sabato 23 marzo 2013

L'ultima recita (Accusa e apologia)

 
di Francesco Scrima
“… e un ridere rauco/
e ricordi tanti/
e nemmeno un rimpianto”.
(F. De Andrè - Il suonatore Jones)
 
Esordio
 
    Ora che i vostri occhi sono tutti puntati su di me, ora che ogni vostro indice mi sceglierà come obiettivo da colpire, ora che sono qui, davanti a voi, cercherò, signori giudici, di spiegarvi i fatti, tutti i fatti recenti.
   Non ci sarà finzione, vi prego di credermi: ascolterete soltanto le ultime parole, quelle di uno che si è già condannato da solo alla solitudine eterna, come gli ultimi battiti di un cuore che si spegne.



Parte prima: genesi
 

    Vi avviso, signori cari : sono bravo con le parole. Sono nato in mezzo a loro e con loro cresciuto fino a diventare un mostro da disprezzare, un solitario essere dell'aria, irraggiungibile e inconoscibile, il dio nascosto, il Poeta, cui nulla è dovuto ma che possiede l'arma micidiale: la parola  alata.
    Con la mia arte a disposizione, non c'era bisogno di amare: bastava crearne l'artificio, camuffare sogni e bisogni, dipingere l'atmosfera dell'infinito che aiuta i cuori a pulsare, le labbra ad incontrarsi, i corpi a fremere di piacere, mentre la vita, a poco a poco, se ne va.
   Una mente in fiamme: era già sufficiente a suggerire  l'inferno e il paradiso, gli amanti sull'orlo dell'abisso.
   Non ridete di me. Era proprio così: ogni verso cesellato sul pentagramma di Eros avrebbe sempre sconfitto la vita reale, il banale affannarsi quotidiano, tutte le sordide passioni quotidiane degli umani. Loro sospiravano, piangevano, urlavano e si strappavano le anime; a me, Orfeo e Lino e Apollo insieme, bastava un tocco leggero, et voilà, tutto l'universo traboccava di colori e piaceri, di ninfe e amorini, satiri e menadi sfrenati.
   Non c'era nulla che potesse fermarmi. Nulla.
   E allora, vi state chiedendo,  perché sei qui, ora, davanti a noi, fra due guardie rigide,  le manette ai polsi, come un volgare ladro?
   È  presto detto, cari giudici: ma dovrete avere ancora un po' di pazienza e tutto vi sarà chiaro.
   Immaginate un piccolo essere grazioso. Niente più che due occhi che s'abbassano per non guardarvi, due giovani guance che arrossiscono di pudore e vergogna per essere state troppo audaci, una piccola mano di cristallo che trattiene qualcosa, un foglio, due fogli, pronti a volare verso di voi, diritti nel cuore. E poi?
   E poi, basta. A parte l'Inferno.
   C'era un tunnel, un silenzio soffocato da voci lontane, un vuoto di luce che s'espandeva, e tu lì, invasato da te stesso, e  già pronto a cedere ogni pezzo dell'anima - la dignità dell'Arte! 
   Il gioco era appena iniziato, il dado tratto, il baluginio delle armi ad incendiare il cielo, eppure non sembrava finzione, non a me, e perfino le mie vecchie-nuove parole  non suonavano le stesse di sempre: avevano ali più forti, più dolorose, e rimbalzavano nel sangue come se volessero esplodere.
   Cercate di comprendermi, voi che mi dovrete giudicare, voi che non vorrete perdonarmi – SCIRENT SI IGNOSCERE MANES – , era proprio quella, l’esplosione, a mascherare il poeta da uomo, ovvero a smascherarne i fragili contorni di onesta voluttà: l’Eros si era lasciato alle spalle le favole del mito, le orge bacchiche, i desideri sfrenati di Priapo.
   Tutto era tornato come all’inizio dell’universo. Euridice aveva rivisto la luce, Medea riabbracciato i propri figli. Ogni cosa prima del nulla. La genesi prima del sangue.


Parte seconda: agnitio
 
 
   Che potete saperne, voi, del dolore?
   Con quale arbitrio mi giudicherete, cari signori, se non avete mai conosciuto l’odore della pelle che vi s’attacca addosso?  se il mattino non vi ha mai colpito con quel raggio acuminato che apre le viscere e si propaga nella mente?  se l’arrivo della sera, vestita di cobalto e di lavanda, non vi ha recato con sé un turbinio di ricordi e rimpianti e grevi malinconie, depositandoli  ai vostri piedi e lasciandovi annichiliti?
   Vedete, non sono cattivo, né perverso, ma so bene che nessun uomo può possedere più bene di quanto ne sappia contenere il suo cuore: quello che avanza, prima o poi, diventa fiele, e sangue, e cumuli su cumuli di macerie.
   Ma lasciate che continui. Anche un assassino ha diritto a qualcosa; no, non al perdono, di cui, del resto, se ne infischia , e nemmeno alla comprensione, che non serve a nulla. Il poeta-assassino vuole soltanto rappresentare la propria colpa e addolcirla fino al punto da poterla amare, perché è quello – l’Amore - che l’ha generata.
   L’inizio è solo saper riconoscere. Fare luce, nell’oscuro groviglio, su qualcosa che vale la pena, o così sembra; su ciò in cui ti sei specchiato, e l’hai riconosciuto, ci hai letto dentro e ti è piaciuto farlo.
   Prima dell’inizio, c’è un mare confuso di nebbia e passioni lontane. Sono sepolte, da qualche parte, come foto che hai messo da parte e non sai (non vuoi sapere) se esistono ancora, e le dimentichi, le perdi, non le cerchi più perché sono brave solo a farti del male.
    Prima dell’inizio, c’è anche silenzio. Oppure le parole di ogni giorno, quelle che conducono sempre nel solito posto, tranquillo, caldo, una grigia coperta che protegge dal freddo della notte, e la tieni vicina non sai più se per abitudine o per allontanare i tuoi fantasmi.
   Prima dell’inizio, c’è un vuoto che hai deciso da tempo di voler riempire solamente con l’inganno delle parole dell’arte: rime baciate o incrociate, e tante figure retoriche che riflettono il nulla.

 
 Parte terza : Amore e Psiche
 

    Volete sapere cosa accadde, dopo?
   Ve  lo racconterò, strappando a forza la lama dalle carni e scavando in quel che resta.
   Ci credereste, sommi giudici, se vi dicessi che quel che vidi, all’inizio, era solo un fragile e minuscolo abitante di un mondo invisibile?
   La rivedo come fosse qui, adesso: le pupille guardano verso un luogo che non c’è, infinitamente grande e infinitamente piccolo, un luogo che solo quegli occhi scorgono e senza di essi non esiste.
   Tu quegli occhi vorresti scioglierli dentro di te, come un dolce sciroppo che vinca gli affanni dell’anima, acciuffare lo sguardo che sorride di avida vita a qualcuno, e farlo prigioniero per sempre.
   C’è una linea sottile, invisibile a tutti ma non a te, lungo l’asse che dalla fronte scende, crudele, fino al mento, che un ignoto artista ha disegnato, e quella linea dice che non c’è più guerra nel mondo, non c’è altro che amore, o l’attesa di qualcosa che si chiamerà così, che sarà luce, sarà un lunghissimo sguardo di luce.
   Cosa dite?  Volete anche conoscere il resto?
    Il resto è accanto  a voi, ascoltatene le parole, vergini alate che la bocca carnosa sussurra al silenzio, e le labbra hanno il colore del sangue, e chiamano altro sangue – non lo sentite? – umettando di sé ogni particella attorno.
   Se la linea si piega nella roteazione del collo, l’ovale del viso – divinum opus – è una sfera di fuoco pronta a incendiare il cielo, a scuotere gli abissi degli oceani, ridestando tutte le sopite passioni. E i capelli scivolano lentamente a coprire luoghi segreti , che una mano invidiata solcherà, impassibile e ferma, per i secoli dei secoli, fino alla fine del tempo.
   Ecco, di quell’essere io fui subito l’amante invisibile. Eros che nasconde la sua Psiche nella stanza più nascosta di un palazzo incantato, e la coltiva come un tenero fiore, e, nel buio più fitto, la ama con la passione di un giovane dio e con la delicatezza di un pedagogo che accarezza la sua creatura per provarla alla vita.   
   Non può svelare il suo volto, il dio-maestro, non può farla sua per sempre, ché di un essere mortale si tratta, ma ogni notte è lì, accanto a lei, abbandonato e stupito, come in un sogno infinito. Ma non è infinito, come tutte le cose belle. È fragile, evanescente, un petalo di rosa selvatica, e vittima dell’altrui invidia.
   Le sorelle di Psiche vorrebbero, anch’ esse, un amante siffatto, miei stimati giudici, e spingono la fanciulla al gesto proibito: vedere ciò che non si può. E così il sogno svanisce, l’olio della lampada brucia pelle e magia; Eros ne rimane tramortito.
   C’è un finale, in questa favola bella? Sicuro, miei cari, ed è lieto, ma soltanto nel mito. La vita reale è tutta un’altra cosa.
   E, dunque, anch’io, Eros bruciato dalla fiamma, tenterò di spiegarvi la mia scelta e di raccontarvi, in questo finale, come morì la mia fragile Psiche.
 
 
Parte quarta: Amore e Morte
 
 

   Dietro ogni bella favola c’è una storia tragica; dietro ogni mito, umane passioni, e lacrime e sangue. Dietro ogni amore, il volto della morte.
   Chissà cos’è che ci rende così fragili.
   Forse è che non vogliamo essere forti, non ci affascina lo scorrere del tempo o la strada che ci porta sempre a casa. Vogliamo di più.
   Nella mia storia d’amore, o sommi interpreti della legge, non c’è stato mai spazio per la normalità: nel bene e  nel male, ogni gesto ogni carezza ogni parola non sarebbero mai stati, per me e per lei, quel solito gesto quella solita carezza quella solita parola.
   Non eravamo fatti per essere l’una dell’altro, ma l’una nel sangue dell’altro – e  viceversa. E il sangue genera sangue.
   È stato tutto molto bello. Il tempo si è fermato in un soffio di luce infinita, dove ciò che accadeva poteva essere per sempre – lo scambio perfetto di pelle e odori e sudori – proprio perché era solo lì, in quell’attimo.
   Non potevo non volerne la fine, capite?
   A chi, se non al dio creatore, è concesso di porre fine alle cose belle? Anzi, proprio alle sue creature più giovani e più belle?
   Deve farlo lui. Non può aspettare ch’esse muoiano da sole.
   Ecco, miei cari carnefici, cosa è successo a me, e non m’importa di quello che mi accadrà. Sono pronto a tutto: nessun dio regna per sempre. Ho fatto quello che era necessario fare. C’è un solo limite alle azioni umane, e questo è l’amore. Ed è più facile uccidere che amare.
   Quando ho visto il suo sorriso dilagare su quella bocca desiderata, le sue braccia protendersi nell’atto del perdono e dell’offerta, il suo seno spingersi su di me come un dono pietoso, le mie mani si sono strette attorno a lei.
   Ho sentito le sue ultime rauche parole.
   Ho pensato all’ultimo orgasmo fatale.
   Ho respirato il suo respiro che tremava e godeva di quell’abbraccio.
   Stavo componendo la mia ultima poesia, la più vera, e la recitavo anche, beandomi dell’inebriante sapore del possesso.
   E ora, se volete, mi esibirò anche per voi nella più assoluta delle recite, quella dell’amore e della morte. Reciterò i versi  della mia poesia: ascoltate!
 
 

“Troppi luoghi tormentano il tuo tempo.
Troppo luoghi
dicono che i tramonti fanno male –
che non sempre al giorno segue un altro giorno –
ch’è più dolce il silenzio d’uno sguardo
di mille parole chiuse dentro gli occhi”.
 
 
 
Epilogo in forma d’apologia  
 
 

   Ora che non ci sei più, sei finalmente, totalmente, mia.
   Non illuderti: non ti terrò a lungo, se non nelle pieghe dei miei sogni, laddove confluiscono i ricordi di quello che è stato e di quello che poteva essere. Farmi del male, non è il mio esercizio quotidiano – ed il tuo non lo sarà più, ma belle dame sans merci.
   C’è stato un momento, tanto tempo fa, in cui ho creduto di conoscerti; ed un altro – non troppo tempo dopo – in cui ho pensato di riconoscere in te quello che avevo dimenticato. Non era così.
   C’era solo l’amore che poteva salvarti – e, per quello, bastavano mani forti ed un esile collo da accarezzare.
   Non avrei potuto pensarti diversamente, non senza di me, non con me. Ed io non ho mai avuto troppo coraggio. Sono un misero poeta, io, mentre a te sarebbe servito qualcuno che ti potesse portare sempre i pezzi di legno che lanciavi lontano di continuo – che so? un atleta o un acrobata da circo.
   Eppure la tua bellezza aveva un suo stile. Eri un animale predatore – e femmina in ogni centimetro della pelle.
   Nessun rimpianto, adesso; niente di niente. HO ESAURITO LA MIA SCORTA DI  NOSTALGIA. Soltanto un senso di liberazione che si è fatto largo fra il  tuo corpo, disteso per terra, e la mia anima, condannata all’oltraggio del rimorso. Eppure non c’è spazio per il rimorso nei tuoi confronti.    
    Non credevo, che avrei avuto il coraggio di farlo, ma il coraggio di uccidere viene sempre, anche ai miti; è il coraggio di vivere quello che non verrà mai a trovarmi. Neppure nel luogo senza luce e senza tempo dove fra un po’ mi condurranno.
   Cos’altro dire? Credo di aver detto tutto.
   E dunque basta parole, basta poesia. Meglio un addio, no, un arrivederci, un ultimo “ ti amo” lungo come un tramonto, come un volo d’aquila solitaria, come una promessa lanciata da un balcone…

 

 

 

 

 

 

 

 

 




16 commenti:

  1. Grazie a te per non aver temuto lo sguardo di Marica.
    Mario

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    1. Non comprendo il senso di questo commento, che, fra l'altro, è identico alla mia risposta ad un commento di Giulia su L'angelo del mare (mio primo racconto su Palingenesi con il personaggio di Marica!).
      C'è un errore tecnico o cosa? Mario può rispondermi?
      Francesco Scrima

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  2. Lirico, delicato, suggestivo, come ti è consueto.
    Enzo

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    1. Grazie per il sempre affettuoso commento. Che ne pensi di quello di "Mario"? (Vedi sopra). Ti abbraccio,
      Francesco

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  3. Qualcuno dovrebbe spiegarti che scrivere qualcosa di decente non significa riempirla di ridondanti citazioni che lasciano soltanto trasparire superbia.

    Davide

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    1. Ma perchè te la prendi tanto, mio caro Davide? Non è che mi dispiaccia tanto il girone dei superbi. E a te, quello degli invidiosi? Di spiegazioni, poi, sono sempre avido. Vedi, a tre peccati capitali ci siamo già...I miei rispetti,
      Francesco

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  4. Il dio-poeta è un essere sublime: mezzo dio e mezzo uomo. È figlio dei pensieri della notte e del cielo il dio-poeta: tanto vicino alle stelle quanto agli uomini. È dannato all'elegante tormento,conosce bene la solitudine eterna - Orfeo senza la sua Euridice. Lui danza con le anime,ne conosce ogni lacrima d'inquietudine, sente sulla sua pelle il calore che porta con sé l'alba, conosce il malessere che diviene arte - parole soavi che danno sollievo ai cuori.Il dio-poeta è vittima della realtà - schiavo di tutto ciò che si cela dietro i sospiri del nulla.Sa cosa significa sognare il dio-poeta:cammina per i luoghi della mente,viaggia per le strade del cuore.Il dio-poeta si arrende alla bellezza femminile della sua Psiche: ai suoi che scrutano l'immensità,vorrebbe vivere in quello sguardo,ne brama l'infinità che tanto osservano.Vuol possedere le labbra della sua Psiche il dio-poeta, labbra che sussurrano al vento i segreti del cielo.Rincorre l' anima della sua amata nel vuoto della notte il dio-poeta. Lui non conosce la giusta misura,quella che serve alle mani degli amanti per stringersi e non lasciarsi mai più; il dio -poeta è talmente vicino all'infinito da non saper mormorare alla finitezza dell'essere.
    Ama troppo.E poi è sangue.
    Amore.
    Morte.
    Amore e morte - un unico sguardo.
    Orfeo che desidera riconoscere Euridice,e la condanna a morte,per sempre.
    Amore e morte. Per sempre.

    Giulia

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    1. Il dio-poeta non sa vivere nella terra di tutti. Il poeta-assassino conosce un solo modo per vivere, ed è questa la sua condanna.
      Francesco

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    2. Non occorre dispiegare un'impertinemte provocazione associativa(di cui mi scuso)che ha sortito gli effetti attesi, di fronte agli occhi vivi di quella cecità omerica che consente al poeta di girare tra i morti per cantare la vita.
      Misurarsi con lo sguardo di Orfeo(di cui mi permetto di segnalare le letture di M.Blanchot, G.Benn e R.M.Rilke)rappresenta una sintesi creatrice che mobilita e trasforma la rigidità degli opposti "amore" e "morte", presuppone un Io sufficientemente forte per sopportare il dramma del conflitto e della lacerazione, un Io debole soccorrerebbe alla nevrosi e al protettivo inconscio collettivo.
      Con vivo apprezzamento per questa tua eccellente produzione poetica.
      Mario

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    3. errata corrige:"un Io debole soccomberebbe alla nevrosi..." Mario

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  5. Racconto elegiaco che trova nella prosa poetica la sua propria forma. Grazie per le emozioni che nel pieno della maturità artistica regali ai tuoi lettori. Complimenti davvero!

    Rosalba

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    1. Grazie a te, come sempre attenta e fedele lettrice, e scusami per il ritardo con cui ho risposto.
      Francesco

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  6. " .... Il poeta-assassino vuole soltanto rappresentare la propria colpa e addolcirla fino al punto da poterla amare, perché è quello – l’Amore - che l’ha generata ...... "
    non è questo in fin dei conti, l'unico modo per vivere? dio, poeta, uomo, assassino?
    sentire il peso schiacciante della propria colpa e, piuttosto che il pentimento per l'epilogo, cercare in ciò che l'ha generata l'unico sentimento che libera dal dolore della condanna: l'amore! l'amore che permette di poter amare anche le proprie colpe.

    Sento di dover chiedere scusa a tutti, a te per primo caro Francesco, della mia mia pretesa di voler essere qui con un mio contributo, io, umile essere che si ciba quasi esclusivamente di numeri in mezzo a chi genera arte e a chi sa leggere l'arte. Forse siamo tutti un po' superbi. Grazie comunque di non vergognarti della tua, che permette quelle citazioni che arricchiscono gli ignoranti come me.
    Maria

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  7. Sono io, sempre, a ringraziare i miei lettori, cara Mariella, e poi non esistono letture colte e no, esiste solo la capacità di condividere ed essere empatici. E poi mi stimolano le critiche, ma anche il garbo, l'humanitas che dovrebbe accompagnarle.
    P.S. Anche i numeri sono Arte!
    Francesco

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  8. Caro Francesco ho letto il tuo racconto, bellissimi la struttura drammaturgica del testo,l'ossimoro del poeta-assassino,colui che crea la vita nelle parole ed è anche artefice di morte, il ritmo narrativo affabulante. Grazie, Loredana

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    1. Cara Loredana, il creatore-amante-mostro è quello di Baudelaire: "assapora/il seno martoriato di un'antica puttana/arraffiamo al passaggio piaceri clandestini/e li spremiamo come vecchie arance".
      Grazie per i complimenti,
      Francesco

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