domenica 2 marzo 2014

ancora quei vecchi pensieri-bis prima del sonno

by guido monte

in principio. in principio creò il cielo e la terra, e lo spirito volava a pelo d’acqua sulle onde scure.
wara hawat toh waboh terra senza forma, sola

miracolo. le antiche scritture millenarie sulle avventure dei fratelli barata, lì ho sentito per la prima volta di un paradiso rifiutato da un eroe mitico, perché non ospitavano il suo cane.
nelle parole invece di yudishsthira ecco le vie dimenticate del miracolo degli uomini: continuiamo a vivere, anche di fronte alla morte, come se fossimo immortali.

una bimba rinata alle parole: talitha kumi

ecclesiaste, tutto è vanità. vanitas vanitatum et omnia vanitas e poi: nihil sub sole novi.

come foglie. come foglie guardiamo stelle di fronte alla luna                       
asteres

sanscrito. neppure l’eroe sa come allontanare il dolore, na hi prapasyami mama pamdyad yac chokam; ecco ciò che non muore, na anyate

a ciascuno il suo giorno. il pater vergilius, non ignarus mali, ci insegna a miseris succurrere, perché sa che vivit sub pectore vulnus e che ognuno patisce il suo passato, il giorno che ci è stato affidato sotto le stelle nella notte umida, in questa terra tiepida di buio e insensatezza

dalla gola del leone. sergio quinzio sente l’orrore che ormai siamo troppo stanchi pure d’immaginare, sente il tutto che geme e soffre le doglie del parto, sente lo spirito quando intercede misteriosamente e con insistenza, con gemiti inesprimibili.
asciugare le lacrime dal volto, come è scritto

la rana si tuffa… se san francesco prendeva un cucchiaio, o guardava un fiore, erano un cucchiaio o un fiore; se parlava con un uccello o con un lupo, stava semplicemente parlando con loro, guardando con un sorriso cieli e torrenti.
così i piccoli monaci giapponesi, basho, ryokan, se stavano zitti era perché non avevano qualcosa da dire, e se udivano lo scoiattolo squittire afferravano il senso di tutto.

in interiore homine. da paolo di tarso a lutero, da platone e socrate a giovanni evangelista, a freud, ad agostino: in interiore homine habitat veritas, pensavi mentre dal giardino della vicina villa milanese arrivava come una cantilena, tolle lege tolle lege, e poi la leggevi in te

di che pianger suoli. dante pensa al pater virgilio quando francesca dice del maggior dolore nel ricordare il tempo felice nella miseria, pensa all’excessus mentis dei mistici cistercensi quando la sua mente viene sincera e più e più intrava nell’alta luce che da sé è vera; e se non piangi a leggerlo, di che pianger suoli?

per scorgere un mondo… altri viaggi dopo dante, di bill blake dietro le porte della percezione, per vedere le cose per quello che sono, infinite,  per vedere un universo in un granello di sabbia, in a grain of sand

tutti colpevoli. lo starec dei fratelli karamazov diceva di guardare gli altri come bambini, o come malati d’ospedale… che tutti sono misteriosamente colpevoli di tutto, che l’inferno non può esistere, o che tutto l’inferno e tutto il paradiso sono in interiore homine, e che domani all’improvviso puoi svegliarti e accorgerti che il paradiso è in te, e durerà per sempre

la pietà e la paura. uno non è più uomo sì, non sei più uomo, ma angelo, puro spirito che perdona sempre sempre, tutto tutto come fra’ cristoforo. è vero, proprio perché una verità che viene da povera gente

occhi di asino. nel foglietto sparso di pirandello ho letto della verità di tutto nascosta negli occhi di una bestia, di un cane, di un asino, negli occhi miti della cavallina di fedor.
e questa verità cancella tutto, qualsiasi sapere umano

elie wiesel e andrè neher. elie aveva visto nel konzentrationslager il fantasma del suo cadavere allo specchio, e dio impiccato accanto alla forca di un bambino.
e andrè allora aveva indebolito e corretto quel dio con un forse, l’etre corrigé par le peut-etre, per sottrarlo dalla condanna umana di ivan, che non giustificava la sua voce sottile di silenzi

uomini vuoti. thomas stearns, sapere the way in cui il mondo finisce, in una preghiera nascosta dentro un cilindro girevole, mentre fuori è solo deserto e vuoto, waste and void, vetri spaccati e orme di topo, ricordi degli uomini vuoti, mentre navigano in silenzio lungo l’acheronte

kolymskie rasskazy. varlam  salamov naviga a vista tra i gulag di morte del mar bianco, ma conserva ancora un senso tra oceani di sangue e di cadaveri? il vecchio varlam cerca infatti a mosca la figlia-gatta mucha tra ricoveri e cimiteri per animali, deve salutarla ancora l’ultima volta, l’aveva amata… varlam ricorda la donnola alle soglie del parto, la donnola dagli occhi coraggiosi, varlam non può staccarsi dalla vita pur non trovandone più un senso


ungà. risvegliarsi al mattino nello stupore dell’immenso che ti illumina, fogliolina appena svegliata che si accorge di vivere e si attacca alla vita, il ricordo archetipo di chi deve scontare la morte con la vita


eugenio, clizia e drusilla. eugenio montale intravedeva le piume congelate nelle ali della sua visiting angel per fermare la statua stanca del male di vivere, per rallentare la forbice che recide i volti grandi del prima.
eugenio decifrava poi drusilla in anelli di fumo sacro, in rumori casuali, negli echi della realtà invisibile di un pomeriggio assolato

infinità di cose. borges, omerico cieco veggente sapeva delle tante vie dell’unending rose, cada cosa es infinitas cosas, ogni cosa è infiniti mondi di cielo e mare, talismano che anche lui, cieco, potrà vedere

il cielo di handke. un cielo sopra la città, le domande del bambino quando era bambino, l’elenco delle cose più belle, cose persone luoghi umori odori colori, e l’innocente che non riesce a credere al male,  o si stupisce del momento in cui non sarà più quello che è

tristezza. malinconia di ohran pamuk, pietà per uomini e donne sulle rive del bosforo, involontari nipoti di chi ha visto passare laggiù navi achee in viaggio per troia, di chi ha visto alzarsi azzurre cattedrali bizantine sulle tracce dell’impero d’oriente… malinconia di ohran, di ambulanti e pescatori, di gabbiani all’alba, di altalene abbandonate in una sera come tante

il filo d’erba. paolo de benedetti insegue luigi p. o l’apocatastasi, per salvare tutto dal sortilegio dell’orrore, salvare anche un gatto randagio, un filo d’erba, senza il bisogno di chiedersi perché… tutto deve rinascere dalle ceneri e dal pianto, tutto deve rinascere perché altrimenti sarebbe inutile il senso di tutto ciò che abbiamo vissuto.


Nessun commento:

Posta un commento

Questo blog consente a chiunque di lasciare commenti. Si invitano però gli autori a lasciare commenti firmati.
Grazie