(di Fonso Genchi)
La maniera con cui sono trattate le lingue regionali parlate
all'interno dei confini della Repubblica Italiana è peculiare; difficile,
infatti, riscontrare una situazione simile in altri paesi, escludendo quelli in
cui vigono dei sistemi dittatoriali. Per inciso: le lingue regionali, in
Italia, sono trattate davvero malissimo; a tal punto che, sembra, non si
debbano neppur chiamare "lingue". La lingua siciliana non beneficia
di alcuna eccezione in merito.
Eppure, tutta la politica linguistica dell’Unione Europea, di cui
l'Italia fa pur parte, è votata al plurilinguismo e alla promozione anche delle
lingue regionali, considerate patrimonio culturale europeo degno di tutela. Ne è un chiaro esempio il trattato tra i paesi europei denominato “European Charter for Regional or Minority Languages”, risalente al 1992 ed entrato in vigore il primo marzo del 1998 (ma
non in Italia; poi vedremo il perché). Tale trattato - alla cui stesura iniziale partecipò anche un italiano, il siciliano Piero Ardizzone - impegna gli stati che lo sottoscrivono
ad attuare alcuni strumenti legislativi volti alla tutela e alla promozione
delle lingue regionali, termine con il quale vengono definite quelle lingue
“usate tradizionalmente sul territorio di uno Stato dai cittadini di detto
Stato che formano un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione
dello Stato e diverse dalla lingua ufficiale dello Stato”; viene poi
specificato che “questa espressione (lingua regionale o minoritaria) non
include né i dialetti della lingua ufficiale dello Stato, né le lingue dei
migranti”. Dunque, in tale categoria rientra a pieno titolo anche il Siciliano.
La "Carta Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie" impegna
gli stati che la hanno sottoscritta a mettere in atto alcuni provvedimenti al
fine di tutelare e promuovere l'uso in ambito pubblico delle loro
lingue regionali; nel trattato sono previsti anche: l’insegnamento di tali
lingue nelle scuole di ogni ordine e grado; l’ammissione del loro uso in ambiti
giudiziari e amministrativi; il loro utilizzo nei mezzi di informazione, ecc.
Tale trattato è stato firmato dall'Italia il 27 giugno del 2000,
con grave ritardo rispetto alla maggior parte dei paesi europei, e, cosa
ancor più grave, non è stato mai ratificato. L’Italia, infatti, è uno di quegli
otto paesi europei su 33 – l’unico paese di una certa importanza assieme alla
Francia e alla Russia – che alla firma non ha fatto seguire la ratifica. In effetti, il 9 marzo del 2012, sotto il Governo
Monti, il Consiglio dei Ministri approvò un decreto di ratifica – che sa un po’
di presa in giro perché non è altro se non la vecchia legge del 1999 che tutela
solo le lingue di 9 minoranze straniere (che non sono lingue minoritarie o
regionali!) più il Sardo, il Friulano ed il Ladino (il Siciliano non è
incluso!); a queste 12 lingue sono state aggiunte le lingue dei Rom e dei Sinti
– ma il Parlamento, per fortuna, non arrivò in tempo a votarlo per la caduta
del Governo.
Probabilmente il fatto che l'Italia non abbia ancora ratificato
questo trattato e che ha provato a farlo in questa maniera assolutamente
incoerente, escludendo le più importanti lingue regionali, non è un caso ma è
frutto di un atteggiamento politico-istituzionale, radicato anche in alcune
sacche della popolazione, di ostilità nei confronti del pluralismo linguistico
specie se comprendente le lingue regionali, dette solo in Italia – anche questo
non per caso – e spesso con una punta di velato disprezzo, “dialetti”.
La politica dell’Unione Europea è in totale sintonia con gli
appelli dell’UNESCO, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la
scienza e la cultura che redige periodicamente un atlante delle lingue a
rischio di estinzione. Per il momento, ogni due settimane nel mondo si estingue
una lingua; ma il numero è destinato ad aumentare e si prevede che nel 2100
rimarranno vive meno della metà delle attuali quasi 7.000 lingue parlate in
tutto il mondo; una gravissima perdita per il patrimonio culturale
dell’Umanità.
Nel Red Book of Endangered Languages del 1999 dell’UNESCO la
lingua siciliana veniva classificata nel massimo livello, cioè il VI, come
“lingua che non corre alcun pericolo di estinzione, con sicura trasmissione
alle nuove generazioni”, al pari dell’Italiano, dell’Inglese e di tutte le più
importanti lingue del mondo. Ma nell’aggiornamento dell’Atlas del 2009 la
lingua della nostra terra ha peggiorato la propria posizione, andando a finire
nella categoria successiva, la V, quella delle “lingue vulnerabili” (“molti
bambini la parlano ma in ambiti ristretti come quello familiare”). Un
campanello d’allarme importante è suonato.
Nel XXI secolo, nell’era dei mezzi di comunicazione di massa e dell’istruzione
di massa, è impensabile che, per evitare l’estinzione di una lingua, pur
attualmente ancor vigorosa, ma che non gode dello status di lingua ufficiale e
di nessun altro tipo di tutela legislativa, ci si possa affidare solo alla sua
forza intrinseca; per questo gli organismi internazionali, sensibili al
mantenimento del patrimonio linguistico dell’Umanità, invitano gli stati a
prendere provvedimenti legislativi adeguati, a cominciare dall’introduzione
dell’insegnamento a scuola delle lingue regionali o minoritarie e del loro uso
nei mezzi di comunicazione di massa.
E proprio in linea con i dettami dell’Europa e con gli appelli
dell’UNESCO – oltre che con la normativa scolastica italiana e quella
statutaria siciliana – il 18 maggio del 2011 la Regione siciliana ha emanato
una legge volta anche all’insegnamento, nelle scuole siciliane di ogni ordine e
grado, della letteratura e del “patrimonio linguistico” siciliano.
“Patrimonio linguistico”: lo abbiamo messo tra virgolette perché
questo non era il termine esatto presente nel testo del disegno di legge così
come era uscito dalla V Commissione Cultura dell’ARS e giunto in aula per
l’approvazione. In quel testo, così come nei precedenti ddl in materia,
presentati dai deputati Marrocco (2008) e Lentini (2010), si parlava di “lingua
siciliana”; ma, in extremis, l’approvazione di un emendamento presentato dal
deputato Lentini (quello stesso deputato che nel ddl del 2010 - invece - aveva
proposto, addirittura, di cambiare “l'impropria definizione di 'dialetto' in
quella di 'lingua'” nel testo della legge regionale n° 85 del 6 maggio1981 dal
titolo "Provvedimenti intesi a favorire lo studio del dialetto siciliano e
delle lingue delle minoranze etniche nelle scuole dell'Isola") faceva
modificare in tal senso il testo.
Forse qualcuno avrà suggerito al deputato Lentini che in Italia non
è gradito - per non dire che è proibito - definire “lingua” un idioma regionale
non ufficiale; e neppure un passato glorioso (il Siciliano, oltre che primo
“volgare” illustre, fu lingua ufficiale di Stato nel XIV e nel XV secolo),
una produzione letteraria ininterrotta dal 1230 ad oggi (la più antica e lunga
in assoluto tra i "volgari" parlati nell'attuale territorio italiano,
toscano/italiano incluso) e un presente ancora forte e vigoroso, son bastati
per poter definire il Siciliano una lingua (ci chiediamo cos'altro occorra:
forse, davvero, che venga riconosciuto ufficialmente?).
Nonostante l’approvazione di tale legge regionale, restano tanti
dubbi e incertezze sul futuro del Siciliano. Innanzitutto c'è da constatare che
non è stata ancora pienamente attuata. Basterà questa legge per ridare vigore
alla lingua siciliana? Non occorrerebbe una strategia di tutela linguistica più
organica e completa, come accade in altre regioni d’Europa e come suggerisce il
trattato?
Altre lingue - alcune anche con un curriculum meno nobile di
quello del Siciliano - parlate da un numero di persone inferiore, meno vigorose
e con più problemi di standardizzazione, oggi sono lingue ufficiali regionali;
ci riferiamo al Gallego, al Basco, al Catalano, al Corso ma, per restare in
Italia, anche al Sardo (lingua ufficiale di Sardegna dal 1997). Per quale
ragione non ci si è dati da fare per far compiere alla lingua siciliana lo
stesso percorso?
Il linguista Christopher Moseley, responsabile di quell’Atlas
dell’UNESCO che abbiamo in precedenza menzionato, sostiene che, affinché una
lingua non si estingua e riprenda vigore, occorrono essenzialmente due fattori:
che ci siano degli atti politici e istituzionali volti alla tutela e all’uso di
essa e, soprattutto, che ci sia una presa di coscienza militante da parte della
gente. In Sicilia questi due fattori sono presenti?
La "questione"
della lingua siciliana non è una questione meramente linguistica; e neanche
soltanto culturale o identitaria. Non è un caso che spesso quelle regioni e
quei paesi in cui è più sviluppata la difesa della propria specifica identità
culturale, anche e soprattutto attraverso la promozione della propria specifica
lingua, siano regioni all'avanguardia – o comunque in forte crescita – dal
punto di visto economico, culturale e sociale. L’orgoglio per la propria
identità è alla base dell’amor proprio di un popolo, amor proprio senza il
quale non è possibile costruire sviluppo, a tutti i livelli e in tutti i campi.
L’economia, la cultura, la politica e tutti gli altri aspetti della società
siciliana non possono e non potranno vivere una fase di “rinascenza” se non
passando attraverso la rinascita dell’orgoglio e del desiderio di affermazione
della propria identità e quindi, automaticamente, anche della propria lingua
che di questa identità ne è espressione viva e fedele.
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