sabato 15 marzo 2014

Rochester and Jane Eyre

Oskar Kokoschka  La Sposa nel vento 1914
 
di Enzo Barone
 
Era già successo prima che davvero accadesse.
Aveva saltato il fosso, era dall’altra parte.
Non si sceglie – pensava – nessuno lo fa mai; facciamo solo quello che non siamo capaci di evitare.
Solo il corpo sceglie, di vivere, di perpetuarsi e poi distruggersi.
Camminava sul basolato umido e i pensieri gli rimbombavano tremendamente sonori, come se fosse dentro ad un enorme campana di ottone e qualcuno pestasse da fuori, all’impazzata.
Camminava verso l’appuntamento ed ogni passo era un passo nel vuoto, un andare a tentoni nel buio, in una terra senza ritorno.
Era felice ubriaco. Non avvertiva quasi nulla di quello che gli stava attorno. Gli arrivava soltanto l’odore della polvere che si scioglieva nelle strade e quello di benzina mescolato alla pioggia. 

Avrebbe potuto cambiare idea, certo; non era troppo tardi.
Avrebbe anche potuto allontanarsi da tutto, sciogliere quella ossessione col diluvio monumentale del buon senso. Fermarsi all’improvviso e girare i tacchi. Fare finta di essersi messo alla prova, di essere stato tentato solo da un’ipotesi intrigante. Sapeva perfettamente come sarebbe andata, quello che sarebbe capitato dopo, il prezzo spropositato che avrebbe pagato.
Stavano tutte là, tutte in riga, ordinate come in una rigorosa parata di soldatini, tutte sull’attenti, tutte nitide nei loro colori scintillanti, le conseguenze verso cui precipitava.
Ormai ci pensava, da sette giorni, ogni sera a letto, prima di prendere sonno, quando girava il fianco dal lato opposto a quello della moglie, la sera in macchina mentre tornava dal lavoro, i pomeriggi mentre mangiava alla tavola calda e guardava fuori le convulsioni del traffico.
Ed ogni volta era la stessa cosa.
Ma ormai era tardi. Lei ce l’aveva sempre in testa e nelle mani, nella pancia, nel sudore della notte. Aveva una gioia addosso, per tutto il corpo, come a sedici anni, quando la più fica del gruppo aveva accettato di uscire con lui.

Nei giorni prima di quella sera due stati d’animo avevano fatto la tana nella sua testa.
Molte volte era assediato dalla paura anzi dall’angoscia: era a un passo dal disastro, aveva la certezza di stare per perdere tutto.
Lo sapeva benissimo, conosceva la vita; ci era ormai salito in cima e la vedeva dall’alto, tutta, con un colpo d’occhio.
Era però, questo, un dolore debole, reso tollerabile da un compiacimento malato, di chi va incontro ad una rovina inesorabile, contemplata come in una grandiosa, decadente opera lirica.
In fondo era sempre stato un fatalista.
Anche davanti all’ipotesi di una morte inevitabile avrebbe reagito esattamente allo stesso modo.
E non era la stessa cosa?

 C’erano poi dei momenti invece, quando era incrollabilmente sereno, duro come l’acciaio, divinamente  indifferente a tutto.
Lei era bella. Il veleno del suo pensiero, il rasoio del suo profumo, il suo sorriso asciutto, lo strano modo di piegarsi a volte su se stessa, lo star semplicemente lì, davanti ai suoi occhi, avevano la forza sovraumana di una legge della fisica, della rivoluzione dei pianeti, dei venti, dell’entropia.
In quei momenti era felice di pensarsi con lei, non contava il resto.
La spietata razionalità, il nitido senso della realtà non trovavano più spazio: la sua mente, il suo sangue o forse una perfida malaria somministravano surrogati di realtà, immagini morbide di un sentimento delicato e necessario, di tristi abbandoni, come l’incontro miracoloso di due inattesi disastri che avevano tenuto duro aspettando di trovarsi.
Tutto quello che aveva desiderato possedere da un tempo che non ricordava nemmeno.
Sarebbe finita un giorno; non si sarebbero fatti troppo male; avrebbe avuto il tempo di saltare fuori un istante prima che il mondo crollasse; avrebbe trovato le frasi cercate, avrebbe ritirato la mano con ritrosa dolcezza, come aveva fatto sublimemente Rochester con Jane Eyre (lei era pazza di quel libro).
L’avrebbe lasciata andare via con le frasi gravide e assennate dei probi rinsaviti di una volta: lei si sarebbe affidata alla sua maturità; avrebbe capito. Una discreta via d’uscita, senza troppi ingombri, ne occhi o voci; cose taciute, lasciate a morire, opportune mezze verità.
Come un folle pensava che la forza che lo portava a lei si sarebbe giustificata da se stessa, con la sua stessa potestà avrebbe legittimato quella storia.
Ma questa febbre gli durava poco: quando finiva credeva di essere stato pazzo. 

Non sarebbe durata; non era nata per durare. Non avrebbe potuto, nemmeno se lo avesse voluto con tutta la sua forza.
Si erano trovati e basta.
Lei cercando un uomo che le  spiegasse il suo dissesto; lui una donna o poco più, che gli recasse in dono il suo stesso errore.
La voleva però, con tutto se stesso, tuttavia in qualche modo singolare e ancora indefinito.
Voleva consolarla con la tenerezza di cui, dopo tante sconfitte, era del tutto capace, amarla come un meticcio abbandonato, essere per lei un oracolo paziente, un cercatore senza fatiche, voleva che si aggrappasse alla sua precarietà, voleva infine proteggerla con la sua insidiosa lealtà.
Le avrebbe anche insegnato molte cose, persino a difendersi da uomini come lui.
Le voleva davvero bene, al di là di tutto, come un devoto adoratore di una mistica preziosa. Più di tutto amava la sua presunta fragilità.
Voglio lei in fondo, si diceva talvolta, non il suo corpo o non adesso almeno.

 Anche ora lo pensava e intanto si avvicinava all’angolo. Dietro si sarebbe dischiusa la strada, l’appuntamento.
Il cuore gli scoppiava; era preso da una smania di tutto il corpo.
Nei pochi istanti che lo separavano da quello svoltare la sua mente correva velocissima avanti e avanti.
Dunque poi avrebbe mentito, contaminato le regole e il gioco?
Non ne era capace, lo sapeva: si sarebbe disprezzato.
Aveva guardato fino ad allora tutti gli altri, quelli che fanno i bastardi o quelli che sbagliano per un’occasione, per “cose che capitano”, con un segreto disprezzo, con l’alterigia del puro.
Come fanno gli altri? Basta una volta e non sei più quello che eri.
Era vissuto fino a quel momento fiero della sua integrità, un vestale, con la sua virtù intatta.
Di soltanto suo, sentiva di avere solo quello in fondo.
Mentre si avvicinava gli si parava ancora una volta davanti, tremendamente chiaro, il senso delle cose a venire, prima o poi: il cataclisma, i chiarimenti, la disperazione a casa, la rabbia, la vergogna; i tentativi, le attenuazioni,  le verità svelate, le colpe, il disprezzo; avrebbe compreso finalmente la povera incompiutezza di ogni esistere, del suo, il piacere del precipizio.
Avrebbe potuto finire solo. Non sapeva cos’era esser solo, davvero.
Solo non è quando gli altri non ci sono, ma quando senti di essere lontano dalla loro stima.
Fa spavento, vero?

Era lì ora, davanti a lui, appoggiata al muro, stupenda,  con la sua borsetta piccola a tracolla, con i suoi capelli da sopravvissuta, con la sua pelle d’agave, col suo viso inesplicabile, col suo meraviglioso esserci, là, in piedi, ad aspettarlo.
Lei disse soltanto - Sono qua –.
Lui, sorridendo, rispose solo – E’ già successo tutto. –
E andò via.


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