mercoledì 23 maggio 2012

Il turista

dipinto by Simone Barone 

di Enzo Barone
La prima volta che lo vidi anch'io mi sentivo un turista.
A quei tempi ero inabissato a cuore serrato in una lontananza quasi siderale, senza scampo, per via del lavoro in una cittadina del nord dove l'aria era nitida, il cielo purissimo e senza pietà.
Nei primi giorni di distacco ero spesso sotto l’agguato infido di una malinconia famelica, pronta ad ogni istante a sbranarmi senza tante cerimonie e questo sarebbe certamente accaduto, se nella mia nuova condizione di emigrato non le avessero conteso la preda, con forze pari, la curiosità e il fascino inedito della solitudine.
E poi c’era comunque quella strana malattia cronica che è la gioventù a rimestare i pensieri, a mesticare distrattamente i colori, a confondere le carte della felicità con quelle della disperazione.
Allora per ingannare il peso inevitabile della realtà e soprattutto me stesso, infinocchiato fino al midollo dall’alcool da femminelle che è la buona letteratura, mi ero cucito addosso l’habitus dello scrittore errante che osserva il mondo sfiorandolo appena, di colui che non è mai sottoposto alla schiavitù di nessuna circostanza stringente, che non appartiene in verità a nessuna realtà concreta. Quello che si può permettere il lusso di guardare le cose da una prospettiva tutta sua, col distacco dell’esteta, di chi si muove come un acrobata saltando negli interstizi vuoti che stanno tra le infinite scene in cui ciascuno recita la sua vita quotidiana, curandomi però di restare sempre elegantemente ad osservare dal retropalco.
La città, le case, le situazioni, che erano capitati in sorte in quell’esperienza all’osservatore letterario, rivestivano, come tutto d’altra parte, l’interesse prezioso dell’inesplorato da decifrare e collocare narrativamente. E perciò, in mancanza di una conoscenza un po’ meno che superficiale di quella particolare razza di uomini (e soprattutto, purtroppo, di donne) i miei nuovi concittadini erano stati da me compresi genericamente in una univoca chiave di lettura narrativa. Con una interpretazione dell'umanità certo abborracciata e massimale, le persone mi sembravano – e in parte lo erano veramente -  abbastanza uniformi negli atteggiamenti, regolari nei modi, austeri, compiti nei visi, nei gesti, insieme più che individui, tutti presi da un proprio serissimo progetto, reso visibile da movimenti rapidi, frugali, da un agire asciutto, privo di sbavature o rilassamenti meridionali.
Attorno a mezzogiorno ad esempio chi usciva dal lavoro o da casa s’indirizzava a passo svelto, quasi isterico, a comprare il pane, in salumeria, a fare spesa ai banconi della frutta, magari in banca o a scuola dai figli; tutti decisi e rapidi, dando l’impressione di sapere convintamente cosa fare, come quando vedi le formiche tutte indaffarate attorno alle briciole di pane eseguire con totale sicurezza il proprio compito.
Poi una mattina ecco il marziano.
"Guarda", mi dissi la prima volta che mi capitò davanti, "quello non c'entra niente con tutti quegl'altri. Si muove tra la frenesia del mezzogiorno col dominio e la pace di chi vi è estraneo: un turista di certo.
Da come cammina e ed è vestito si vede lontano un miglio che non è uno di qua.
Strano però un turista con questo tempo, in ottobre, e da solo!"
Si trattava di un uomo anziano, sui settanta circa - non saprei dire oggi:  potrebbe forse averne avuti dieci di meno o di più - . In ogni caso credo che mi occorra spendere qualche riga supplementare, ricomponendo le poche tessere del un mosaico di un ritrovamento, per ritagliarne i contorni e restituire al grande album delle cose luminose della memoria una figurina, per quanto sgualcita e fragile.
E i pochi tratti della sua immagine mi rimangono solo per il fatto che quella prima volta, senza che me ne rendessi conto, mi ero messo a seguire per un po’ quel personaggio per me interessante per pura curiosità.
Poi, una volta a casa, mi era sembrato indispensabile buttare giù sul quadernetto degli appunti una frettolosa descrizione, uno schizzo en plein air.
Era, mi pare, di statura media, ossuto, di costituzione quadrata, nel senso che le estensioni degli arti e del capo non troppo lunghe si allontanavano poco dal suo baricentro, con l’unica convessità nella figura del ventre rilasciato.
Il viso largo era sotto il dominio di una fronte ampia, serena, degna quasi di reverenza;  gli occhi li ricordo piccoli e annegati dentro a due fessure sottili, costantemente, beatamente socchiuse.
Non fingo di aver conservato nella memoria, giusto per questo racconto, il colore delle iridi, ma di quello della pelle e della sua qualità so ancora parlare abbastanza bene.
Aveva una pelle di un chiarore e una levigatezza mai viste prima, da tedesco pensai più che da italiano, ignorando allora che questo non poteva essere singolare in una terra di confine con le regioni dell’Europa centrale.
Sopra la testa indossava un berrettino circolare con una larga visiera sollevata che mi sembrò senz’altro fuori luogo.
Portava dei pantaloni a coste, di velluto; una camicia di flanella a scacchi dai toni forti, bordeaux, viola, blu scuro e sopra un giubbino senza maniche da cacciatore attraversato in diagonale dalla correggia di cuoio di un grosso borsello a tracolla tenuto sul fianco.
Soprattutto mi avevano colpito, come ho già detto, la tranquillità del passo e l’indulgenza dello sguardo; il gustare e far propri con gli occhi, con lo spirito ogni cosa, i visi, gli abiti.
Più gli stavo dietro e più mi accorgevo che acchiappava col sorriso le strade, le chiese; seguiva le camminate, le abitudini; rubava le parlate.
Aveva come l’andare compiaciuto di chi sta facendo l’unica cosa forse veramente degna di senso per un essere umano: osservare, vivere e goderne, semplicemente.
E la stranezza, la particolarità del personaggio consisteva, come si diceva, nella sua unicità nell’ora di punta in mezzo alla fretta di tutti quegli altri che correvano avendo qualcosa di molto importante e urgente da fare.
Si aggirava infatti col suo andare pigro e il suo borsello a tracolla tra le vetrine delle boutique, guardando con l’occhio svagato gli abiti, le scarpe, le cravatte; ondeggiava, beccheggiando a destra e a manca, tra la vetrata di un bar e il crocicchio di massaie in attesa del bus.
Sempre con le mani dietro la schiena curiosava nei banconi del mercato a piazza delle Erbe, sporgendo la testa in punta di piedi sopra quelle degli acquirenti, interessato più di ogni altra cosa al mondo a intendere la succosità di certe mele rubizze che la fruttivendola giurava essere le più saporite della provincia e un attimo dopo del tutto rapito dall’iridescenza di alcuni lucidi grappoli di uva nel bancone accanto, e perché ora invece trascurare la fragranza dei funghi chiodini nella cassetta della vecchina in fondo alla piazza?
Ma no ecco che scappa via immediatamente folgorato dagli ultimi riflessi di agonia delle masanette, che così fresche caro signore neanche in mare le vede !
Qualche banconista approfittando di tanta attenzione lo adesca col vocione del banditore e gli butta sotto il naso chi una branzino dai riflessi argentati, chi un cestino di lamponi profumati, chi una verza opulenta e allora le fessure delle palpebre gli si fanno ancora più minuscole, le labbra sottili si allargano da zigomo a zigomo nel sorriso più placido e convinto che ci sia: allora, tutt’assieme, gira i tacchi e via senza una sola parola, neanche per dire magari, chessò, che non capisce la lingua.
E’ un turista dello sguardo questo; si è come imposto la regola della contemplazione pura: un turista zen, direi!
E mentre mi fermo a buttare giù queste due fesserie lui è già sparito nel nulla.
Il giorno appresso la mia uscita da scuola coincideva con l’ora di punta, quella del magico incontro del giorno prima, e allora mi precipito in centro senza perdere tempo per cercarlo e mentre non so neanche perché mi affretti tanto per trovarlo, preoccupato di non riuscirci, mi sale per la schiena una gelida folata di disperazione, perché mi accorgo di avere bisogno di lui, della idea che è diventato, per sopravvivere.
Dopo mezzora di andirivieni non lo trovo da nessuna parte: sono sgomento.
Sgomento letterario certo, fingo a me stesso, ma a ben pensarci a poco a poco mi consolo quando capisco che è proprio guardando il suo perfetto contrario, cioè tutti quegl’altri, che comincio a definire con più precisione i contorni del personaggio. E’ più vivido e a tutto tondo ora, che il giorno prima quando c’era.
Così per qualche giorno smetto di cercarlo, anche per evitarmi una probabile delusione.
Poi, due settimane dopo, un pomeriggio sto facendo quattro passi in piazza. Butto un occhio annoiato alla gente ai tavolini dei bar che beve gli ultimi aperitivi e allora lo rivedo, ancora identico a se stesso, con gli stessi abiti, il borsello, le mani seraficamente congiunte dietro la schiena, che sorride impercettibilmente al mondo.
Passa in mezzo ai tavoli, osservando con compiacimento la gente seduta, le cameriere che vanno avanti e indietro frettolose; china certe volte la testa per guardare bene le qualità delle bustine di the e le forme dei cioccolatini che servono nei piattini con i cappuccini.
Quando lui passa vicino, chi è seduto fa finta di niente per atavica discrezione, ma una volta andato oltre qualcuno si gira, seguendolo con un’aria di fastidio.
E all’improvviso ancora una volta sparisce, quando meno te lo aspetti.
Io però sono già preparato e quindi affretto il passo per andargli dietro in qualunque direzione possa essersi dissolto.
Dopo pochi minuti di ricerche, con addosso la paura di averlo perduto, lo ritrovo dentro alla botteguccia del tabaccaio.
Sorride chinando più volte il capo alla commessa che gli rende degli spiccioli ed una bustina bianca: delle cartoline, dei francobolli o magari una mappa dei sentieri di montagna, chissà. Poi, facendosi largo adagio e a fatica tra la piccola folla di clienti assiepata nella stanzetta, dispensa altri inchini e saluti col capo a più d’uno come per scusarsi di dover guadagnare spazio o forse, più probabilmente io penso, per aver dovuto rendere manifesta fisicamente la sua esistenza.
E’ infatti la prima volta che lo vedo interagire con qualcuno. Sta per esplodere nel nulla la bolla di sapone delle mie congetture: non è l’asceta solitario, refrattario ad interferire col prossimo che credevo. Sarà semplicemente un vecchio turista bavarese timido ed educato o magari un mezzo matto scappato da chissà dove.
Preso da una delusione fulminante, come nelle brutte cantonate amorose, perdo totalmente l’interesse verso di lui e decido di smettere di seguirlo.
In quel periodo si stava per annegare nell’inverno settentrionale: altre diventarono allora le storie da catturare, gli intrecci struggenti da sciogliere, gli amori d’emergenza da consumare.  
Non pensavo più a quell’uomo, anche perché sceglievo altri tragitti, altri orari.
Neanche alla logica chiedevo aiuto, perché a ben pensarci ora ero stato per un po’ troppo innamorato del costrutto poetico del turista misterioso per rendermi conto della cosa più ovvia e cioè che un turista dopo qualche giorno o qualche settimana torna in fine a casa sua e buonanotte al secchio.
Ma quella che tra le muse ogni tanto prende tra le mani la matassa ingarbugliata delle storie dei narratori sovente dipana i fili delle trame con una logica imperscrutabile.
Mi capitò infatti mesi dopo nei giorni melanconici che seguono il Natale un altro incontro fortuito. Mi incrociò inaspettatamente mentre camminavo come un pupazzo dalle pile mezze scariche giù per la via Mezzaterra, mentre che gli elettricisti malinconicamente staccavano dai pali le ultime luminarie natalizie da via Mazzini.  
Il turista allora era tornato!
La sua apparizione fu quella volta come di uno spettro, di uno spettro mandato per davvero dal Grande Fato delle coincidenze. Mi sembrava che le sue manifestazioni arrivassero quasi sempre per sparigliare le mie carte nei miei momenti più tristi.
Invertì la mia strada e lo seguì stavolta con molta attenzione, senza fretta, con una religiosa circospezione e a debita distanza. La disillusione della volta precedente non esisteva già più.
Era quello di sempre, fedele ancora una volta al suo personaggio, con in più un giaccone trapuntato ed un girocollo sopra la camicia. C’era molto freddo e forse per quello sembrava avere per il momento smesso un po’ la beatitudine del sorriso.
Camminava se possibile ancora più lentamente del solito, ma ora non era attirato dalle vetrine, dai passanti, dalle faccende delle massaie. Invece, nuotando contromano nella strada in discesa, ruotava dolcemente il capo in continuazione, interessandosi stavolta agli elettricisti sulle scale, che guardava con un’attenzione meticolosa e dieci minuti dopo ai trasportatori che scaricavano prosciutti e provoloni nel retro bottega delle salumerie, quindi poco dopo ai vigili che ruotavano gli avambracci come giocolieri, smistando il traffico per il duomo.
E allora faccio una cosa che fino a pochi minuti fa mi sarebbe sembrata da pazzi.
Risolvo di affidarmi al sesto senso o alla sorte e decido di lasciarlo andare. Ho la sensazione, anzi la certezza che domani lo ritroverò dalle stesse parti e alla stessa ora.
Così il giorno dopo sono ancora là e lo becco mentre si guarda un po’ di qua, un po’ di là, in cerca della sua preda di osservatore.
Che in questa stagione deve appartenere alla razza di quelli che trafficano attorno a qualche arnese, che fa insomma un lavoro manuale.
E chi sa come ci prendo, perché ad un certo punto punta la preda e va più spedito del solito attirato senza più tentennamenti dalla concitazione degli operai dell’acquedotto che lavorano attorno ad un voluminoso tubo di ghisa dentro a una grossa ferita nel pavè dalle parti del duomo.
Deve essere una vecchia condotta fognaria dal tanfo che veniva fuori, ma del puzzo il vecchio se ne frega.
Con le mani dietro la schiena, come sempre, si piega verso la buca a guardare da molto vicino gli operai, tutto intento a seguire i tentativi per sbloccare i giunti ed aprire il tubo.
Partecipa con gli occhi al sudore, ai tentativi falliti, alle urla e alle bestemmie, alla piccola discussione tra il capo e i due ragazzi. Pare, da come guarda, la scena più interessante del mondo.
Senza una parola, senza un consiglio, sta nella posizione e nell’atteggiamento dell’unica persona al mondo che sa veramente apprezzare uno svitamento di bulloni ben condotto, una picconata ben assestata, un opportuno slittamento a sinistra di manicotto.
Ma chi cacchio è allora? Un turista curioso appassionato d’idraulica? Un vecchio ingegnere tedesco in pensione? Un visitatore ciclico, affezionato alla città?
All’operaio in capo,  pare ad un certo punto naturale domandare al vecchio: “Allora che dici nonno, coi giunti arrugginiti che si fa? Ancora con la chiave da 18 o si spacca tutto col martello? “
E lui come al solito è tutto un sorriso e in più ci aggiunge dei piccoli cenni di assenso col capo, che non si sa se vogliono essere di benevolenza e basta soltanto oppure di consenso da rincoglionito.
Ma questa volta non se ne va: sta ancora là a guardare, a partecipare, a penare, a sudare con loro.
No, un ingegnere non sarà e un appassionato d’idraulica avrebbe già da un pezzo detto la sua. Ma nemmeno un turista, uno che perde i pomeriggi a seguire idraulici che trafficano appresso alla condotta di una fogna.
Poi il colpo di genio. La mutazione rapida di prospettiva.
Perché dove è scritto che un turista deve interessarsi solo a pinacoteche, centri storici e panorami suggestivi, trascurando di un dato posto tutto il resto, le abitudini degli abitanti, i mercati nelle piazze, i caffè all’aperto, i tubi delle fogne, il profumo dei porcini, tutti i sentori e gli afrori della vita quotidiana insomma?
Decido di cambiare strategia, di fare adesso qualcosa di meno romantico e più scientifico, tipo un pedinamento suppergiù.
Aspetto le cinque, quando è l’ora canonica di fine lavoro degli operai comunali.
Gli idraulici smontano, lasciando la fossa ancora aperta e vanno via e con loro il turista finisce anche lui il suo turno. Lo seguo stando a debita distanza, lentamente, con un fare da questura.
Lasciata la strada della buca lo vedo inoltrarsi nel cuore del piccolo centro storico. Cammina con un andamento più stanco del solito e per la prima volta lo vedo andare con le mani nelle tasche dei pantaloni di velluto invece che unite dietro la schiena.
Una stradina, una piazzetta poi un vicolo stretto e buio. Mi fermo alla sua imboccatura, spiando dallo spigolo per non farmi notare. La cosa comincia ad appassionarmi.
Lo vedo adesso infilarsi in un portoncino consumato, chiudere la porta con molta familiarità.
Ma in che vicolo, in che casa abita il turista? Che razza di viaggiatore è questo che va a dormire in una palazzina grigia e malandata?
A meno che non debba poi crollare l’assunto fondamentale della mia ipotesi di lavoro.
Ma la questione ora è un’altra: mi pare che, al meno per il momento, il mio ruolo autoriale in questa storia senza che me ne sia accorto sia mutato: l’impostazione narrativa dovrebbe passare o è già passata dallo statuto del racconto di costume, dalla classica storia del disvelamento progressivo di una identità, a quello del racconto giallo o quantomeno d’indagine.
E poi in definitiva potrei decidere anche di mandare al diavolo tutta questa faccenda dello scrittore a caccia di storie e divertirmi invece a giocare all’investigatore privato per conto di me stesso.
L’indomani sono libero dal lavoro e allora vado a fare colazione in un caffè vicino casa del turista per sorvegliare i suoi spostamenti.
Dopo mezzora d’attesa lo vedo venir fuori dal portoncino del giorno prima verso le nove e un quarto. Prima di andare però si ferma un attimo, quasi pensieroso.
Lo guardo: è sempre lui, ma gli manca qualcosa.
Adesso mette su il berretto con la visiera e poi incrocia sul torace la correggia dell’immancabile borsello: ecco ora ci siamo; è quello di sempre.
Gira con consuetudine la chiave nella toppa per chiudere, poi si volta e si mette come sull’attenti, spalle alla porta, testa dritta.
Alza leggermente gli occhi in alto e resta immobile.
Sono attimi, ma durano un tempo indefinito.
E’ magnifico il vecchio, solenne, colmo di serena fierezza negli occhi glicine che scintillano come gelide, incomprensibili gemme ; è la dignità austera del senatore romano, la terribilità amorevole del san Giorgio di Donatello, la venerabilità dell’uomo puro, senza età; è l’orgoglio ancestrale delle generazioni e il loro succedersi, che si manifesta per intero in uno solo.
Come in un incantesimo nascosto e mistico che ogni uomo si dà - o che dovrebbe darsi - di tanto in tanto nella vita, così, per dire a se stesso: “Io non sono solo quello che faccio, dico, agisco, quello che gli altri pensano o sanno di me: io ogni tanto esisto anche segretamente, solo per me stesso; sono unicamente quello che so di essere e questo mi illumina!”
Adesso si rassetta la camicia ed il giaccone aperto con un elegante passaggio della destra, indossa l’espressione di sempre e si muove col capo un poco chino, con lo stesso passo, con le stesse mani dietro la schiena.

Lo seguo di nuovo come un segugio.
Dopo pochi passi, sulla stretta strada medioevale che sale verso il centro l’omino occhialuto della lavanderia, che stira da un secolo con la meccanicità di Charlot in tempi moderni, lo nota e gli fa un cenno con la mano: lui risponde con un impercettibile socchiudere di palpebre; un po’ più in là anche il macellaio, che dietro alla vetrina spacca costatine con la mannaia, alza la testa e lo saluta agitando la sinistra: il vecchio gli fa un cenno di risposta dilatando le sottili labbra e abbassando appena un po’ il mento sul petto, sempre con riserbo, misuratamente.
E poi quell’omone sfatto e rubizzo, che sta sempre appollaiato sulla botte del bar in cima alla strada a cianciare a voce alta di calcio, di femene e di trote farie con la sequenza impietosa del mitra da trincea, s’interompe un istante e gli spara una breve raffichetta di saluto: lui risponde ondeggiando due tre volte il capo.
Cordiale e imperturbabile con ognuno; attento e distaccato; premuroso e lontano; come un banco di cirri che passa piano sul tramonto.
Il mio tenero viaggiatore, il visitatore scientifico, il turista per vocazione.
E proprio concependo questa frase nella mia mente, ripetendola fra me e me, so che in questo preciso momento il logos ha compiuto il suo ennesimo prodigio.
Il visitatore perenne: questa è la soluzione!
Questo vecchio la mattina esce da una vecchia casa di una noiosa cittadina di provincia, si infila il borsello a tracolla, si ficca in testa il berrettino con la visiera in su e poi con le mani dietro la schiena parte alla scoperta del mondo, dei cieli, dei visi, degli abbaini, dei modi di bere il caffè, delle cunette, dei sorrisi, delle fragranze delle donne, delle traiettorie dei piccioni, delle chiese, dei palazzi, delle bestemmie degli ‘mbriaghi, della lucentezza dell’uva e delle forme di provolone dei salumieri.
E ogni giorno tutto questo lo vede per la prima volta, stupito, con occhi nuovi, ingannando la consuetudine, il disfacimento della vita che si ripete sempre uguale, tetra come un inesorabile countdown verso la morte, perché ha deciso di essere un turista, un turista nella sua città, sempre, ogni giorno.
Il turista eterno.


     

2 commenti:

  1. il racconto lo leggerò con calma, ma ti anticipo che lo schizzo di simone mi piace molto, è molto espressionista! :-) ennio

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  2. Mi piace molto, lo sguardo del tuo "straniero", eterno turista, che ritrovo in me stessa, con stupore ed entusiasmo, da quando ho scoperto "l'incantesimo" della scrittura...
    Grazie, Enzo, per questo scorcio di consueta novità.
    Daniela

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