giovedì 12 aprile 2012

Lo spirito e la polvere.

La commissione sezione racconti del Concorso “I Palingenetici” 2011-2012 ha nominato vincitore Manfredi Palacino, col racconto “Lo spirito e la polvere”, il cui testo segue. Pubblicheremo nei prossimi giorni stralci significativi di alcuni partecipanti degni di menzione.

di Manfredi Palacino
Alle tre del pomeriggio per strada non c’è nessuno. Il caldo è così opprimente che anche i cani preferiscono starsene coricati all’ombra di una casa, o sotto una palma vicino al mare.
Tutto ciò che puoi vedere alle tre del pomeriggio lungo le strade strette e afose del paese è qualche vecchietta alla finestra: socchiude la persiana e guarda giù in strada dalle stecche di legno aperte, controlla da chi provengano quei passi. Sta lì, in casa sua, seminascosta nella penombra con un ventaglio in mano. E ti guarda. Ti guarda passeggiare. Ti guarda trascinare i piedi sulla strada polverosa. Ti guarda tirare qualche calcio a una pietra un po’ più grossa, e ne segue con lo sguardo il casuale rotolio.


Da lassù, non ha alcuna espressione. Ti guarda, sì, ma è come se non ti vedesse, non senti i suoi occhi addosso, come ti capita in città. Ti guarda e ti attraversa, va oltre, non si sofferma né su di te, né sulla pietra che se ne va rotolando.
In fondo, in paese, sotto il sole cocente, all’ombra degli stretti balconi con l’intonaco sgretolato, sulle sedie di legno una volta marrone, ora nere, sono tutti come quella vecchietta.
Ti guardano, ti fissano, eppure è come se non vedessero nulla.
E a te, alle tre del pomeriggio, madido di sudore e con la gola secca, viene solo da pensare al paese. Maledetto ti dici, Maledetto io e questo paese. Poi pensi che qualcuno te l’aveva ricordato che le strade lì sono tutte uguali. E ora ti sei perso. In un labirinto di polvere e basse costruzioni di sabbia, prostrato da un caldo insopportabile, non ricordi neanche più dov’è la macchina, o quella maledetta stazione di rifornimento in cui l’hai lasciata.
Dovrebbe essere facile ritrovarla. Non l’auto. La via di casa, la via della casa in cui hai vissuto i primi quindici anni della tua vita. La via della casa che non si dimentica.
Eppure non la trovi. È un’ora che giri, probabilmente sempre in tondo, eppure non la trovi, la via. Ti sei perso. Punto.
Con questa consapevolezza, ti fermi in mezzo alla strada. L’aria, adesso, inizia a muoversi. Ma il vento è altro fuoco. Le fiamme che lambiscono il tuo volto ti riempiono le narici, ti seccano la gola. Ti accorgi che la giacca nera è coperta da un velo di polvere. No, non polvere. Sabbia. E così all’improvviso capisci che quello che spira e ti tormenta le narici e la gola è lo scirocco, vento d’Africa. Capisci che è l’Africa a sussurrarti, a chiamarti di nuovo. Di nuovo ti chiama come quando eri bambino e, in quel punto in cui sei fermo adesso, giocavi con le trottole, giocavi con le carte; ti chiama forte e ti invita. Ma tu, ora, sei restio ad ascoltarlo, ad abbandonarti all’ebbrezza della corsa nel vento. Non sei più piccolo.
Il paese, la tua casa, non è più l’amico polveroso e misterioso delle calde estati infantili, è solo una montagna bruciata dal sole e spazzata dal vento. Ed è muto.
Manca qualcosa. Qualcosa s’è rotto.
Adesso, il vento tormenta gli occhi d’un nero fantasma immobile nel turbine di sabbia. Sei tu quel fantasma. E ricordi d’esserti perso. Ti sei perso nel tuo paese alle tre del pomeriggio. Ti sei perso a casa tua.
Finalmente trovi un po’ d’ombra, proiettata sulla strada da una costruzione di tre piani. Appoggi la schiena alla parete del prospetto e ti lasci scivolare fino a terra. Ti siedi. Ti guardi attorno: di fronte a te vedi una fontanella, o, meglio, un tubo di gomma che esce da un muro su una sorta di scolo per l’acqua. E così ricordi: ricordi le corse con gli altri bambini, le gare… Le gare a chi arriva per primo alla fontanella, le gare a chi beve per primo. Ti guardi i mocassini: il nero della pelle pare svanito. Sono com’erano le tue scarpette quand’eri piccolo: ricoperti di quella impalpabile polvere bianco-giallastra.
Ti alzi, vuoi bere. Ti avvicini alla fontanella, ti pieghi e apri la bocca. L’acqua fresca ti dà sollievo. L’acqua fresca ti ricorda il successo, ti ricorda il piacere di vincere la gara, ti ricorda le urla felici dei bambini e le signore alle finestre che ridono compiaciute dei nipotini.
Ripensi a tua nonna. Col sorriso sulle labbra ti preparava i biscotti, le arancine, le torte. Ripensi a lei con tenerezza, ripensi a lei con rimorso. Dov’eri quando è morta? Dov’eri il giorno del funerale? Ripensi che per lei, che ti aveva accudito come fossi suo figlio, che ti difendeva delle brevi ire della mamma per aver bucato i pantaloni o per non aver vuotato il piatto a pranzo, non hai speso una lacrima. Oh, ti credevi forte e non hai pianto. Ti credevi grande, autonomo, uomo e le hai dedicato solo un pensiero quando ti è arrivata la notizia. Ti credevi talmente superiore, talmente pragmatico, che non ti sei concesso nemmeno di portarle un fiore sulla tomba.
Ti sollevi e ti guardi attorno. Lo scirocco ti brucia il viso, la polvere ti tormenta gli occhi.
Vaghi, ectoplasma smarrito, sullo sfondo di muri tutti uguali, tutti dello stesso bianco sporco tormentato dal tempo. Vaghi tra basse costruzioni, in un dedalo di vicoli afosi e inestricabili, che si ripetono identici. Eppure, prima, da bambino, conoscevi bene il tuo paese, il tuo amico, la tua casa. E ora? Ora non trovi la via.
Guardi l’orologio di tuo nonno. Ti pare vecchio e silenzioso come il tuo paese. Vedi che sono le quattro e mezza: hai girovagato un’ora e mezza nel caldo infernale.
Ti giri e vedi in fondo alla via un pescivendolo: è lo stesso di quindici anni fa. Come se per lui il tempo non fosse passato, spinge ancora il suo carretto. Quel traballante emporio ambulante ti ha sempre fatto sorridere: è la parte posteriore di una bicicletta cui è stato aggiunto, anteriormente, un cassone di legno su due ruote. Sorridi anche adesso, come quando eri bambino.
Lui ti passa accanto, si ferma. Ti guarda un attimo col viso cotto dal sole e ispido di barba. Ti chiede una sigaretta. Tu gliela dai, e pensi che ti abbia riconosciuto. Gliela accendi, lui ti fa un cenno con la testa e poi la scrolla a destra e a sinistra, lentamente. Continua il suo giro. Non ti ha riconosciuto. È sempre stato uno di poche parole, il pescivendolo, ma ora non ti ha mostrato nemmeno la sua povera mercanzia, come faceva quand’eri piccolo, come fa con tutti quelli del paese. E ha scrollato la testa.
Non ti ha riconosciuto. E forse non pensa che tu sia di lì. Ti dici che non t’importa affatto, ma senti una fitta allo stomaco. Ti dispiace, allora. Ti senti uno straniero, un estraneo. Ti pare che quel paese di pescatori non ti sia più amico. Ti senti un nemico. E ti dispiace, ti fa male.
Ti incammini sulla strada percorsa dal pescivendolo. Non hai nemmeno la forza di accenderti una sigaretta. Vedi un uomo che ti viene incontro. Sembra vestito a festa. Cammina veloce, gesticola in modo convulso e incomprensibile. E parla. Parla di un bambino in mare. Di onde. Di un cane che abbaia. Parla di calcio, di mondiali, di una vecchia partita che non ha mai visto. Ti vede e affretta il passo. È Giacomo. Ti abbraccia, ti bacia.
«Marco, Marcolino, sei tornato! L’hai vista la partita? 4 a 3, Marcolino, 4 a 3! Siamo stati dei leoni, quant’è vero che mi chiamo Giacomo!».
«Ciao…» rispondi. Fai una pausa, come se volessi aggiungere qualcosa. Chiudi gli occhi e continui: «Come stai?»
«Sto bene, benissimo! Bella giacca, e che mocassini! Sporchi, però, eh! Che c’è? Non ti senti bene? Sei triste, Marcolino… Ma ora devo andare. Ti saluto Marcolino mio, ciao!».
Pensi di fargli un regalo, lo blocchi e gli dai le sigarette e l’accendino. In realtà, non sopporti più quel peso fastidioso nella giacca, sui polmoni.
Lui ti ringrazia, va via e continua a parlare di quel 4 a 3 che avrà letto sui giornali e che l’avrà entusiasmato talmente da fargli credere d’averlo vissuto. E si ricorda di te. Sì, lui si ricorda di te. O forse per lui sei solo un fantasma, solo un fantasma della sua percezione distorta. Quante volte ti avrà dato il benvenuto salutando chiunque altro nel paese? Quante volte?
Forse, ti vede tornare in paese ogni giorno. Come il 4 a 3. In fondo, l’unico a ricordarsi di te è lui: lo specchio del disagio del paese, l’immagine stessa della gente che soffre, il malessere che si fa uomo. È il messaggero di un mondo che piange.
E si è accorto che stai male. Si è accorto che sei triste. Inconsapevolmente ha visto il tuo pianto e ha intuito il tuo smarrimento: si è riconosciuto in te. O tu in lui.
Stai male, Marcolino, e prima che te lo dicesse Giacomo non ci credevi neanche tu.
Stai toccando il fondo, Marcolino, non trovi nemmeno la via di casa. Ma questo lo sai bene.
Continuando per la via sbuchi su una piccola piazza. Non c’è nessuno. Ma tu la ricordi. La ricordi bene. Di fronte a te trovi la chiesa. Ricordi che non volevi andarci. Non perché ti annoiasse, anzi ti piaceva quel tono con cui il prete leggeva e parlava. Un tono cantilenante, ripetitivo, che insiste sempre sugli stessi accenti. Un tono che non bada alla forma, e che ha smarrito il contenuto. Un tono ipnotico, da nenia. Non volevi andarci perché ti faceva paura la penombra del tempio. Ti facevano paura le statue di marmo scuro, enormi e minacciose.
«Dio è buono, Marcolino, ti vuole bene. Andiamolo a trovare», ti diceva la mamma. Ma tu avevi paura, ti mettevi a piangere. E questo alla mamma non piaceva. Lei sapeva che tu non piangevi per la messa, per Dio, la religione. Ma non voleva che la gente parlasse. Quando andavate a messa piangevi. Piangevi dall’inizio alla fine. E ogni tanto sentivi le vecchie signore delle prime file che dicevano Ha il diavolo in corpo questo bambino!. Questo ti faceva sorridere, ma la mamma stava a disagio, qualche volta ti dava un ceffone, qualche volta piangeva sommessamente.
Ma ora sei tornato, Marcolino. Vuoi andare a messa? No, sono anni ormai che non preghi. O, meglio, sono anni ormai che non credi. Allora vuoi solo entrare, vero? Sì, fai così. Vai verso il portone di legno dell’entrata e tiri dritto, trattieni il fiato. Dentro, nulla. La tua Chiesa è scomparsa. S’è trasformata. È sfigurata. È così tragicamente desolata che non credi ai tuoi occhi. Non vuoi credere che ti abbiano strappato un ricordo.
Anche i ricordi… E piangi.
Proprio ora, proprio davanti alle ferite profonde della tua Chiesa, capisci che qualcosa è cambiato. Vedi Giacomo. Accanto a lui ci sei tu. Bambino. Entrambi vicino all’altare. Entrambi si voltano e ti osservano. Poi buttano la testa all’indietro e fissano il soffitto. Stanno così diversi minuti, la bocca mostruosamente spalancata, gli occhi ciechi. Senti il rumore del mare, l’acqua invade la navata, tu resti asciutto: l’acqua pare sfiorarti e allontanarsi, pare lambirti senza toccarti. Ne hai paura. Non sai perché. Non ricordi di averne mai avuta. Guardi i due: Giacomo fuma; il Marco bambino pure, e dopo ogni tiro il fumo gli esce dagli spazi intercostali squarciati. D’improvviso la bocca gli si deforma in un urlo atroce. Giacomo resta immobile, gli occhi vuoti, pietrificato. È spaventato.
Allora urli. Ti lasci cadere con tutto il peso del corpo sulle ginocchia, ti tappi le orecchie con le palme delle mani, più forte che puoi, più forte che puoi. Non vuoi sentire le urla del piccolo Marco, né le tue. Ma intanto non riesci a smettere di urlare. Ti butti a terra, ti dimeni, non sopporti più il caldo. Nel frattempo, quel mare incomprensibile pare abbandonare lentamente la chiesa.
Con uno sforzo che ti pare sovrumano ti rialzi, corri fuori ansimando, gli occhi iniettati di sangue. Non ragioni più. Fuori senti lo scatto di ombrelli che si aprono. È pieno di gente. Ti guardano, scrollano la testa. Con ogni fibra del tuo corpo prendi aria. Odora di terra umida. Il sole è scomparso.
Piove.
L’acqua ti appanna la vista, ti porta via la polvere dai capelli, ti scorre sul volto mista a lacrime.
Non capisci. Non osi voltarti verso la Chiesetta martoriata, non osi cercare Giacomo o il piccolo Marco. Stai forse impazzendo, Marcolino? Nessuno si ricorda di te, tu non vuoi guardare nessuno. Solo altra gente che non capisce. Solo altra gente che non ricorda. Solo altra gente che scrolla la testa. Nessuno bada a te, a ciò che fai, al fatto che sono ore che ti aggiri per il paese come un folle.
Allora pensi a Bruno. Il tuo amico Bruno. Come in un lampo, col ricordo del tuo amico, ti affiora alla mente tutto il paese, con chiarezza planimetrica ricordi ogni cosa: ogni viuzza, ogni angolo, ogni pietra. Perché allora non vai da Bruno, Marcolino? È una buona idea, vallo a salutare. Lui potrà aiutarmi. Lui non può avere dimenticato. Almeno per lui non sarò un estraneo.
Arrivi davanti casa sua trafelato; la pioggia ti batte addosso selvaggia. Bussi. L’attesa sembra interminabile. Esce in pantaloni corti e maniche di camicia. Sta attento a non bagnarsi.
«Bruno!» dici forte, col cuore. Lui ti saluta appena. Resta muto.
«Bruno, sono io, Marco… Non mi riconosci?».
Ora hai paura. Anche Bruno ha dimenticato. Lo guardi negli occhi: vedi lo sguardo di tutti gli altri. Scrolla la testa. Lacrime gli scorrono sul volto, ma forse è solo pioggia.
Capisci.
Ricordi.
Pensi a Giacomo, al piccolo Marco, alla visione in chiesa.
«Giacomo, ti prego, va a casa…» ti dice Bruno con la voce rotta, «Marco non tornerà più. L’abbiamo seppellito assieme…»
Il cielo è nero. Il mare di piombo. Il vento spazza selvaggio la spiaggia.
«Papà! Papà! Argo è in acqua, lo vado a prendere!»
«Fa’ attenzione»
Vedi il bambino che corre verso la battigia. Lo senti urlare Argo! Argo! Lo vedi immergersi nell’acqua, vedi l’onda rompersi sulla sua figurina. La risacca risucchiarlo. Veloce. Troppo veloce. Il tempo balza in avanti e le correnti trascinano il tuo piccolo lontano, verso i frangiflutti. Senti la tua voce sussurrare Marco, Marcolino! Troppo lontano. Troppo lontano. Non puoi raggiungerlo. Sei inerte, di pietra, i tuoi occhi sono vuoti. E in quello sguardo vuoto che non ti appartiene, il corpicino di Marco è sbattuto sugli scogli. E il cane abbaia. Il cane abbaia.

L’hai lasciato morire, Giacomo. Hai lasciato morire tuo figlio.

                  




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