domenica 10 marzo 2013

Laggiù, di là del fiume

di Enzo Barone
 
Era un pezzo che dalla mia casa in collina non scendevo in piazza, tanto che quel giorno, quando mi ci misi al centro, sentì di essere sconsolatamente perduto in mezzo a tutto quello spazio smisurato e silenzioso.
Uno all’improvviso ruppe tutto quel silenzio e fece: - Per le colline, si per le colline- e un altro che passava si fermò e gli rispose: - Per monti, i monti idiota!- e un terzo trasognante: - ah le veglie febbrili, ah i sonni assennati …

E allora tutt’assieme ognuno di quelli che andavano, ciascuno per i fatti suoi e in direzioni eteroclite, presero a dire tutti qualcosa, uno appresso all’altro.
-  Con gli occhi asciutti- disse uno: - Dagli abissi e dagli interstizi- aggiunse un altro - Dal cielo e dalla terra, da dentro- fece un altro ancora, che quello prima manco aveva finito.
- La notte e su, da settentrione- disse ancora il secondo che aveva parlato.
- Soli con l’anima propria- proruppe una donna, scoppiando quasi in pianto.
- Il grano e le promesse del giugno…- fece uno che non si sapeva bene da dove fosse sbucato.
- Le nostre attese si schiudono come mandorli a febbraio; colorano le nostre frenesie agli occhi di chi ti cerca – disse poi un tale schiudendo le braccia e chiudendo le palpebre e un’altra figura, una donna ancora, accecata di gioia lo interruppe: - Aquiloni, narcisi, corse di bimbi e acqua che scroscia e profumi di bucato appena fatto, senza fine.
- A nord, a nord dico - tornò a fare il primo che aveva parlato, che pareva più concreto degli altri, ma subito gli rimbeccò ancora il secondo, brusco: - Al meridione, che diamine! a presentire il libeccio, a scrutare gli stormi-
E poi alla fine uno ch’era apparso all’improvviso sentenziò lapidario: - Si vada a casa, ciascuno sa da chi: tutto il resto conta poco –  E guai a chi non c’ha nessuno -  fece di sponda uno, parlandogli quasi addosso.
Io non capivo nulla; solo che dovevo dire anch’io qualcosa.
E allora, prendendo le parole non so da dove, mi trovai a dire: - Tutto venga al divenire, allora!
Nemmeno avevo finito di dirlo che quelle parole mi parvero improvvisamente rivelatrici, come  una sequela di falene in un bosco scuro. 
Si tacque per alcuni minuti, ciascuno fermo in una posizione, i più a bocca aperta, aspettando un senso nuovo, un'altra frase da qualcuno, da qualcosa.
Poi uno, uno dei più vecchi credo, un ometto stenterello col berretto calato fino alla nuca mi mette una mano sulla spalla e con un rigagnolo di voce tremula dice amaramente: - Chi non ha udito taccia; chi non sa dimentichi.
Allora seppi senza dubbio che era per arrivare la fine del mondo.
 Quando smisi di guardare in basso, erano tutti spariti, tranne un ragazzino felice che correva dietro a un grande cerchio azzurro e una donna giovane che danzava tutta sola, facendo volare con la mano la leggera gonna a plissé azzurra.
Sul selciato i fogli di giornali la tramontana li mulinava stizzita a destra e a manca.
Su tutto un cielo opalescente, sbiadito, spesso di polvere, illuminato da un sole remotissimo.
Girai allora con lo sguardo tutto attorno sul sipario di case della piazza che si spaziava di luce: il fornaio stava tirando giù la saracinesca, ma una donnina col fazzoletto in testa, che correva, piegandosi in due fa in tempo a passare, mentre quello ha quasi chiuso.
Mi dissi: bene e adesso? che si fa? Quali istruzioni prendere per un giorno del genere, quale etichetta adottare?
Di tornare a casa non mi andava e poi da chi? Ormai che c’ero avrei fatto due passi, mi sarei goduto un po’ d’aria aperta, scendendo per la valle, seguendo l’acqua del fiume immutabilmente uniforme.
Finito l’abitato non ho mai saputo dove si perde la corrente, dopo il gomito che ne serra alla vista il corso.
Allora, come adesso, mi sono sempre fermato là, un tratto prima, in una radura risparmiata dalla corrente, bordata di canneti, a guardare l’acqua e le due cime che il fiume accarezza e ne scrivono in quel punto il letto: quella a destra dalla vetta conica, ardua e puntuta e la collinetta più bassa, larga e comoda, con le conchette verdi, fatte apposta per le scampagnate dei gitanti.
Ci sono sempre arrivato al tramonto, scendendo la lieve pendenza con un non so che di languidezza, di incertezza, camminando dolcemente, lasciandomi portare dal pendio.
A quell’ora le ombre si allungano e le cose smarrite non sanno più dove nascondere se stesse, rivelano inermi la loro natura.
In fondo alla valle che si serra c’è un’altra valle, un'altra luce, un'altra ansietà di tramonto.
Io non ci sono mai voluto andare, al di là di quel serraglio, di quelle due cime voglio dire. Non lo so: mi è sempre presa un’angoscia, di perdermi, delle mie cose.
Mi fermai là come ho detto, quindi presi come sempre una manciata di ghiaietta e feci per sventagliarla sul pelo dell’acqua. Ma quando mi rialzai vidi dal fondo della radura, nel controluce del tramonto, una sagoma venire avanti e poi un’altra e altre ancora. Avvicinandosi, via via cominciavano a prendere le forme familiari dei passanti del mattino, che mi venivano incontro alcuni a braccia tese, altri con la bocca dischiusa e poi ce n’erano di istupiditi, storditi da una botta.
Volevano salutarmi, parlarmi, contenti di trovare anche me in quel posto, ma nessuno, diversamente dalla piazza, sapeva cosa dire né soprattutto come dirlo.
Allora, io presi a cercare i ciottoli più piatti e mi misi a giocarci a rimpiattino, così per far qualcosa. Una decina di quegl’altri, sollevati per l’impasse rotta e per aver trovato qualcosa da fare, anche loro adesso facevano rimbalzare i sassetti sulla superficie del fiume.
Ne vedevo io, di quelli che mentre tiravano avevano in punta di labbra come una risatina isterica.
Infine uno che era rimasto in fondo, ancora lontano tra le ombre, si fece vivo, perentorio: - Siamo qui come te, per vedere cosa viene – e per come lo disse tutti tornarono dritti e smisero di giocare.
Quando che il sole cominciò a ferirci la vista con gli ultimi raggi arancio, chi parlottava col vicino o recitava il mantra di una vecchia canzone o pensava dimessamente a qualcuno, smise tutt’assieme perché il vecchio ometto col berretto calato sulla nuca era entrato coi piedi nell’acqua e guardava fisso l’ansa, laggiù, di là del fiume.
Guardava lontano un pellegrino, un accattone, un matto, un bracconiere, un angelo di Dio chissà, che saliva a piedi la corrente bassa, venendo da dove il fiume si perdeva.
Quando in men che non si dica fu sulla spiaggetta, quella figura indefinita si mise davanti a tutti, ché con la poca luce lo si vedeva appena, e senza tanti giri di parole disse:
- Sapete perché son venuto. Non abbiate paura però, ché nessuno avrà di che rimpiangere o strapparsi i capelli- e lo disse con la voce decisa e sicura di uno cui tu ti affidi, che di te si curi.
E subito dopo cominciò, come se nulla fosse, a parlare e parlare serenamente, senza che da principio capissimo di che cosa, tutti noi che eravamo del tutto persi nello stordimento.
Poi qualcuno in fondo cominciò a ridere e poi un altro, più forte; dopo un terzo e un quarto a singhiozzi e di seguito in tanti, tutti: chi fragorosamente, chi tra i denti, chi grassamente e senza pudore, chi ancora, emettendo ridicoli vagiti in falsetto, chi gemendo dalle risa come in un lutto; quell’uomo, o chiunque fosse, s’era messo a raccontare storie, fatterelli, freddure, facezie, barzellette persino, di mai sentite, portentose.
Buffe, strane,  insolite, cattive, geniali, meravigliose, sporche, da spanciarsi, sbellicarsi, scassarsi, farsela sotto, lacrimare dall’incontinenza ilare, contorcersi a terra cogli spasimi.
 
Dopo dieci minuti quasi tutti si era ormai per terra a ridere e ridere felici, felici come solo gli idioti, senza potersi più fermare, neanche per orinare, neanche a respirare.
Io, che di mio rido poco e tristemente, in mezzo a tutto quel delirio, a quella beatitudine d’ilarità raggiunta, nelle rare pause tra le convulsioni delle risa e il pianto, forse fui uno dei pochi che capì che era quella la fine del mondo, che di lì a poco saremmo morti tutti…
dal ridere.


5 commenti:

  1. Racconto ilare e scivoloso con un che di vittoriniano - le battute allusive, l'enfasi - ed un altro pavesiano - il paesaggio e i personaggi da sagra di paese. Ben costruito.
    Francesco

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  2. ... è presente anche il richiamo alla "idiozia": in senso dostoevskiano è una forma di purezza degna di nota, che ci avvicina alla messianicità...


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  3. "Una risata li seppellirà". Mentre leggevo questo racconto pensavo alla scena finale di "Nuovo Cinema Paradiso" e mi chiedevo cosa sarebbe successo se la serie di baci tagliati dai vari film fosse stata sostituita con una sequela di risate tratte da altrettanti film. Forse l'effetto sarebbe stato ugualmente poetico. Fragorosamente poetico. Complimenti. Salvo

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  4. Un paesaggio lunare animato da cascatelle cristalline, giochi d'acqua e, qua e là, bagliori sulfurei. Musicale e visionario e, come sempre, mi stupisci sempre un pò. T

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