di Valentina Sechi
Proprio quando si profilava sempre più lontana,
sorprendentemente, la tregua nella crisi israelo-palestinese è stata infine
annunciata la sera del 21 novembre. Lo stesso Ministro degli Esteri egiziano
Mohammed Kemel Amr, ha annunciato “ l'accordo per il cessate il fuoco e il
ripristino della calma”.La tregua, così faticosamente conquistata, si articola
su tre punti: la cessazione da parte di Israele di tutte le operazioni aeree, terrestri e marittime verso Gaza,la
conclusione degli attacchi militari su Israele, la riapertura del valico di
Rafah (tra la Striscia di Gaza e l'Egitto) 24 ore dopo il cessate il fuoco
delle 21 ora locale per facilitare lo spostamento di merci e persone. Secondo
Marzouk, l'Egitto garantirà il rispetto dell'accordo e tutte le fazioni
palestinesi “sono per la calma” e il Primo Ministro Haniyeh invita i
palestinesi a rispettare il cessate il fuoco. Per controllare la situazione, il
Presidente Morsi ha annullato la sua visita in Pakistan. Nonostante la conclusione
delle ostilità, il cielo del Medio Oriente non è terso: da un lato il Premier
Netanyahu avverte che Israele è pronto ad agire se la tregua sarà violata
e il ministro Lieberman sostiene che il
regime di Hamas dovrà essere rovesciato, ma è impensabile a due mesi dalle
elezioni avviare un'occupazione che ne richiederebbe più di quattro;
dall'altro, il Premier Haniyeh esorta i “mujahedeen a tenersi pronti a
riprendersi Gerusalemme”, sostenendo che la prossima volta il nemico ci penserà
bene prima di iniziare la battaglia.
Ma mettiamo ordine a quanto accaduto negli
ultimi giorni di conflitto. La crisi israelo-palestinese era riesplosa a
seguito dell’atto primo dell’operazione Pilastro di difesa condotta dalle forze
di difesa israeliane (IDF): l’uccisione di Hamed Jabari, comandante dell’ala
militare di Hamas Al Qassam, ritenuta dall’organizzazione un atto di guerra e
la distruzione di altri 20 siti nei pressi di aree residenziali che doveva dimostrare
come Hamas si servisse dei civili come scudo.
Lo scopo della campagna militare avviata,
secondo il governo israeliano a seguito di 5 giorni ininterrotti di
bombardamenti, sarebbe stata fermare gli attacchi missilistici provenienti
dalla striscia di Gaza e distruggere i supporti logistici di Hamas, cercando di
riportare la pace nel Sud di Israele e colpire le organizzazioni terroristiche,
nonostante Israele avesse assicurato che non intendeva rovesciare il regime di
Hamas, ma fermarlo per proteggere la propria esistenza. La controffensiva non
si era fatta attendere con l’operazione Pietre di argilla cotta che, per la
prima volta dopo la Guerra del Golfo (1991), aveva colpito la città di Tel
Aviv. A questa Israele aveva risposto richiamando 75.000 riservisti di cui
31.000, mentre diverse brigate corazzate di fanteria erano state situate nel
deserto del Negev, al confine con Gaza, avvalorando l’ipotesi di un’invasione
terrestre che lo avrebbe privato di gran parte del supporto internazionale. Le
condizioni poste dalle parti erano chiarissime: Israele chiedeva una tregua di
15 anni, la cessazione di trasferimento e contrabbando di armi a Gaza, la fine
del lancio di missili e degli attacchi ai soldati israeliani vicino la
frontiera, il diritto di perseguire i terroristi in caso di attacco anche
imminente, l’apertura del passaggio tra Gaza ed Egitto e la chiusura di quello
tra Gaza e Israele, la garanzia dell’Egitto. La Palestina invece la fine
dell’embargo a Gaza e delle uccisioni mirate, l’estensione della tregua a tutti
i Territori Palestinesi.
La Comunità Internazionale si era adoperata
attraverso i canali diplomatici per scongiurare una guerra di proporzioni
immani: se USA, UE e altri Stati Occidentali avevano preso le parti di Israele
sostenendone il diritto all’autodifesa, Paesi arabi e musulmani come Iran, Turchia
ed Egitto sostenevano la causa palestinese; il primo aveva invitato gli altri
Paesi arabi a inviare armi ai Palestinesi mentre il secondo, per mezzo del Presidente Erdogan aveva definito Israele uno
Stato terroristico. Particolarmente delicata è stata poi la posizione
dell’Egitto su cui la Comunità Internazionale ripone le speranze affinchè potesse
riescire a conciliare i litiganti, in virtù dei suoi buoni rapporti con Hamas
che si temeva potesse sfruttare il consenso presso l’opinione pubblica egiziana,
la pressione dei Salafiti sul governo e la mancanza di controllo sul Sinai per
trasformare il Paese nella retroguardia della sua guerra contro Israele.
Una tregua di 3 ore si era registrata il 16
novembre in occasione della visita del Primo Ministro egiziano a Gaza giunto
per mostrare solidarietà al popolo palestinese. In questo frangente, tuttavia,
50 missili erano stati lanciati dalla Striscia di Gaza verso il Sud di Israele
a causa, secondo Hamas, del bombardamento della casa di un comandante dell’organizzazione
ma tale circostanza è stata fortemente negata da IDF.
Gli scontri erano proseguiti ai danni di centri del potere come l’ufficio
del Primo Ministro di Hamas, Ismail Haniyeh, e la torre Al Sharouk che ospitava
numerose emittenti locali e internazionali tra cui Sky News, Press TV, Kuwait
TV e Rai. Quest’ultimo evento aveva scosso l’associazione stampa estera che aveva
espresso preoccupazione e richiesto al Consiglio di Sicurezza ONU una
dichiarazione di condanna per gli attacchi ai giornalisti in zone di
combattimento, mentre la riva Occidentale del Giordano era stata luogo di
manifestazioni a sostegno di Gaza represse dalle forze israeliane. Un segnale
positivo era stato dato dalla sospensione dei piani per l’offensiva di terra a
Gaza per dare più tempo ai negoziati, benché il Premier israeliano Netanyahu
affermasse che se gli attacchi non fossero cessati sarebbero stati costretti a
prendere provvedimenti più vasti e non avrebbero esitato a farlo. Nonostante
l'iniziale fallimento della mediazione egiziana, a cui era stato riconosciuto
dagli USA in primis un decisivo contributo, altri attori internazionali si erano
mossi: il Segretario di Stato americano Clinton si era confrontato con il
Premier israeliano Netanyahu, il Ministro della Difesa Barak e quello degli
Esteri Lieberman due volte ma anche con i leader palestinesi a Ramallah,
successivamente si era recato al Cairo dove il Segretario delle Nazioni Unite
Ban Ki-Moon aveva raggiunto esponenti
della Lega araba, invitando le parti a porre fine alle violenze e rispettare
gli obblighi derivanti dal diritto internazionale in materia di protezione dei
civili. In occasione della conferenza stampa con il Segretario delle Nazioni
Unite, il Presidente dell'ANP Abu Mazen aveva affermato che “un cessate il
fuoco e una tregua avrebbero potuto essere il primo passo per accelerare e
metter fine all'occupazione israeliana dei territori palestinesi”. In seguito,
il numero due di Hamas, Musa Abu Marzouk aveva condannato l'esecuzione di sei
presunti collaborazionisti di Israele a Gaza, definendola inaccettabile.
Il pensiero, nel momento in cui finalmente dal cielo non piovono razzi, le sirene non suonano più e la gente si
riversa nelle strade per celebrare la fine di un incubo, deve correre alle
vittime silenziose di questa guerra atavica, ai morti, ai feriti, a coloro che
soffrono a causa di essa, a chi non ha voce, a chi è stato colpevole di
trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, in un parco, una scuola, un
ospedale vicino a un obiettivo. Il bilancio che 8 giorni di bombardamento
lasciano dietro di sé è pesante:1235 feriti, 11 000 sfollati e 160 morti di cui, secondo l'ufficio Affari
Umanitari delle Nazioni Unite 103 civili. Mediare tra due istanze così nettamente agli antipodi è difficile e ne è prova
la tregua che sarebbe dovuta scattare martedì notte è saltata.
Basta una mossa falsa perché l’equilibrio faticosamente conquistato si
incrini. Per lasciarsi questo passato di odio e dolore alle spalle basterebbe
guardare ciò che i due Paesi hanno in comune e unire le forze sull’esempio
dell’Europa: terra a lungo teatro di guerre
come quella che ha visto contrapporsi Francia e Germania le quali, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale hanno scelto la
via della collaborazione gettando le basi per quella che oggi è l’UE.
In ebraico il termine pace è shalom invece in
arabo salam, due termini abbastanza simili forse perché, in fondo, questi Paesi
sono più simili di quanto non si creda. Ecco, basterebbe partire da questo,
dalla consapevolezza che la guerra genera violenza, distruzione, sofferenza.
Non esistono vincitori, in questa guerra a perdere sono tutti e allora,
piuttosto che in un gioco a somma zero, sarebbe meglio impegnarsi da ambedue le
parti per porre fine a un conflitto che ha visto scorrere fin troppo sangue.
Forse ci vorranno anni ma quello che conta è
l’impegno a mettere da parte i propri egoismi e collaborare. Ciò che importa è
che si compiano in fretta i primi passi
in tal senso a partire dalla tregua
raggiunta perché, come si suol dire, chi ben comincia è a metà dell’opera.
Valentina Sechi
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