintesi creatrice che mobilita e trasforma la rigidità degli opposti "amore" e "morte", presuppone un Io sufficientemente forte per sopportare il dramma del conflitto e della lacerazione, un Io debole soccorrerebbe alla nevrosi e al protettivo inconscio collettivo.
Con vivo apprezzamento per questa tua eccellente produzione poetica.
Mario
errata corrige:"un Io debole soccomberebbe alla nevrosi..." Mario
EliminaRacconto elegiaco che trova nella prosa poetica la sua propria forma. Grazie per le emozioni che nel pieno della maturità artistica regali ai tuoi lettori. Complimenti davvero!
RispondiEliminaRosalba
Grazie a te, come sempre attenta e fedele lettrice, e scusami per il ritardo con cui ho risposto.
EliminaFrancesco
" .... Il poeta-assassino vuole soltanto rappresentare la propria colpa e addolcirla fino al punto da poterla amare, perché è quello – l’Amore - che l’ha generata ...... "
RispondiEliminanon è questo in fin dei conti, l'unico modo per vivere? dio, poeta, uomo, assassino?
sentire il peso schiacciante della propria colpa e, piuttosto che il pentimento per l'epilogo, cercare in ciò che l'ha generata l'unico sentimento che libera dal dolore della condanna: l'amore! l'amore che permette di poter amare anche le proprie colpe.
Sento di dover chiedere scusa a tutti, a te per primo caro Francesco, della mia mia pretesa di voler essere qui con un mio contributo, io, umile essere che si ciba quasi esclusivamente di numeri in mezzo a chi genera arte e a chi sa leggere l'arte. Forse siamo tutti un po' superbi. Grazie comunque di non vergognarti della tua, che permette quelle citazioni che arricchiscono gli ignoranti come me.
Maria
Sono io, sempre, a ringraziare i miei lettori, cara Mariella, e poi non esistono letture colte e no, esiste solo la capacità di condividere ed essere empatici. E poi mi stimolano le critiche, ma anche il garbo, l'humanitas che dovrebbe accompagnarle.
RispondiEliminaP.S. Anche i numeri sono Arte!
Francesco
Caro Francesco ho letto il tuo racconto, bellissimi la struttura drammaturgica del testo,l'ossimoro del poeta-assassino,colui che crea la vita nelle parole ed è anche artefice di morte, il ritmo narrativo affabulante. Grazie, Loredana
RispondiEliminaCara Loredana, il creatore-amante-mostro è quello di Baudelaire: "assapora/il seno martoriato di un'antica puttana/arraffiamo al passaggio piaceri clandestini/e li spremiamo come vecchie arance".
EliminaGrazie per i complimenti,
Francesco