sabato 8 febbraio 2014

Moralia 2

 
di Enzo Barone 
 
Spesso ci sarà capitato di finire vicini di bus, di coda alla posta, di sedia  in ambulatorio, di poltrona in aereo o d’ombrellone in spiaggia col tipetto chiacchierone.
La massaia infaticabile e frustrata, l’impiegato precisino, il qualunquista che saprebbe mettere a posto lui le cose, il nonnetto logorroico e un tantinello andato, il ragazzo fanatico di moto.
Noi uomini o donne di buon senso, di buone letture, nel vigore degli anni, che abbiamo una famiglia, un lavoro, una casa, insomma ben altro a cui pensare siamo costretti a sopportarne la presenza come un pegno episodico che prima o poi tocca a tutti pagare.

La nostra dignitosa tranquillità, il diritto universalmente riconosciuto al riserbo o alla privacy, il più prosaico desiderio di non aver rotte le balle dall’importuno di turno che blatera e blatera di ogni cosa senza chiedersi minimamente se a noi interessi quello che ci sta dicendo.
Sono valori sacrosanti, forse ancor di più al nord, nei paesi civili che alle latitudini meridionali, ma neanche troppo.
Chi rompe, rompe, ad un certo punto!
 
E invece no, ci sbagliamo.
Quasi sempre.
Ieri pomeriggio ad esempio dividevo l’attesa nell’ambulatorio semivuoto del mio medico con un nonnetto appunto, con un bel papillon al collo, un vedovo molto riguardoso, un po’ eccentrico e molto molto chiacchierone.
Come un esperto cacciatore da posta, non appena qualcuno entrava nel suo raggio d’azione lo catturava nella sua trappola verbosa e lo faceva suo, intavolando discussioni, anche ben condotte, su quei temi, diciamo universali, sui quali tutti ci possiamo ritrovare, essendo costretti in uno spazio comune: il tempo, gli acciacchi, il comportamento dei politici, le disquisizioni sul vivere civile dei nostri corregionali.
Ad un certo punto ero rimasto da solo nella stanza con l’arzillo ometto, col mio mal di gola, col mio umore da influenzato, sollecitato con poco riguardo al mio stato e nonostante continuassi a dedicare la mia attenzione alla mail nel mio cellulare, a proseguire un discorso iniziato col paziente appena andato via su come si può arrivare a cento anni con un po’ di fortuna e con una condotta di vita sana e saggia.
Dopo alcuni ostinati  tentativi di garbata invadenza, davanti al mio palese disinteresse a farmi coinvolgere in conversazioni che mi erano del tutto estranee, il vecchietto si è arreso ed è calato un silenzio freddo e gravido di rincrescimento e delusione, che è durato grazie al cielo pochi istanti, perché adesso toccava a lui entrare.
Ho sbagliato a comportarmi così, anche io come tanti di noi.
In assoluto, a prescindere da tutto.
A prescindere anche da una sommaria analisi psicologica del soggetto che ci dovrebbe servire a distinguere il bisognoso di un contatto dal rancoroso in cerca una sponda; la vittima in cerca di sfogo dall’emarginato psicolabile.
Ragionando con una certa asettica ratio filosofica, rifiutare deliberatamente il tentativo di dialogo con un altro essere umano è rifiutare di aprirsi al mondo, è in qualche modo rifiutare di essere partecipe della comunità umana, del flusso del pensiero, qualunque sia l’argomento del discorrere.
Tornando al mio nonnetto poi, negare a quell’uomo qualche istante di comunione con un altro essere umano, chiunque egli sia, anche accettando la conversazione per una forma di indulgenza compassionevole, di tolleranza condiscendente, è non solo una scortesia, ma anche un esercizio di indifferenza, una mancanza di carità cristiana (o di umanità, se credete) addirittura.
Pensiamoci quando ci troviamo accanto a qualcuna di queste persone prolisse, a questi incontinenti verbali; pensiamo che il loro rivolgersi a qualcuno, ad una persona qualunque è spessissimo il tentativo disperato di vincere una solitudine ordinaria e opprimente, tale da spingerli a rischiare la derisione, il ridicolo, il fastidio recato, pur di trovare qualcuno con cui scambiare due chiacchiere.
La donna lasciata dal suo uomo, l’anziano rimasto vedovo, l’impiegato vessato dal suo capo: sono sofferenze che sentono un bisogno disperato di scaricare, quando si può, la propria pena,
di trovare qualcuno che li aiuti a portare per un po’ il loro peso.
Pensiamoci: abbiamo in fondo una certa responsabilità; è una forma di amore per il prossimo e neanche dei più trascurabili.
 
Io oggi, per mio conto invece, rischierò, ben volentieri, con queste mie chiacchiere, di mettere i panni di uno di quei pretini ciarlieri e che seminano predicozzi e voi magari penserete di avere sbagliato lettura e di stare forse leggendo, inconsapevolmente, le pagine di Famiglia Cristiana.


1 commento:

  1. Bella questa riflessione sull'occasione perduta. Del resto a tutti è capitato qualcosa di analogo (l'ufficio municipale di viale Lazio docet) ma forse ti sarà di consolazione pensare che almeno una volta anche il vecchietto dell'ambulatorio avrà adottato la tua stessa condotta magari commentando candidamente: ma a chistu sta cunfirienza cu ci la retti. Complimenti. Salvo Barone

    RispondiElimina

Questo blog consente a chiunque di lasciare commenti. Si invitano però gli autori a lasciare commenti firmati.
Grazie