domenica 4 novembre 2012

Il sottile fascino dell'idioma

 
di Enzo Barone
 
Recentemente ho pubblicato su Palingenesi un racconto, in buona parte in lingua siciliana, che si intitolava Lammicu.
Si tratta, per chi non l’avesse letto, di un monologo di un umilissimo mandriano emigrato al nord, con un finale drammatico, commovente, ma senza sentimentalismi, almeno nelle intenzioni.
Chi avesse avuto la bontà di leggere qualche altro mio racconto sa quanto io cerchi, come chiunque credo voglia fare della buona narrativa, di rifuggire la retorica, soprattutto la retorica del sentimentalismo a buon mercato, quello ruffiano, spudorato da fiction televisiva.

Ora però, scrivendo Lammicu, mi è capitato per la prima volta di trovarmi a dover fare i conti, senza nemmeno averlo previsto, con la necessità di un’autodiagnosi, un'autovalutazione, come si dice a scuola, di quanto prodotto. Autovalutazione fatta, correttamente credo per maggiore obiettività, ponendomi nelle condizioni del lettore italiano distaccato e non dell’autore, per giunta siciliano.
Certe effusioni sentimentali del protagonista, i suoi lamenti nel finale tragico, le sue ingenue riflessioni, i ricordi dell’infanzia, riletti così con un certo distacco autocritico, anche dopo ripetuti esami, mi sono apparsi sensibilmente distanti da quelle che erano le mie intenzioni narrative iniziali. Innanzi tutto ciò è accaduto rispetto al tono del racconto e alla sua impostazione  generale, rispetto alla rispondenza allo statuto di un racconto realistico, con valenze sì sicuramente emotive, ma non melodrammatiche e nemmeno teatralmente enfatiche.
Il problema, ne sono consapevole, si manifesta intanto per il fatto che l’esperienza della scrittura creativa in lingua siciliana è, come lo sarebbe per il 90% dei siciliani, un’avventura in una landa sconosciuta e irta di pericoli.
Nessuno o quasi scrive – autori di cabaret a parte -  oggi in siciliano. Chi lo fa, lo fa come me traducendo sostanzialmente dall’unica lingua madre scritta (o spesso unica anche parlata) cioè dall’italiano, affrontando e risolvendo a modo suo grandi difficoltà lessicali e ortografiche.
Sono insomma soprattutto le difficoltà legate ad ogni tipo di traduzione da una lingua all’altra, al noto tradimento di una lingua in favore di quella meglio conosciuta. E fin qui tutto vecchio.
Ora vorrei però affrontare una questione più sottile. Faccio degli esempi.
Il mio personaggio di Lammicu, Giovanni ad un certo punto dice degli occhi della madre:
quando vossia nisciu l’occhi stiddiavanu forti, come li soli luci di lu cielu e senza parlare mi dicievanu mille e mille grazie” e poi “sì vassia che era cuntenta, però sempre adda maniera, senza na parola, solo cull’occhi, ca rirevanu e brillavanu, brillavanu d’estati” e più avanti “Mi lu ricordu ddu brillari di l’occhi, raru, priziusu comu la nivi a giugnu, pirchì fina di nicu nicu, parole duci niente, carezze e vasati scarsi, si cc’è necessità; non sunnu cose di pastori: nui genti di campagna ci vulemu bbene a na manera diversa.” cioè in italiano “quando voi siete uscita…gli occhi vi brillavano forte come stelle, come le sole luci del cielo e senza parlare dicevano mille e mille grazie….si voi eravate contenta, però sempre in quella maniera, senza una parola, solo con gli occhi, che ridevano e brillavano, brillavano d’estate…Me lo ricordo quel brillare degli occhi, raro, prezioso come la neve a giugno, perché sin da bambino, parole dolci niente, carezze e baci scarse, se c’è necessità; non son cose da pastori: noi gente di campagna ci vogliamo bene in un'altra maniera.”
Ecco allora mi pare che l’intensità emotiva e passionale dei testi nelle due lingue sia un po’ diversa.  Più accorato, partecipato, dolce nella lingua siciliana e meno nell’italiana.
Continuiamo: “… certu ca è lammicu chistu, lammicu di la casa, di me matri, di li me besti, di l’amici, di lu me pani, la me terra... Puru la curpa è di tutta‘st’aria grossa ca pare che soffoca tuttu e ‘sta chianura che non finisce mai e ti leva lu ciatu. Ma campare si deve. E iò di campari, in un modo o nell’altro, haiu la forza. A farmi moriri di fami nuddu ci può, né l’omini né la sorti. Di lu travagghiu non mi scantu. Questa è la me vita: pi chistu nascìu, pi travagghiari.” Cioè “cero che è il languore questo, languore della casa, di mia madre, delle mie bestie, del mio pane, la mia terra…Pure la colpa è di tutta quest’aria grossa che sembra che soffochi tutto e questa pianura che non finisce mai e ti leva il fiato. Ma si deve campare. E io di campare, in un modo o nell’altro, ho la forza. Nessuno riesce a farmi morire di fame, né gli uomini né la sorte. Non ho paura del lavoro. Questa è la mia vita: sono nato per questo, per lavorare.”
E’ interessante anche per un siciliano DOC vedere fronte a fronte il testo siciliano (o meglio, come detto, la traduzione della traduzione) e l’italiano.
Qua emerge forse con maggior vigore la specificità e unicità linguistica del siciliano. 
Vuoi perché a certi termini come lammicu non si può dare una traduzione precisa, vuoi per la diversa struttura sintattica del periodo dovuta alla posposizione del predicato a fine frase, vuoi per la diversa icasticità, pregnanza drammatica di alcuni termini, che pure avrebbero una traduzione in italiano, come travagghiari o campari, benché con uno slittamento anche deciso di significato.
Proprio su questi due termini comunissimi sarebbe il caso di fare una riflessione più attenta.
Travagghiari tradotto vorrebbe dire più o meno “patire un travaglio”, lavorare soffrendo, patendo, mentre campari, normalmente molto più usato di viviri, ha il suo perfetto omologo fonetico in campare, non in vivere che gli è più prossimo nell’uso italiano.
Campare italiano non è proprio vivere, ma sopravvivere, andare avanti giorno dopo giorno.
C’è in questi lemmi siciliani, ma questo non lo scopro certo io ora, certamente una carica di tragicità, di vigore plastico doloroso e popolare che l’italiano mediamente non ha. Questo vale anche per tantissimi altri termini, anche rafforzati da una efficace azione onomatopeica come ad esempio in strurimentu, cafuddari, camurria.
E questo certo contribuisce a connotare fortemente una lingua.
Ma anche queste sono cose ben note: non sono così sprovveduto da credere di sfondare una porta già autorevolmente aperta da tanto tempo.
 
La questione che volevo porre è un’altra.
Torno al mio racconto per un ultimo significativo esempio: ”Matri, matruzza nicissaria comu l’aria, quasi mi pirmittissi ora di addumannarivi na grazia: chidda di cuncidirimi la licenza di dirivi, na vota, na vota sula, nna stu minutu e mai cchiù, di tu e no di vossia. Ora ca nun ci si cchiù, ora mi vieni la forza, pirchì prima ‘nfacciu a tia m’avissi abbannunatu lu curaggiu. Nna stu minutu e mai chiù, pirchì nun sentu oramai li iammi e dentro a stu vadduni scuru la menti, araciu araciu, s’infusca.
Si sapissi mamma com’è stranu e dduci dariti di tu...Che bbella la nivi in lontananza ‘ncapu a li vetti, lu sai mamma? s’allumina di li riflessi d'argentu di la luna e allora restu a bocca aperta e di colpu lu friddu nun c’è cchiù.
Ecco Giuvanni.
Binirici mamma… riri ora, riri cull’occhi suli ca brillanu d’estati.”
Che in italiano fa pressappoco: “Mamma, mammina necessaria come l’aria, mi permetterei quasi ora di domandarvi una grazia: quella di concedermi una licenza di dirvi una volta, un volta sola, in questo momento e mai più, di tu e non di voi. Ora che non ci sei più mi viene la forza, perché prima di fronte a te m’avrebbe abbandonato il coraggio. In questo momento e mai più, perché ormai non sento le gambe e dentro a questo crepaccio buio la mente, piano piano, s’offusca. Se sapessi mamma com’è strano e dolce darti del tu…Che bella la neve in lontananza sopra le vette, lo sai mamma? S’illumina dei riflessi d’argento della luna e allora resto a bocca  aperta e di colpo il freddo non c’è più.
Ecco Giovanni.
Benedici mamma…ridi ora, ridi con gli occhi soli che brillano d’estate.”
La differenza mi pare molto grande: ciò che in italiano si trova ad una grado emotivo medio, e assume i contorni di una effusione sentimentale delicata e vagamente liricheggiante, sembra diventare in siciliano una cantilena popolare straboccante di pathos, di trasporto, arrivando e superando probabilmente i confini dell’ampollosità, andando verso l’amplificazione teatrale cioè.
E’ vero che ancora una volta a questo concorrono talune queste peculiarità siciliane, come ad esempio le particolari assonanze e una fonetica dove spiccano i riverberi delle molte U finali, il tipico raddoppiamento dell’aggettivo per rendere il superlativo, una certa prolissità nella costruzione dell’effusione emotiva, l’uso delle iperboli.
Ma tutto considerato questo non basta; la differenza resta grande.
Perché il siciliano comunemente usato è appunto avvertito nella percezione linguistica, e direi anche antropologica, da siciliani e non, come lingua caratterizzata spesso da una particolare vena drammatica, incline per sua natura ad una lirica intensa, talora vibrante, se non talvolta mielosa oppure, in altri casi, come tanti dialetti, particolarmente incisiva, esplicita, robusta nell’invettiva o nei testi polemici.
Questi si ritengono comunemente elementi caratterizzanti del siciliano, almeno così comunemente.
Ma siamo così sicuri che le cose stiano in questo modo?
Ora al di là di alcune verità sulle peculiarità fonetico-sintattico-linguistiche endemiche del siciliano, così come si è evoluto ed è arrivato a noi, siamo sicuri che siano queste le uniche e le più forti ragioni che inducono il lettore o ascoltatore medio a sentire con questa speciale sensibilità la nostra lingua?
La questione, se è sollevata a giusta ragione, evidentemente meriterebbe studi di ben altro spessore e questa non è la sede né il media appropriato.
Mi limito ad una riflessione personale, fatta con cautela e discrezione, ma convinta ovviamente.
Il mio convincimento è che la letteratura prodotta in Sicilia (in siciliano e in lingua italiana) e soprattutto quella grandissima dall’unità in poi, abbia generato nei suoi vertici più luminosi, pur  diversi tra loro come Verga, Capuana, Pirandello, Quasimodo, Consolo, Piccolo, Lampedusa, una nebulosa tematica e ideale comune, gravitante attorno alla concezione della condizione umana spesso segnata dalla sconfitta e dalla negatività, ad una idea del vivere tragico e dolente, ad uno scetticismo ironico, dissimulato, ad una estrinsecazione delle passioni intensa, icastica, tante volte estrema e tutto ciò abbia non solo grandiosamente condizionato in quella direzione la fruizione del siciliano stesso per i decenni a venire, ma anche il modo stesso di pensare la Sicilia e ogni cosa ad essa collegata.
La rilevanza e l’insistenza quindi sui temi di cui parlavo sopra (reale o percepita dai commentatori non siciliani), la forte personalità espressiva di cui sono spesso portatori naturaliter i siciliani e la loro lingua hanno prodotto cioè questo condizionamento.
Per questi motivi il lettore italiano comune (paradossalmente anche quello siciliano, ripeto) ha sempre più selezionato tra le tante immagini possibili e legittime, un immagine poetica di tutto il prodotto letterario siciliano, soprattutto in lingua, corrispondente a quello che tratteggiavo sopra. Anche di quelle cose che per caratteristiche stilistiche e contenuti erano di per sé lontane da quegli archetipi.
A tutto ciò hanno concorso certamente anche tanti commediografi in siciliano, alcuni buoni autori di teatro leggero, la secolare tradizione dei cantastorie e i testi dei pupari, la canzone popolare di qualità, la lirica popolare contemporanea e in ultimo, purtroppo, gli sceneggiati televisivi o i film del genere mafiawestern . Tutto ciò che ha concorso insomma, nel cosiddetto immaginario collettivo internazionale, a formare all’esterno un immagine  dell’identità dei siciliani.
Quindi se una donna manifesta il suo amore per il figlio (o viceversa) e lo fa in siciliano, il lettore medio (e anche siciliano) sente quel sentire con più forza e accoramento dell’equivalente messaggio fatto in italiano; se un uomo manifesta delusione o amarezza in siciliano queste sono percepite con particolare acutezza e profondità più che non in italiano; l’effusione amorosa pura tra due innamorati, poi, indubbiamente in siciliano è sovraccarica di palpiti e coinvolgimento delle viscere come non potrebbe essere in italiano. Tutto ciò a prescindere ad un intenzione comunicativa ben precisa di quel tipo, che può esserci o meno.
Questo soprattutto perché l’italiano è la lingua comune degli italiani, cioè di un popolo che non esiste ancora.
L’italiano cioè è il minimo comune multiplo comunicativo di molti popoli con identità linguistiche e culturali autonome e assolutamente definite. Una lingua cioè, quella colta voglio dire, neutra per molti versi, resa straordinaria dall’abilità di molti grandi autori, ma emotivamente lingua madre di nessuno, se non quando appunto si colorisce delle venature idiomatiche (non necessariamente vernacolari) locali.  
Questo fenomeno, che chiamerei induzione antropologico-letteraria, sicuramente non si verifica esclusivamente coi prodotti comunicativi siciliani: penso alla immensa tradizione culturale napoletana, a tante altre realtà linguistiche regionali italiane, ad altre identità culturali molto forti nel mondo.
Si potrebbe affermare che se la cultura siciliana dà quest’immagine di sé, anche quando non vorrebbe, una ragione ci sarà, e cioè che quegli archetipi esprimono davvero fedelmente lo spirito di un popolo e che quindi sono diventati di esso rappresentativi giustamente per il futuro.
E che il condizionamento non esiste perché, come detto, veramente il siciliano è quasi sempre un idioma emotivamente sopra le righe.Oppure che la questione è banalissima, perché di questi condizionamenti più o meno evidenti, in varia misura, sono piene in fondo tutte le relazioni comunicative umane.
Potrebbe essere.
Io credo invece che non sia così o quantomeno lo sia solo in minima parte; io credo che l’induzione antropologico-letteraria esista e sia evidente in senso positivo, anche su piani comunicativi più correnti e quotidiani e che essa avvenga proprio per la grandezza della letteratura e della cultura di cui la Sicilia è stata autrice nei secoli: il contributo della Sicilia nella formazione del profilo culturale degli italiani così come sono, è stato e continua ad essere forte, decisivo.
E questo si fa fatica ad ammetterlo.
Il problema è semmai un altro: per molti italiani l’identità della tradizione letteraria siciliana, soprattutto in lingua, è spessissimo oggetto di analisi sottovalutative, di derubricazioni a prodotto culturale popolare minore, di derisione nei confronti di quanto nel siciliano appare eccessivo e pleonasticamente passionale, per non parlare delle inferenze istintive, pregiudiziali, sulla mafiosità di tutto quanto è siciliano.
 
E questo sì che è davvero un peccato capitale, per tutto il paese.
 
 
 
 
 
 
 
 
 


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