di Francesco Scrima
“e non c’è vita
mai che al
suo sogno basti”
(C. Gerbino – Il vero dell’animale)
1. Ale era Ale, sempre, qualunque cosa facesse,
dovunque si trovasse, con chiunque avesse a che fare. Ogni suo gesto, ogni
parola, erano qualcosa di semplice, e insieme di unico, di irripetibile e di
ineffabile, non perché avessero in sé una plateale epicità, nessuna enfasi
particolare, ma perché erano suoi –
niente di più che la conferma del suo essere al mondo. Ale non diceva mai “secondo me”, o “siccome
sono fatta così”, no, lei diceva sempre soltanto
quello che era necessario dire.
C’era
una grazia in lei che toccava la materia inerte, e la rendeva viva; era una
grazia tutta femminile, e prorompeva dal suo corpo con la carica di mille
esplosivi. Eppure, la sua femminilità non era mai volgare, non si mostrava con
gli ammalianti colori dell’eros, con le insidie dei sensi, bensì con
l’intelligenza dello sguardo, con l’ammiccante sorriso in fuga da una bocca
avida di vita.
Era
furba, Ale, e saggia quel tanto che bastava, capace di prendere e dare con la
giustezza dei puri di cuore: un giorno si deve correre, un altro rallentare,
fermarsi a volte, e poi, un passo alla volta, incontro all’infinito. Era
importante esserci, per la mia Ale, era necessario partecipare.
2. Io
sono nato insieme a lei, al suo primo sguardo luminoso. Prima, ero soltanto esistito,
da qualche parte, insieme a tanti o a qualcuno in particolare.
Sapete,
ero un giovane caparbio e pieno di idee. Non inseguivo i sogni: li vedevo già
miei. Ero sicuro di tutto, capace di tutto, nello studio come nella vita
privata. Volete sapere ancora dell’altro? Bé, ero anche uno stronzo. Sì, avete
capito in che senso, uno di quelli che in amore gioca e basta – per il puro
gusto di giocare. Uno di quelli – dei tanti – che non sanno dire “ti amo” se
non pensando agli altri impegni della giornata, oppure a quando ci si ritroverà
su di un morbido letto, o da qualche altra parte, con la “lei” del momento.
Vivevo
per me stesso, mostravo a tutti il mio bel volto, saettavo qua e là due occhi
scurissimi, avidi di piacere, e dicevo “addio” giusto un attimo prima della
possibilità – del rischio – di non poterlo dire mai più.
E poi,
improvvisamente, cambiò tutto.
Con la
leggerezza d’una foglia, la forza di un’eruzione, l’ineluttabilità d’un nuovo
giorno, arrivò Ale – e si prese tutto.
Io, la
prima volta che vidi Ale (si era ad una festa, ovvio, ma di chi? per cosa?),
non me ne accorsi nemmeno. Nel senso che la giovane poco più che diciottenne
(anch’io avevo quell’età di fuoco e di vento), dai lunghi capelli castani, un
po’ grassottella, chiusa in una casacca colorata e con le frange (che tempi, la
fine degli anni Settanta…), le espadrilles
rosse ai piedi, poteva assomigliare ad una squaw dei nativi americani,
alla mascotte d’una comunità hippy, o ad un essere venuto da un altro mondo, ma certo non avrebbe potuto
catturare lo sguardo di un piccolo, ottuso latin-lover
(espressione, anche questa, molto vintage
), a caccia di misure canoniche o di avventure da “una botta e via”.
Ma il
fatto è che non era entrata lei nel mio obiettivo, ma io nel suo. Capite? Io – camicia bianca attillata e pantaloni scuri
a zampa d’elefante – ero stato scelto da una divinità travestita da ninfa dei
boschi, e non avevo più scampo.
La
storia di un uomo non è mai nelle sue mani – crederlo è da stolidi razionalisti
-; il Caso si trastulla con le sue marionette, e del suo divertimento a noi
tocca pure qualcosa, se ci lasciamo guidare, se ci adattiamo. Se non lo
pensiamo, quel qualcosa, definitivo.
4. La
seconda volta, infatti, era tutto predisposto.
Il suo
sguardo felino, il mio disarmato ma attento, una scena da film in bianco e nero
con una spiaggia deserta, un sole che non vuole tramontare, i riflessi lontani
all’orizzonte dove cielo e mare s’infuocano nello stesso istante, e manca solo
un regista che dica “motore: azione!” per spingere gli amanti al fatidico bacio
(chi erano quei due? Mi pare Burt Lancaster e Deborah Kerr in Da qui all’eternità …).
Fu
lungo, quel bacio, il nostro primo bacio,
così lungo che, dopo, pensai di averlo sognato, e anche la spiaggia, il
tramonto e tutto il resto.
Ed era
davvero un sogno, ma dentro c’eravamo io ed Ale, anzi, io che nascevo per la
seconda volta, quella vera, quella giusta, ed Ale che non era una squaw , e nemmeno una dea, ma una donna
vera – una diciottenne più donna di chiunque avessi mai conosciuto prima, e che
avrei conosciuto dopo.
Dopo?
Ci sarebbe stato un “dopo”, per me, che cambiavo pelle e pensieri e regole di
vita, tutto insieme? Allora, pensavo di no. (Quando, negli anni seguenti, lessi
il racconto Ligheia, di Tomasi di
Lampedusa, capii bene le parole del professore che conosce la sua Sirena, e la
ama, e non può più amare nessun’altra donna per il resto della sua lunga vita).
Non pensavo affatto, invero, perché ogni palpito del mio essere era proiettato
in una sola direzione – ed era l’unica, quella che era stata tracciata, per me,
da qualcuno.
5. Può
un sogno essere più reale della realtà? Può un incantesimo impadronirsi di te
fin nel midollo, risucchiarti dove non sei mai stato, e tuttavia sembrare lui
la vita vera – quella precedente finita in un limbo opaco e irraggiungibile?
Sì, può accadere. A me, signori cari, accadde proprio questo.
Compresi, allora, che l’amore non è una favola bella , come dice il Poeta, e neppure un’utopia buona solo
per i romanzi: amare è la più semplice, la più necessaria, la più naturale delle
azioni umane. E, proprio per questo, la più fragile.
6.
Ormai avete capito che, fra me e Ale, ci fu una terza volta, ed una quarta, e
poi una quinta, e così via, lungo una interminabile serie di giorni e di notti,
tutti uguali e tutti diversi.
Fu un
tempo lungo? Non saprei.
Il
tempo che gli uomini hanno diviso in segmenti è convenzionale, e quindi banale,
giusto per misurare la vita che è passata, quella che sta passando e quella
che, inconoscibile, passerà non misurata da noi stessi.
Forse,
per questo tipo di tempo, fu breve il nostro viaggio – poco più di un anno, e
mesi giorni ore minuti secondi, con tutte le loro frazioni che mi piacerebbe
calcolare per mescolarli e confonderli come i baci catulliani. Ma a me ancora
pare tutta una vita quella che trascorsi con lei: una vita senza tempo, ma con
un tale mucchio di gesti, di parole, di passioni e di altri scambi mentali e
corporei, che, davvero, non saprei dirne la misura. Anzi, forse sì.
La
misura è la nettezza dei ricordi che non mi lasciano, si allungano dentro di
me, sono vivi come la luce del mattino e come quella distesa di mare, che era
lì, davanti a noi, e ci chiedeva solo di accoglierci per sempre nel suo materno
grembo.
Magari
l’avessimo fatto.
So bene
che, raccontando anche di ciò, non potrò che svilirne il significato, ma se non
lo facessi, farei torto ad un aspetto fondamentale del nostro rapporto, a
quello che, in definitiva, lo rappresentava meglio – ne era, per così dire, il
senso ultimo.
Ale era
vergine quando la conobbi. Io no; ma, dopo che feci l’amore con lei, la prima
volta, capii che, in fondo, lo ero anch’io, perché, in passato, avevo solo
posseduto altre donne, soddisfatto la noia col piacere (o viceversa,
probabilmente). Avevo solo gestito al meglio i miei ormoni maschili.
Ale non
la potevi possedere. Ale era una casa accogliente e calda e ariosa, ma era
anche l’antro segreto dei desideri. Ale era femmina in ogni particolare del suo
essere, in ogni centimetro del corpo, ma ti faceva sentire un uomo.
In Ale
l’eros poteva essere un soffio carezzevole di Zefiro o un tumido assalto di
Borea; era il principio e la fine d’ogni azione, la gioia ed il tremore, la
vita e il nulla.
Fu
semplice solcare il suo corpo, oltrepassare la soglia dell’imene – come ci
arrivammo a quella prima volta? Su di un letto che non era il suo, né il mio,
zona neutrale di qualche amico compiacente? Come si mette a fuoco, dopo tanti
anni, il passaggio della linea d’ombra fra buio e luce?
Mi
attraeva ogni parte di lei.
Quello
che amava coprire con stoffe e colori di tradizione orientale (era una moda,
allora, ma mai massificata, tutt’altro; era il gusto di non sentirsi parte
d’una matrice occidentale che già puzzava di marcio), nella nudità si offriva,
senza inibizioni né malizia, all’inevitabile incontro, alla stretta dei corpi,
alla lotta animalesca in cui si fonde nell’altro – nel suo sangue, nella sua
anima.
8. Con
Ale si parlava di tutto.
Se i
silenzi accompagnavano i nostri rapporti sessuali, le parole erano
l’ingrediente più saporito del nostro stare insieme. E non c’era argomento su
cui non ci confrontavamo. In genere, lo spunto veniva da un libro – capitava
che leggessimo insieme lo stesso, saggi più che romanzi, e anche questa scelta
era figlia della nostra generazione: Fromm, Marcuse, Lukacs, i Francofortesi e,
dei nostri, Umberto Eco – oppure un film visto in uno dei frequentatissimi
cineforum che, come funghi, crescevano nella nostra città, che ricordo allora
degradata, come adesso, ma più viva, a livello culturale, grazie ai giovani, ai
liceali ed a noi universitari. C’erano delle idee (ideali, anche?, chissà…),
ecco tutto, e circolavano, si spandevano, ci univano o ci facevano scontrare
(anche fisicamente, come no?, anche in quel modo…).
Avevamo
inventato un gioco – il gioco delle verità, lo chiamavamo. Ci si faceva delle
domande, su passato presente futuro, e c’erano due opzioni: decidere di non
rispondere o farlo spietatamente sinceri. Era un gioco, ma ci aiutò a crescere,
a guardare in faccia la realtà, a conoscerci ed a conoscere gli altri (ma non
tutti gli amici furono entusiasti di quel “gioco”…). C’era molta voglia di
vivere. Di raccontare e di raccontarsi. Ed Ale la riassumeva tutta in sé, questa
voglia, col suo brio contagioso, il suo passo danzante, la sua risata aperta e
deliziosa.
Un
giorno mi regalò una gatta e volle che la chiamassi “Ale”, come lei.
- Per
quando sarò andata via – mi disse, allegra e scanzonata come sempre.
A me
non piacque quell’uscita, ma non lo dissi, volli stare al suo gioco, e così
tenni quella gatta fulva con me. Viveva nella mia stanza, e mi guardava fissa
dai suoi grandi occhi cilestrini, come volesse parlarmi, dirmi chi fosse in
realtà, creatura di un altro mondo – un’altra Ale nel mio cuore.
Ora,
dopo tutto quello che vi ho raccontato, vi parrà un paradosso, o un’invenzione
romanzesca, il fatto che Ale parlasse spesso della morte.
Sì,
avete capito bene, della morte come fatto in sé, come non esserci più, da
nessuna parte. Essere nulla nel nulla. E in nessun luogo.
Proprio
lei, che amava la vita, che era la
Vita, non perdeva occasione per interrogarsi su quel mistero da cui,
istintivamente, ci teniamo lontani per paura o per indifferenza.
Non era, quello suo, un gioco letterario,
un’eco di frasi lette nei poeti classici o moderni che frequentavamo. Era, io
credo, voglia di sapere, di conoscere, di avere con sé quel mistero e non
doverlo sentire un nemico.
Se
l’amore è anche conoscenza, bisogna comprendere le cose lontane, non sentirle
come una minaccia, averle accanto.
Io non
ho mai temuto la morte, ora come allora. Certo avere vent’anni ti aiuta a
beffarti di tutto, a crederti più forte di ogni potenza oscura.
Eppure, parlarne con Ale m’inquietava. Mi sembrava una sfida troppo
manifesta, mi sembrava che ci sarebbe stato un prezzo da pagare, un giorno o
l’altro. Ed io volevo diventare adulto accanto ad Ale.
Non
capivo nulla, in realtà, e la gatta “Ale”, guardandomi intensamente, forse mi
compativa, provava pena per i miei inutili timori. Avrei capito dopo. Tanto
tempo, dopo, avrei avuto in dono, o come pena, per comprendere quell’atto
d’amore di Ale verso di me – verso la vita, verso ogni stupida concezione di
pensare per sempre ciò che deve
finire.
9. Ale
se ne andò un pomeriggio di fine autunno.
Pioveva, quel giorno. Chissà perché piove sempre in giorni così. Fece un
ultimo viaggio, da casa mia a casa sua, e poi un unico, lunghissimo volo che
non la riportò più indietro. E svanì nel nulla, in quello stesso luminosissimo
luogo da cui era discesa “a miracol
mostrare”. Per gli uomini, aveva diciannove anni, e mesi giorni, ore,
minuti, secondi, e frazioni su frazioni di qualcosa; per me, non so; so che
aveva dato tanto a tutti, e che aveva ancora gesti, parole, sguardi, sorrisi,
baci, corse a perdifiato, arrabbiature e amore da spargere nel mondo.
La cosa
che mi turbò di più fu che non mi ero accorto, in quel momento, che qualcosa
stava finendo. Ma era così, e Ale l’aveva sempre saputo.
Io non
volli vedere nulla di ciò che era rimasto.
Neppure
quel “vespino” rosso che ci aveva condotti nei posti più impensabili, e che era
il nostro tappeto volante, la scopa delle streghe, o più semplicemente il mezzo
più comodo, allora, per sentirsi liberi da tutto e da tutti.
Quel
pomeriggio lo passai a girare per strade che non parlavano più, sebbene ogni
angolo di esse fosse uno stiletto che affondava la sua punta nelle mie viscere.
Camminai fino a sfinirmi, fumando l’ultimo pacchetto di sigarette – le
Muratti! – che avevo comprato con Ale, la spesa divisa come sempre a metà.
Quando
cominciai a non sentire più nulla, neanche l’eco rumorosa dell’ultima frase che
ci sarà stata, e non era di addio, e non era solo una frase d’amore; quando
smisi di pensare che il pensare valesse a qualcosa, e il ricordare a coprire il
vuoto, o altre cazzate del genere, allora tornai a casa.
Entrai
stanchissimo nella mia stanza, e c’era ancora il profumo di lei, non la sua
presenza, c’era l’essenza di lei; mi
sdraiai sul pavimento, chiusi gli occhi, e mi addormentai.
L’ultima cosa che vidi, fu lo sguardo di “Ale”, la gatta, sopra di me.
"Ale" è il nostro desiderio di bellezza, di verità, di assolutezza.
RispondiElimina"Ale" è il rifiuto della mediocrità, della finitezza, della caducità.
"Ale" ha la freschezza di una giornata luminosa e dà respiro a noi, che ci muoviamo spesso nel grigiore. Il racconto è proprio bello e la sua lettura è "una goccia di splendore".
Daniela
"Ale era Ale",speciale perché se stessa,unica perché lo era fino in fondo,lei non aveva bisogno dei "secondo me".Ale apparteneva a se stessa non poteva essere di nessun altro,non poteva essere di nessun luogo:un giorno correva,un altro rallentava,si fermava delle volte,e poi,l'infinito. Ale non era di nessuno ma possedeva tutti.Lei era così:ti entrava dentro.Non potevi opporti,non volevi opporti. Ale bastava,era necessaria,per lei era importante esserci. Ale era la vita,proprio per questo non si poteva fare a meno di nascere con il suo sguardo. Ale era l'amore,semplice,fragile e al tempo stesso forte:Lei si prendeva tutto,aveva la forza del vento e del mare:spazzava via tutto;con Ale non esistevano i "prima" con lei pensavi al "dopo".Lei era d'amare, non conosceva gli addii, non le appartenevano. Ale aveva gli occhi furbi di chi custodisce un gran segreto,occhi di chi non ha paura del buio.Si chiedeva spesso cosa succede quando la luce si spegne, lo faceva sempre in quel modo tutto suo, con quella semplicità che la rendeva unica, perché lei era così:la sua anima le camminava sempre un passo avanti. Ale era un sogno di quelli reali,reali fin troppo:un sogno ad occhi aperti.Si sa però che i sogni sono così:non hanno residenza,i sogni stanno un po' stretti dappertutto.Mi rimane tanto di questo sogno meraviglioso,e lo sguardo di un gatto ne è solo un segno,il segno di un passaggio che non passa più, che non può passare,che non vuol passare.
RispondiEliminaAle non la puoi possedere ma lei possiede te.
Io ho sognato la sua storia e ho vissuto del suo amore che si consumava tra silenzi e giochi della verità,e ho capito che questa storia è un po' un tramonto,quello dai colori più belli,quelli che non tramontano mai.Grazie per aver permesso ad Ale di fermarsi nel nostro cuore e nella nostra anima, d'altronde Ale è così:sosta ovunque sia necessario esserci.Grazie per averci fatto sentire i suoi passi.
Giulia
Comincio a capire solo adesso - io che mi sento solo uomo di lettere - cosa sia la partenogenesi: per esempio che da una storia possa nascerne un'altra, e poi un'altra ancora, all'infinito... Quindi il "grazie" è solo mio, decisamente, assolutamente, soltanto mio...
EliminaFrancesco
Ma è giusta questa assolutezza?? io non lo condivido, perchè cosi ci si illude di poter incontrare donne "assolute" e semidivine, quando invece nella realtà le donne sono solo poco significanti e superficiali nè più nè meno come noi maschi.. e anche quella rara speciale-intelligente-sensibile ha i suoi limiti, con cui bisogna fare i conti realisticamente, e senza troppi sogni
RispondiEliminaLuca
Non credo sia un problema di "assolutezza", nè di donne speciali: il fatto è che ci trasferiamo nell'altro - uomo o donna, poco importa - solo se lo sentiamo simile a noi. E questo ci rende fragili, ma anche infinitamente speciali.
EliminaFrancesco
" πάντα ῥεῖ ".
RispondiEliminaSe solo questo principio di Eraclito fosse valido per noi comuni mortali
quando si parla di sentimenti. Eh no, caro Eraclito! Non scorre proprio niente,
il sentimento che viene strappato all'uomo dalla morte non scorre mai, esso si
trasforma in rimpianto, quando tutto il dolore sembra essersi sopito , quando
tutta la sua forza sembra essersi affievolita e l'animo sembra essere entrato
in uno stato di grazia, allora tutto torna perché ciò che è stato non è più, e
ciò che poteva essere non sarà mai.
Bisogna fermarsi un attimo, ritrovare la forza di guardarsi dentro, e
strappare il ricordo agli artigli diabolici del rimpianto.
Ale è vita anche dopo la morte, perché ha insegnato l'amore al giovane "latin
lover" che adesso è l'uomo che la ricorda. Ed è per lei che quell'uomo deve
guardarsi attorno, e vedere chi è egli stesso grazie a quell'amore che insieme
hanno condiviso e fatto vivere, poiché ciò che lei ha dato a lui in egual modo,
lui ha dato a lei. Quando qualcosa finisce nonostante tutto, bisogna sempre
coglierne l'essenza e continuare a far vivere quel bello dentro di noi,
custodirlo, proteggerlo senza rimpianti ma con il coraggio di essere sempre se
stessi, malgrado tutto. Quel bello ci arricchirà, e tra la gente avremo una
luce più splendida.
Almachilde.
Come nel bellissimo verso di Gerbino, "non c'è vita mai che al suo sogno basti"... Per questo è inutile attendere l'ultimo momento per amare le cose belle. Ce ne restano così poche...
EliminaFrancesco
Molto bello. Ci sono passaggi di garande delicatezza e felicità letteraria.
RispondiEliminaEnzo
Questa storia è decisamente"erotica". Nell'Eros l'unica cosa che si desidera veramente e fortemente è la propria anima. "Ci trasferiamo nell'altro solo se lo sentiamo simile a noi". Il desiderio è desiderio di ricongiungersi pienamente con se stessi; l'anima ci attrae a sè, come il latin lover, protagonista senz'anima, agito dai suoi ormoni, viene attratto da Ale, la donna sconosciuta e misteriosa, che vede per la prima volta ad una festa.
RispondiEliminaIn questo, come in altri tuoi racconti, la storia, che per sua natura, avviene nel tempo, parla del "senza tempo". Questa storia è bella per gli infiniti richiami che essa è capace di suscitare nell'anima di chi la legge che, in queste storie, può trovare qualcosa di sé.
Sandra
Alle volte, i nomi non servono a nulla. Altre, invece, un nome può significar tutto.
RispondiEliminaAle non è solo un nome, Ale è vita, una tempesta di emozioni, un fiume in piena.
Ale è l'amore che solo una donna può dare, una fiamma che brucia e che non può spegnersi.
Ale è l'aria fresca della primavera, il raggio di sole sul cuscino, alla mattina appena svegli; Ale è la conzone preferita che passa alla radio, mentre sei bloccato nel traffico; Ale è un sorriso nel momento difficile, una mano che ti aiuta, il coraggio nelle avversità. Ale è "sostanza e accidente", la natura di ogni cosa, è Logos.
Ale non è morta, ma è "una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare", come diceva Dante.
Ale è punto di partenza e punto d'arrivo, meta e destinazione di un viaggio forse breve, ma intensissimo. Ha donato al protagonista la vita, e una gioia stupenda. Purtroppo, però, "come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno,come le rose."
Ale è la semplicità che diventa bellezza. Qualcuno, una volta, chiese ad un uomo perché sono sempre le persone migliori ad andare via prima del tempo. L'uomo rispose: " se tu dovessi raccogliere dei fiori, senza dubbio raccoglieresti quelli più belli."
Ale è il fiore più bello per eccellenza.
Il protagonista dovrebbe essere fiero di averla conosciuta, lei che ha saputo dargli così tanto, anche in così poco tempo. La morte non strappa via nessuno, i ricordi tengono inchiodati gli occhi e l'anima dell'amata a noi.
Tiziana
Scrisse Cesare Pavese ad un critico che aveva recensito "La luna e i falò", che la "serena contemplazione del ricordo" che lui aveva rilevato nel libro non era stata (cito) "se non a prezzo di tali rinunzie nella mia vita che oggi ne sono tramortito". Hai colto il vero del racconto - "sostanza e accidente" - e, forse, hai colto anche lo spasmo del presente che si ribella alla "damnatio memoriae" come soluzione al peso dei ricordi. La vita si diverte con tutti noi, e ci piace, talora, indossare i panni dei personaggi che ci obbliga a recitare. "Sit tibi levis terra..."
EliminaFrancesco