di Raimondo Augello
Qualche tempo fa presentando il video musicale che rievoca i
fatti drammatici di Pontelandolfo abbiamo avuto modo di raccontare per sommi
capi la storia degli Stormy six, il gruppo milanese autore di una musica
antagonista, e del suo percorso artistico ricco e travagliato. Quest’oggi
presentiamo un altro brano degli Stormy six, anch’esso tratto da “L’unità”
l’album che, pubblicato nel 1972,
suscitò parecchio scandalo ma anche una messe di consensi da parte della
critica.
Il brano racconta una delle tante storie dimenticate degli anni cruciali che portarono all’unità d’Italia: è la vicenda di tre fratelli di Venosa, in Lucania, che nell’estate del 1861, rifiutatisi di indossare la divisa dei Savoia, preferirono imbracciare le armi e andare sui monti a condurre la guerriglia. Il 21 gennaio 1862 i tre, sorpresi da un’imboscata tesa dai soldati, furono uccisi; i loro corpi, portati sulla piazza del paese, furono esposti come monito per chi nutrisse velleità di ribellarsi al nuovo re. Come è noto, l’estensione della leva obbligatoria da parte dei Savoia, insieme all’imposizione di una pressione fiscale di proporzioni sconosciute, fu tra le cause principali che portò nelle province del Meridione a quella rivolta istintiva di popolo che prese il nome di brigantaggio. D’altro canto, i due fenomeni trovavano una reciproca giustificazione: le continue guerre sostenute dal Piemonte richiedevano infatti la presenza di un esercito numeroso e l’enorme disavanzo prodotto dalla scelta bellicista in politica estera non poteva che essere parzialmente ammortizzato da un sistema fiscale estremamente gravoso che esteso ad una base più ampia di contribuenti (il Regno delle due Sicilie era di gran lunga il più popoloso tra gli stati preunitari) avrebbe permesso di lenire un debito che altrimenti avrebbe rischiato di portare in breve al fallimento dello stato sabaudo. Ben diversa era invece la situazione al tempo dei Borboni: la leva non era obbligatoria e soltanto un cittadino sorteggiato ogni venticinque era chiamato all’obbligo delle armi; per il resto provvedevano milizie professionali. Quanto alle tasse, viste le condizioni floride dell’economia, esse erano talmente blande da essere considerate quasi inesistenti, e comunque tra le più basse d’Europa. La renitenza alla leva, in Sicilia allo stesso modo che nel Meridione continentale, fu la risposta disperata di una civiltà contadina in lotta per la sopravvivenza, una risposta che finì inevitabilmente per sfociare nel fenomeno del brigantaggio; scrive a tal proposito Carlo Levi, in “Cristo si è fermato ad Eboli”: “Il brigantaggio non fu altro che un accesso di eroica follia, un desiderio di morte e distruzione, senza speranza di vittoria in cui la civiltà contadina meridionale difese la propria natura e la propria identità contro quell’altra civiltà che le stava contro e che, senza comprenderla, eternamente l’assoggettava”. Il problema è che di fronte a tale fenomeno l’unica risposta data dal governo nazionale fu ispirata ad un criterio di brutale repressione. Tanto per limitarci ad alcuni fatti di Sicilia, come racconta Domenico Bonvegna nelle pagine dell’archivio storico dedicate a questi fatti,
Il brano racconta una delle tante storie dimenticate degli anni cruciali che portarono all’unità d’Italia: è la vicenda di tre fratelli di Venosa, in Lucania, che nell’estate del 1861, rifiutatisi di indossare la divisa dei Savoia, preferirono imbracciare le armi e andare sui monti a condurre la guerriglia. Il 21 gennaio 1862 i tre, sorpresi da un’imboscata tesa dai soldati, furono uccisi; i loro corpi, portati sulla piazza del paese, furono esposti come monito per chi nutrisse velleità di ribellarsi al nuovo re. Come è noto, l’estensione della leva obbligatoria da parte dei Savoia, insieme all’imposizione di una pressione fiscale di proporzioni sconosciute, fu tra le cause principali che portò nelle province del Meridione a quella rivolta istintiva di popolo che prese il nome di brigantaggio. D’altro canto, i due fenomeni trovavano una reciproca giustificazione: le continue guerre sostenute dal Piemonte richiedevano infatti la presenza di un esercito numeroso e l’enorme disavanzo prodotto dalla scelta bellicista in politica estera non poteva che essere parzialmente ammortizzato da un sistema fiscale estremamente gravoso che esteso ad una base più ampia di contribuenti (il Regno delle due Sicilie era di gran lunga il più popoloso tra gli stati preunitari) avrebbe permesso di lenire un debito che altrimenti avrebbe rischiato di portare in breve al fallimento dello stato sabaudo. Ben diversa era invece la situazione al tempo dei Borboni: la leva non era obbligatoria e soltanto un cittadino sorteggiato ogni venticinque era chiamato all’obbligo delle armi; per il resto provvedevano milizie professionali. Quanto alle tasse, viste le condizioni floride dell’economia, esse erano talmente blande da essere considerate quasi inesistenti, e comunque tra le più basse d’Europa. La renitenza alla leva, in Sicilia allo stesso modo che nel Meridione continentale, fu la risposta disperata di una civiltà contadina in lotta per la sopravvivenza, una risposta che finì inevitabilmente per sfociare nel fenomeno del brigantaggio; scrive a tal proposito Carlo Levi, in “Cristo si è fermato ad Eboli”: “Il brigantaggio non fu altro che un accesso di eroica follia, un desiderio di morte e distruzione, senza speranza di vittoria in cui la civiltà contadina meridionale difese la propria natura e la propria identità contro quell’altra civiltà che le stava contro e che, senza comprenderla, eternamente l’assoggettava”. Il problema è che di fronte a tale fenomeno l’unica risposta data dal governo nazionale fu ispirata ad un criterio di brutale repressione. Tanto per limitarci ad alcuni fatti di Sicilia, come racconta Domenico Bonvegna nelle pagine dell’archivio storico dedicate a questi fatti,
“Il generale Govone
chiese e ottenne dal Governo l’autorizzazione a mettere ordine in Sicilia,
cominciò con Caltanissetta, accerchiandola. Tutti coloro che fossero stati
incontrati nella campagna e nei paesi ‘dall’età apparente del renitente o col
viso dell’assassino’, sarebbero stati arrestati. A Licata, il 15 agosto 1863,
il maggiore Frigerio, comandante di un battaglione di fanteria, intimava alla
popolazione che ‘se l’indomani alle ore 15 non si fossero costituiti i
renitenti e i disertori, avrebbero tolto l’acqua, e ordinato che nessuno
potesse uscire di casa sotto pena di fucilazione e di altre misure di più forte
rigore’. Una ordinanza a dir poco barbara. Si sono verificati – aggiunge il Bonvegna - altri casi terribili in Sicilia in quell’anno, come quello che è
successo al sordomuto palermitano Antonino Cappello. Al poveretto, ritenuto
renitente alla leva, poiché si riteneva fingesse non parlando, furono
inflitte 154 bruciature di ferro rovente in tutto il corpo ‘Il suo aguzzino –
conclude Bonvegna citando lo storico Tommaso Romano (Sicilia 1860-1870-Una
storia da riscrivere, pag.99) – degno di
un persecutore in un gulag o in un lager del XX secolo – fu il medico
divisionale del Corpo Sanitario Militare Antonio Revelli, poi insignito dell’Ordine
sabaudo dei santi Maurizio e Lazzaro’ .
E ancora
scrive il Bonvegna: “In poco più di un anno
furono ben 154 i comuni circondati e posti in stato d’assedio e poi perquisiti,
lo scrive Giancarlo Poidomani; su 20.000 renitenti, ne vennero arrestati 4.000.
Il libro di Romano ne descrive alcuni, il 26 agosto ai Salemi il 48° Reggimento
Fanteria del maggiore Raiola cinse la città per tre giorni, chiudendo l’acqua
potabile. ‘Si ricercano i renitenti e, in assenza, si arrestano madre, padre,
sorelle, fratelli, che legati come malfattori o galeotti sono trascinati in
carcere. Si arresta senza discernimento. Si arrestano i parenti sino nei più
lontani gradi, gli amici e chi niente ha in comune col renitente ma che lo vide
nascere’. (pag. 104). Le varie operazioni militari che miravano a controllare
il territorio nelle province di Palermo, Trapani e Girgenti, portarono
all’arresto dei facinorosi, dei disertori e renitenti, con eventuali
rappresaglie sulle famiglie. Tra le tante disposizioni emanate, ‘si può leggere
questa perla di ‘diritto’ – scrive Romano – ‘L’autorità politica ha prescritto
che ogni cittadino assente dal proprio comune sia munito di una carta di
circolazione. Tutti coloro che alla distanza di un chilometro dal paese ne
saranno trovati sprovvisti verranno arrestati, né si rilasceranno prima che il
Sindaco alla presenza del Delegato di Sicurezza Pubblica e del Comandante
la stazione dei R. Carabinieri abbia assicurazioni sulla loro moralità’
(pag.115)”.
Altre e
numerose siffatte perle annovera, come dicevamo, la storia del Meridione
continentale, dove il fenomeno del brigantaggio imperversò per parecchi anni in
modo ben più virulento che nell’isola.
Dunque la
Lucania, teatro dei fatti cantati dalla canzone; quella Venosa che un tempo
aveva dato i natali ad Orazio, tra i massimi cantori dell’età augustea e che
negli anni che stiamo raccontando diventa epicentro del fenomeno del
brigantaggio, la terra in cui imperversano le bande di Ninco Nanco e di Carmine Crocco Donatelli, alle cui gesta il
bisnipote Michele Placido dedica ogni anno una ricostruzione teatrale che ha
come sfondo la suggestiva cornice naturale della foresta della Grancia, parco
storico della Basilicata; uno spettacolo dal titolo eloquente (“La storia
bandita”) in cui, sulle note di brani musicali appositamente scritti di
Antonello Venditti e Lucio Dalla, il
popolare attore veste i panni del famigerato bisnonno. A tal proposito, in
un’intervista rilasciata alla stampa racconta Michele Placido: “Sono il pronipote del più terribile brigante
e me ne vanto. Ricordo quando da bambino la nonna mi raccontava le sue gesta e
mi faceva restare ammirato e a bocca aperta narrandomi le sue avventure e fu
allora che scoprii di assomigliargli molto, perché anch’io come lui odiavo le
ingiustizie. E’ancora vivo in me il ricordo dei racconti della nonna, nei mesi
in cui trascorrevo le vacanze estive a Rionero, dov’era nato mio padre e dove
nacque e operò Carmine Crocco. Le gesta del mio avo sono la riprova che il
brigantaggio postunitario nell’Italia Meridionale è stato un fenomeno
patriottico e di lotta contadina, la ribellione di un popolo che si oppose
all’invasione dello Stato piemontese che non tenne fede alle promesse di
distribuire le terre demaniali per consentire ai cafoni di coltivarle. E’giunto
il momento di fare i conti con la storia -prosegue Placido- e riabilitare chi, all’interno del movimento
di ribellione contadina, fu criminalizzato da una storiografia bugiarda.
L’Italia deve restare una, ma occorre riscrivere la storia senza le menzogne
che hanno accompagnato l’invasione piemontese nel Regno delle Due Sicilie.
Basta con la retorica risorgimentale, facciamo riemergere dagli archivi le
verità che hanno portato alla cancellazione di una nazione che aveva 700 anni
di vita. Il brigantaggio – conclude Placido nella sua appassionata intervista - non fu per niente un fenomeno
criminale e per questo neanche Crocco lo fu”. Parole che confermano quanto
detto da Carlo Levi e che paiono riecheggiare in modo letterale le idee
espresse da Antonio Gramsci nel noto giudizio espresso nel 1920.
Oggi la
Basilicata è una delle aree più povere d’Italia e il reddito procapite è fra i
più bassi dell’intero continente europeo; basti dire che a Matera, dichiarata
dall’Unesco patrimonio dell’umanità per i suoi “sassi”, non esiste neppure una
stazione ferroviaria, il treno non arriva, insomma: peggio che nel Far West.
Eppure in Basilicata sono stati scoperti i più ricchi giacimenti petroliferi su
terraferma di tutta Europa, ma la cosa, anziché produrre benessere, ha portato
ad uno sfruttamento selvaggio da parte delle multinazionali grazie al
beneplacito del governo nazionale, con conseguenti ricadute disastrose per l’ambiente, la salute pubblica (ad oggi
il governo romano non si è curato di avviare un’indagine epidemiologica) e
sull’economia locale, a vocazione prevalentemente agricola. E come se ciò non
fosse sufficiente, il governo nazionale a trazione leghista ha concluso accordi
con le suddette multinazionali per incrementare le trivellazioni nel Golfo di
Taranto e per portare il limite minimo da dodici a cinque miglia dalla costa.
Quando dopo
l’invasione piemontese nel Meridione esplose il fenomeno sino ad allora
sconosciuto dell’emigrazione, cominciò a diffondersi tra le plebi contadine il
detto “O brigante o emigrante”: è forse per questo che oggi in Basilicata, di
fronte ad un presente di povertà e di brutale sfruttamento coloniale, si
preferisce guardare con occhi nuovi al proprio passato, senza più vergogna,
individuando nei protagonisti di quella
sfortunata epopea contadina le radici di una dignità e di un orgoglio
mortificati dagli sviluppi della storia.
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