di Enzo Barone
Recentemente ho pubblicato su Palingenesi un racconto, in
buona parte in lingua siciliana, che si intitolava Lammicu.
Si tratta, per chi non l’avesse letto, di un monologo di un umilissimo mandriano emigrato al nord, con un finale
drammatico, commovente, ma senza sentimentalismi, almeno nelle intenzioni.
Chi avesse avuto la bontà di leggere qualche altro mio
racconto sa quanto io cerchi, come chiunque credo voglia fare della buona
narrativa, di rifuggire la retorica, soprattutto la retorica del
sentimentalismo a buon mercato, quello ruffiano, spudorato da fiction
televisiva.
Ora però, scrivendo Lammicu, mi è capitato per la
prima volta di trovarmi a dover fare i conti, senza nemmeno averlo previsto,
con la necessità di un’autodiagnosi, un'autovalutazione, come si dice a scuola,
di quanto prodotto. Autovalutazione fatta, correttamente credo per maggiore
obiettività, ponendomi nelle condizioni del lettore italiano distaccato e non
dell’autore, per giunta siciliano.
Certe effusioni sentimentali del protagonista, i suoi
lamenti nel finale tragico, le sue ingenue riflessioni, i ricordi dell’infanzia,
riletti così con un certo distacco autocritico, anche dopo ripetuti esami, mi
sono apparsi sensibilmente distanti da quelle che erano le mie intenzioni
narrative iniziali. Innanzi tutto ciò è accaduto rispetto al tono del racconto
e alla sua impostazione generale,
rispetto alla rispondenza allo statuto di un racconto realistico, con valenze sì
sicuramente emotive, ma non melodrammatiche e nemmeno teatralmente enfatiche.
Il problema, ne sono consapevole, si manifesta intanto per
il fatto che l’esperienza della scrittura creativa in lingua siciliana è, come
lo sarebbe per il 90% dei siciliani, un’avventura in una landa sconosciuta e
irta di pericoli.
Nessuno o quasi scrive – autori di cabaret a parte - oggi in siciliano. Chi lo fa, lo fa come me
traducendo sostanzialmente dall’unica lingua madre scritta (o spesso unica
anche parlata) cioè dall’italiano, affrontando e risolvendo a modo suo grandi
difficoltà lessicali e ortografiche.
Sono insomma soprattutto le difficoltà legate ad ogni tipo
di traduzione da una lingua all’altra, al noto tradimento di una lingua in
favore di quella meglio conosciuta. E fin qui tutto vecchio.
Ora vorrei però affrontare una questione più sottile. Faccio
degli esempi.
Il mio personaggio di Lammicu, Giovanni ad un certo
punto dice degli occhi della madre:
“quando vossia nisciu …
l’occhi stiddiavanu forti, come li soli luci di lu cielu e senza parlare mi
dicievanu mille e mille grazie” e
poi “sì vassia che era cuntenta, però sempre adda maniera, senza na parola,
solo cull’occhi, ca rirevanu e brillavanu, brillavanu d’estati” e più
avanti “Mi lu ricordu ddu brillari di l’occhi, raru, priziusu comu la nivi a
giugnu, pirchì fina di nicu nicu, parole duci niente, carezze e vasati scarsi,
si cc’è necessità; non sunnu cose di pastori: nui genti di campagna ci vulemu
bbene a na manera diversa.” cioè in italiano “quando voi siete uscita…gli
occhi vi brillavano forte come stelle, come le sole luci del cielo e senza
parlare dicevano mille e mille grazie….si voi eravate contenta, però sempre in
quella maniera, senza una parola, solo con gli occhi, che ridevano e
brillavano, brillavano d’estate…Me lo ricordo quel brillare degli occhi, raro,
prezioso come la neve a giugno, perché sin da bambino, parole dolci niente,
carezze e baci scarse, se c’è necessità; non son cose da pastori: noi gente di
campagna ci vogliamo bene in un'altra maniera.”
Ecco allora mi pare che l’intensità
emotiva e passionale dei testi nelle due lingue sia un po’ diversa. Più accorato, partecipato, dolce nella lingua
siciliana e meno nell’italiana.
Continuiamo: “… certu
ca è lammicu chistu, lammicu di la casa, di me matri, di li me besti, di l’amici,
di lu me pani, la me terra... Puru la curpa è di tutta‘st’aria grossa ca pare
che soffoca tuttu e ‘sta chianura che non finisce mai e ti leva lu ciatu. Ma
campare si deve. E iò di campari, in un modo o nell’altro, haiu la forza. A
farmi moriri di fami nuddu ci può, né l’omini né la sorti. Di lu travagghiu non mi
scantu. Questa è la me vita: pi chistu nascìu, pi travagghiari.” Cioè “cero che è il languore questo, languore
della casa, di mia madre, delle mie bestie, del mio pane, la mia terra…Pure la
colpa è di tutta quest’aria grossa che sembra che soffochi tutto e questa
pianura che non finisce mai e ti leva il fiato. Ma si deve campare. E io di
campare, in un modo o nell’altro, ho la forza. Nessuno riesce a farmi morire di
fame, né gli uomini né la sorte. Non ho paura del lavoro. Questa è la mia vita:
sono nato per questo, per lavorare.”
E’ interessante anche per
un siciliano DOC vedere fronte a fronte il testo siciliano (o meglio, come
detto, la traduzione della traduzione) e l’italiano.
Qua emerge forse con maggior vigore la specificità e unicità
linguistica del siciliano.
Vuoi perché a certi termini come lammicu non si può
dare una traduzione precisa, vuoi per la diversa struttura sintattica del
periodo dovuta alla posposizione del predicato a fine frase, vuoi per la
diversa icasticità, pregnanza drammatica di alcuni termini, che pure avrebbero
una traduzione in italiano, come travagghiari o campari, benché
con uno slittamento anche deciso di significato.
Proprio su questi due termini comunissimi sarebbe il caso di
fare una riflessione più attenta.
Travagghiari tradotto vorrebbe dire più o meno
“patire un travaglio”, lavorare soffrendo, patendo, mentre campari, normalmente
molto più usato di viviri, ha il suo perfetto omologo fonetico in
campare, non in vivere che gli è più prossimo nell’uso italiano.
Campare italiano non è proprio vivere, ma sopravvivere,
andare avanti giorno dopo giorno.
C’è in questi lemmi siciliani, ma questo non lo scopro certo
io ora, certamente una carica di tragicità, di vigore plastico doloroso e
popolare che l’italiano mediamente non ha. Questo vale anche per tantissimi
altri termini, anche rafforzati da una efficace azione onomatopeica come ad
esempio in strurimentu, cafuddari, camurria.
E questo certo contribuisce a connotare fortemente una
lingua.
Ma anche queste sono cose ben note: non sono così
sprovveduto da credere di sfondare una porta già autorevolmente aperta da tanto
tempo.
La questione che volevo porre è un’altra.
Torno al mio racconto per un ultimo significativo esempio: ”Matri, matruzza nicissaria comu l’aria, quasi mi
pirmittissi ora di addumannarivi na grazia: chidda di cuncidirimi la licenza di
dirivi, na vota, na vota sula, nna stu minutu e mai cchiù, di tu e no di
vossia. Ora ca nun ci si cchiù, ora mi vieni la forza, pirchì prima ‘nfacciu a
tia m’avissi abbannunatu lu curaggiu. Nna stu minutu e mai chiù, pirchì nun
sentu oramai li iammi e dentro a stu vadduni scuru la menti, araciu araciu,
s’infusca.
Si sapissi mamma com’è
stranu e dduci dariti di tu...Che bbella la nivi in lontananza ‘ncapu a li
vetti, lu sai mamma? s’allumina di li riflessi d'argentu di la luna e allora
restu a bocca aperta e di colpu lu friddu nun c’è cchiù.
Ecco Giuvanni.
Binirici mamma… riri
ora, riri cull’occhi suli ca brillanu d’estati.”
Che in italiano fa pressappoco:
“Mamma, mammina necessaria come l’aria, mi permetterei quasi ora di domandarvi
una grazia: quella di concedermi una licenza di dirvi una volta, un volta sola,
in questo momento e mai più, di tu e non di voi. Ora che non ci sei più mi
viene la forza, perché prima di fronte a te m’avrebbe abbandonato il coraggio.
In questo momento e mai più, perché ormai non sento le gambe e dentro a questo crepaccio
buio la mente, piano piano, s’offusca. Se sapessi mamma com’è strano e dolce
darti del tu…Che bella la neve in lontananza sopra le vette, lo sai mamma? S’illumina
dei riflessi d’argento della luna e allora resto a bocca aperta e di colpo il freddo non c’è più.
Ecco Giovanni.
Benedici mamma…ridi ora,
ridi con gli occhi soli che brillano d’estate.”
La differenza mi pare molto grande: ciò che in italiano si
trova ad una grado emotivo medio, e assume i contorni di una effusione
sentimentale delicata e vagamente liricheggiante, sembra diventare in siciliano
una cantilena popolare straboccante di pathos, di trasporto, arrivando e
superando probabilmente i confini dell’ampollosità, andando verso l’amplificazione
teatrale cioè.
E’ vero che ancora una volta a questo concorrono talune
queste peculiarità siciliane, come ad esempio le particolari assonanze e una
fonetica dove spiccano i riverberi delle molte U finali, il tipico
raddoppiamento dell’aggettivo per rendere il superlativo, una certa prolissità
nella costruzione dell’effusione emotiva, l’uso delle iperboli.
Ma tutto considerato questo non basta; la differenza resta
grande.
Perché il siciliano comunemente usato è appunto avvertito
nella percezione linguistica, e direi anche antropologica, da siciliani e non,
come lingua caratterizzata spesso da una particolare vena drammatica, incline
per sua natura ad una lirica intensa, talora vibrante, se non talvolta mielosa oppure,
in altri casi, come tanti dialetti, particolarmente incisiva, esplicita,
robusta nell’invettiva o nei testi polemici.
Questi si ritengono comunemente elementi caratterizzanti del
siciliano, almeno così comunemente.
Ma siamo così sicuri che le cose stiano in questo modo?
Ora al di là di alcune verità sulle peculiarità fonetico-sintattico-linguistiche
endemiche del siciliano, così come si è evoluto ed è arrivato a noi, siamo
sicuri che siano queste le uniche e le più forti ragioni che inducono il
lettore o ascoltatore medio a sentire con questa speciale sensibilità la nostra
lingua?
La questione, se è sollevata a giusta ragione, evidentemente
meriterebbe studi di ben altro spessore e questa non è la sede né il media
appropriato.
Mi limito ad una riflessione personale, fatta con cautela e
discrezione, ma convinta ovviamente.
Il mio convincimento è che la letteratura prodotta in
Sicilia (in siciliano e in lingua italiana) e soprattutto quella grandissima
dall’unità in poi, abbia generato nei suoi vertici più luminosi, pur diversi tra loro come Verga, Capuana,
Pirandello, Quasimodo, Consolo, Piccolo, Lampedusa, una nebulosa tematica e
ideale comune, gravitante attorno alla concezione della condizione umana spesso
segnata dalla sconfitta e dalla negatività, ad una idea del vivere tragico e
dolente, ad uno scetticismo ironico, dissimulato, ad una estrinsecazione delle
passioni intensa, icastica, tante volte estrema e tutto ciò abbia non solo grandiosamente
condizionato in quella direzione la fruizione del siciliano stesso per i
decenni a venire, ma anche il modo stesso di pensare la Sicilia e ogni cosa ad
essa collegata.
La rilevanza e l’insistenza quindi sui temi di cui parlavo
sopra (reale o percepita dai commentatori non siciliani), la forte personalità
espressiva di cui sono spesso portatori naturaliter i siciliani e la
loro lingua hanno prodotto cioè questo condizionamento.
Per questi motivi il lettore italiano comune (paradossalmente
anche quello siciliano, ripeto) ha sempre più selezionato tra le tante immagini
possibili e legittime, un immagine poetica di tutto il prodotto letterario siciliano,
soprattutto in lingua, corrispondente a quello che tratteggiavo sopra. Anche di
quelle cose che per caratteristiche stilistiche e contenuti erano di per sé
lontane da quegli archetipi.
A tutto ciò hanno concorso certamente anche tanti
commediografi in siciliano, alcuni buoni autori di teatro leggero, la secolare
tradizione dei cantastorie e i testi dei pupari, la canzone popolare di
qualità, la lirica popolare contemporanea e in ultimo, purtroppo, gli
sceneggiati televisivi o i film del genere mafiawestern . Tutto ciò che
ha concorso insomma, nel cosiddetto immaginario collettivo internazionale, a
formare all’esterno un immagine dell’identità
dei siciliani.
Quindi se una donna manifesta il suo amore per il figlio (o
viceversa) e lo fa in siciliano, il lettore medio (e anche siciliano) sente
quel sentire con più forza e accoramento dell’equivalente messaggio fatto in
italiano; se un uomo manifesta delusione o amarezza in siciliano queste sono
percepite con particolare acutezza e profondità più che non in italiano;
l’effusione amorosa pura tra due innamorati, poi, indubbiamente in siciliano è
sovraccarica di palpiti e coinvolgimento delle viscere come non potrebbe essere
in italiano. Tutto ciò a prescindere ad un intenzione comunicativa ben precisa
di quel tipo, che può esserci o meno.
Questo soprattutto perché l’italiano è la lingua comune
degli italiani, cioè di un popolo che non esiste ancora.
L’italiano cioè è il minimo comune multiplo comunicativo di
molti popoli con identità linguistiche e culturali autonome e assolutamente
definite. Una lingua cioè, quella colta voglio dire, neutra per molti versi,
resa straordinaria dall’abilità di molti grandi autori, ma emotivamente lingua
madre di nessuno, se non quando appunto si colorisce delle venature idiomatiche
(non necessariamente vernacolari) locali.
Questo fenomeno, che chiamerei induzione antropologico-letteraria,
sicuramente non si verifica esclusivamente coi prodotti comunicativi siciliani:
penso alla immensa tradizione culturale napoletana, a tante altre realtà
linguistiche regionali italiane, ad altre identità culturali molto forti nel
mondo.
Si potrebbe affermare che se la cultura siciliana dà
quest’immagine di sé, anche quando non vorrebbe, una ragione ci sarà, e cioè
che quegli archetipi esprimono davvero fedelmente lo spirito di un popolo e che
quindi sono diventati di esso rappresentativi giustamente per il futuro.
E che il condizionamento non esiste perché, come detto,
veramente il siciliano è quasi sempre un idioma emotivamente sopra le righe.Oppure che la questione è banalissima, perché di questi
condizionamenti più o meno evidenti, in varia misura, sono piene in fondo tutte
le relazioni comunicative umane.
Potrebbe essere.
Io credo invece che non sia così o quantomeno lo sia solo in
minima parte; io credo che l’induzione antropologico-letteraria esista e sia
evidente in senso positivo, anche su piani comunicativi più correnti e
quotidiani e che essa avvenga proprio per la grandezza della letteratura e
della cultura di cui la
Sicilia è stata autrice nei secoli: il contributo della
Sicilia nella formazione del profilo culturale degli italiani così come sono, è
stato e continua ad essere forte, decisivo.
E questo si fa fatica ad ammetterlo.
Il problema è semmai un altro: per molti italiani l’identità
della tradizione letteraria siciliana, soprattutto in lingua, è spessissimo oggetto
di analisi sottovalutative, di derubricazioni a prodotto culturale popolare
minore, di derisione nei confronti di quanto nel siciliano appare eccessivo e
pleonasticamente passionale, per non parlare delle inferenze istintive,
pregiudiziali, sulla mafiosità di tutto quanto è siciliano.
E questo sì che è davvero un peccato capitale, per tutto il
paese.
Nessun commento:
Posta un commento
Questo blog consente a chiunque di lasciare commenti. Si invitano però gli autori a lasciare commenti firmati.
Grazie