Oskar Kokoschka La Sposa nel vento 1914
di Enzo Barone
Era
già successo prima che davvero accadesse.
Aveva
saltato il fosso, era dall’altra parte.
Non
si sceglie – pensava – nessuno lo fa mai; facciamo solo quello che non siamo
capaci di evitare.
Solo
il corpo sceglie, di vivere, di perpetuarsi e poi distruggersi.
Camminava
sul basolato umido e i pensieri gli rimbombavano tremendamente sonori, come se fosse
dentro ad un enorme campana di ottone e qualcuno pestasse da fuori,
all’impazzata.
Camminava
verso l’appuntamento ed ogni passo era un passo nel vuoto, un andare a tentoni
nel buio, in una terra senza ritorno.
Era
felice ubriaco. Non avvertiva quasi nulla di quello che gli stava attorno. Gli
arrivava soltanto l’odore della polvere che si scioglieva nelle strade e quello
di benzina mescolato alla pioggia.
Avrebbe potuto cambiare idea, certo; non era troppo tardi.
C’erano
poi dei momenti invece, quando era incrollabilmente sereno, duro come
l’acciaio, divinamente indifferente a
tutto.
Anche
ora lo pensava e intanto si avvicinava all’angolo. Dietro si sarebbe dischiusa la
strada, l’appuntamento.
Il
cuore gli scoppiava; era preso da una smania di tutto il corpo.
Nei pochi istanti che lo separavano da quello svoltare la sua mente correva velocissima avanti e avanti.
E andò via.
Avrebbe potuto cambiare idea, certo; non era troppo tardi.
Avrebbe
anche potuto allontanarsi da tutto, sciogliere quella ossessione col diluvio monumentale
del buon senso. Fermarsi all’improvviso e girare i tacchi. Fare finta di
essersi messo alla prova, di essere stato tentato solo da un’ipotesi
intrigante. Sapeva perfettamente come sarebbe andata, quello che sarebbe
capitato dopo, il prezzo spropositato che avrebbe pagato.
Stavano
tutte là, tutte in riga, ordinate come in una rigorosa parata di soldatini,
tutte sull’attenti, tutte nitide nei loro colori scintillanti, le conseguenze verso
cui precipitava.
Ormai
ci pensava, da sette giorni, ogni sera a letto, prima di prendere sonno, quando
girava il fianco dal lato opposto a quello della moglie, la sera in macchina
mentre tornava dal lavoro, i pomeriggi mentre mangiava alla tavola calda e
guardava fuori le convulsioni del traffico.
Ed ogni volta era la stessa cosa.
Ed ogni volta era la stessa cosa.
Ma
ormai era tardi. Lei ce l’aveva sempre in testa e nelle mani, nella pancia, nel
sudore della notte. Aveva una gioia addosso, per tutto il corpo, come a sedici
anni, quando la più fica del gruppo aveva accettato di uscire con lui.
Nei
giorni prima di quella sera due stati d’animo avevano fatto la tana nella sua
testa.
Molte
volte era assediato dalla paura anzi dall’angoscia: era a un passo dal disastro,
aveva la certezza di stare per perdere tutto.
Lo
sapeva benissimo, conosceva la vita; ci era ormai salito in cima e la vedeva
dall’alto, tutta, con un colpo d’occhio.
Era
però, questo, un dolore debole, reso tollerabile da un compiacimento malato, di
chi va incontro ad una rovina inesorabile, contemplata come in una grandiosa,
decadente opera lirica.
In fondo era sempre stato un fatalista.
In fondo era sempre stato un fatalista.
Anche
davanti all’ipotesi di una morte inevitabile avrebbe reagito esattamente allo
stesso modo.
E non
era la stessa cosa?
Lei
era bella. Il veleno del suo pensiero, il rasoio del suo profumo, il suo
sorriso asciutto, lo strano modo di piegarsi a volte su se stessa, lo star
semplicemente lì, davanti ai suoi occhi, avevano la forza sovraumana di una
legge della fisica, della rivoluzione dei pianeti, dei venti, dell’entropia.
In
quei momenti era felice di pensarsi con lei, non contava il resto.
La
spietata razionalità, il nitido senso della realtà non trovavano più spazio: la
sua mente, il suo sangue o forse una perfida malaria somministravano surrogati
di realtà, immagini morbide di un sentimento delicato e necessario, di tristi
abbandoni, come l’incontro miracoloso di due inattesi disastri che avevano tenuto
duro aspettando di trovarsi.
Tutto quello che aveva desiderato possedere da un tempo che non ricordava nemmeno.
Sarebbe
finita un giorno; non si sarebbero fatti troppo male; avrebbe avuto il tempo di saltare
fuori un istante prima che il mondo crollasse; avrebbe trovato le frasi cercate,
avrebbe ritirato la mano con ritrosa dolcezza, come aveva fatto sublimemente Rochester
con Jane Eyre (lei era pazza di quel libro). Tutto quello che aveva desiderato possedere da un tempo che non ricordava nemmeno.
L’avrebbe
lasciata andare via con le frasi gravide e assennate dei probi rinsaviti di una
volta: lei si sarebbe affidata alla sua maturità; avrebbe capito. Una discreta via
d’uscita, senza troppi ingombri, ne occhi o voci; cose taciute, lasciate a
morire, opportune mezze verità.
Come
un folle pensava che la forza che lo portava a lei si sarebbe giustificata da se
stessa, con la sua stessa potestà avrebbe legittimato quella storia.
Ma
questa febbre gli durava poco: quando finiva credeva di essere stato pazzo.
Non
sarebbe durata; non era nata per durare. Non avrebbe potuto, nemmeno se lo avesse
voluto con tutta la sua forza.
Si
erano trovati e basta.
Lei
cercando un uomo che le spiegasse il suo
dissesto; lui una donna o poco più, che gli recasse in dono il suo stesso errore.
La
voleva però, con tutto se stesso, tuttavia in qualche modo singolare e ancora
indefinito.
Voleva
consolarla con la tenerezza di cui, dopo tante sconfitte, era del tutto capace,
amarla come un meticcio abbandonato, essere per lei un oracolo paziente, un cercatore
senza fatiche, voleva che si aggrappasse alla sua precarietà, voleva infine proteggerla con
la sua insidiosa lealtà.
Le
avrebbe anche insegnato molte cose, persino a difendersi da uomini come lui.
Le
voleva davvero bene, al di là di tutto, come un devoto adoratore di una mistica
preziosa. Più di tutto amava la sua presunta fragilità.
Voglio
lei in fondo, si diceva talvolta, non il suo corpo o non adesso almeno.Nei pochi istanti che lo separavano da quello svoltare la sua mente correva velocissima avanti e avanti.
Dunque
poi avrebbe mentito, contaminato le regole e il gioco?
Non
ne era capace, lo sapeva: si sarebbe disprezzato.
Aveva
guardato fino ad allora tutti gli altri, quelli che fanno i bastardi o quelli
che sbagliano per un’occasione, per “cose che capitano”, con un segreto disprezzo,
con l’alterigia del puro.
Come
fanno gli altri? Basta una volta e non sei più quello che eri.
Era
vissuto fino a quel momento fiero della sua integrità, un vestale, con la sua
virtù intatta.
Di
soltanto suo, sentiva di avere solo quello in fondo.
Mentre
si avvicinava gli si parava ancora una volta davanti, tremendamente chiaro, il senso
delle cose a venire, prima o poi: il cataclisma, i chiarimenti, la disperazione
a casa, la rabbia, la vergogna; i tentativi, le attenuazioni, le verità svelate, le colpe, il disprezzo; avrebbe
compreso finalmente la povera incompiutezza di ogni esistere, del suo, il piacere
del precipizio.
Avrebbe potuto finire solo. Non sapeva cos’era esser solo, davvero.
Avrebbe potuto finire solo. Non sapeva cos’era esser solo, davvero.
Solo
non è quando gli altri non ci sono, ma quando senti di essere lontano dalla
loro stima.
Fa
spavento, vero?
Era
lì ora, davanti a lui, appoggiata al muro, stupenda, con la sua borsetta piccola a tracolla, con i
suoi capelli da sopravvissuta, con la sua pelle d’agave, col suo viso inesplicabile,
col suo meraviglioso esserci, là, in piedi, ad aspettarlo.
Lei disse soltanto - Sono qua –.
Lui, sorridendo, rispose solo – E’ già successo tutto.
–E andò via.
molto efficace e realistico, soprattutto nel finale...
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