di Francesca Saieva
photo di Maria Venere Licciardi
Nel tentativo di sintetizzare l’Opera di Carl Orff, l’espressione più congeniale che affiora alla mente è il τά πάντα νoύς, esplicativo di una concezione cosmo-teleologica. La re-mitizzazione nei suoi componimenti delinea un interesse archetipico nella lettura del cosmo. La classicità del mondo arcaico, nella tragedia attica (identità a se stante) viene tradotta in musica-parole-concetti, con atteggiamento ‘prometeico’, come intervento di τέκνη sull’arte. Facoltà umane, quest’ultime, in un processo di “rigenerazione cosmica”, a fondamento di una Weltschaung che si avvale del theatrum mundi, palcoscenico per un ritorno alle origini. Apocatastasi dunque, nella rielaborazione e concettualizzazione del tempo, della sua identità ciclica, nel ricongiungimento del ‘diverso’ all' ‘uguale’. Il teatro di Orff si mostra così nella sua estrema complessità.
Tra le sue rappresentazioni, Der Mond, Carmina Burana – queste più ‘giocose’ in termini di ‘sperimentalismi ludici’, (come si afferma nel testo di A.Fassone, Carl Orff) e Antigonae, Il trionfo di Afrodite, Prometheus e De Temporum fine Comoedia (osteggiate e dai consensi a volte negati) – non prescindono mai dalla dimensione mitica, e con toni differenti nelle tragedie, da una concezione escatologica. Un disegno apocalittico, infatti, pervade la sua intera Opera, nel rispetto di una necessità cosmico-naturale. E il tutto è Spirito diviene summus finis, – archetipo, junghianamente inteso, come significato preesistente nascosto nella vita caotica – in questo Welttheater, pregno di simbolismo e umanesimo, tra equilibri dionisiaci e apollinei costantemente reinventati.
E’ il teatro del pathos, della ‘redenzione’ universale, quando nell’atemporalità la legge si fa eterna, secondo la forza del destino e il ritorno alla Grande Madre diviene atto di umiltà, ora che il tutto è in tutti. Così come Antigone, Prometeo, Afrodite, nelle rispettive prove individuali della loro umanità trovano unione-conciliazione con il disegno divino.
Il teatro di Orff definisce il mito e il suo legame con il lόgos. E’ la dimensione linguistica a fare da tramite. La parola rivestita di spiritualità ricostruisce la tragedia attica, in termini dialettici. Il greco, il latino e il tedesco, in uno scenario antico-moderno, si fondono, divenendo ‘mezzi sonori’ che parlano per immagini all’umano-divino, nel dialettico mysterium coniuctionis, l’unione degli opposti.
A questo punto non può sorprenderci che Orff abbia detto: “in generale, si tratta per me in ultima analisi non di questioni musicali ma spirituali”. La ricerca è, infatti, una costante del suo teatro, da cui ricaviamo in fondo una concezione olistica dell’Opera. Non esistono confini delineati tra le parole e la musica, e il movimento scenico è espressione di singole parti di un tutto. Archetipi nelle parole, nelle sonorità e nella struttura dello stesso teatro, anche campbellianamente evocano la Dea Madre dell’universo capace di far sì che l’Uno possa diventare i molti.
La memoria del divino riaffiora dall’Unterwelt, l’oscurità riconsegna lo stupore primordiale allo sguardo, nell’alternanza di ritmi, ora sommessi ora più concitati nella drammatizzazione. E “la lingua – scrive Orff – fornisce già l’espressione musicale”, reinterpretandola. Elementi linguistici e la loro mescolanza creano nuovi ritmi, una nuova partitura, equivocabile, a tratti ambigua, ma di una ‘modernità’ sorprendente. Trovo interessante riportare la riflessione di O. Messiaen sul teatro di Orff, in cui “la sovrabbondanza dei mezzi tecnici permette al cuore di espandersi liberamente”, una soluzione dialettica, quindi, tra τέκνη e arte, come rivalutazione della psyché, principio di vita, come riconoscimento del mito nell’iter umano; τέκνη e arte nella “lotta deus contra deum” assistono al compiersi del nuovo ordine cosmico.
Wir fallen aus der Zeit, am Ende aller Zeit. Nihil restat nisi nunc, scrive Orff nella Comoedia. Perché le profezie sibilline sono reali, e con la fine dei tempi tutti gli esseri si ricongiungeranno al divino e la catarsi avrà finalmente luogo. La Morte e il Male saranno incorporati al Bene, secondo il principio salvifico del tutto in tutti (I Corinzi 15,28) perché l’άποκατάστασισ ha avuto il suo inizio quando il Tempo si è ‘fermato’. Nel De Temporum fine Comoedia, la visione orffiana trova la sua maggiore pienezza . Le fonti linguistiche, la partitura testuale secondo schemi autonomi rivalutano il nôus, mente ordinatrice della ‘mescolanza originaria’. Il simbolismo sonoro rafforza l’impatto visivo, a tratti il ritmico parlato: Ibunt, ibunt/ignis eterni… La catastrofe incombe, tutto è previsto nelle profezie sibilline, ma Nihil contra Deum nisi Deus ipse. Dalla fine la rinascita. Così Lucifero si acquieta: Pater peccavi. Da quest’ottica il Male e il Bene divengono nel loro plurisignificato –secondo linguaggio junghiano- “archetipi della trasformazione”.
Le dicotomie archetipiche per Orff si rapportano ai vari piani linguistici. Pathos e lόgos intervengono alla riflessione teo-teleologica. E l’armonia linguistico-musicale crea interconnessione di saperi, tradizioni e culture, là dove ogni linguaggio-parola adempie a una sua precisa funzione.
Guardo alla Comoedia come a un ingranaggio, quindi, multilingue di simboli, figure archetipiche, nella salvaguardia di un eterno ordine cosmico dopo e oltre la ‘caduta’.
Und die Menschen alle werden mit Zähnen knirschen, Brennend im Strom, im Andrang des Schwefels und Feueurs (e gli uomini stideranno con i denti, bruciando nella corrente, nell’afflusso di zolfo e di fuoco).
AUGURI A TUTTI I LETTORI
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