di Raimondo Augello
Dallo
scorso 28 novembre è distribuito nelle sale cinematografiche italiane il film
“La mafia uccide solo d’estate”, scritto, diretto e interpretato da
Pierfrancesco Diliberto, meglio noto come Pif. Il film sta riscuotendo un
notevole successo di pubblico e di critica, come testimonia il primo premio
ottenuto al Torino film festival. Personaggio noto al pubblico televisivo, per
la sua collaborazione con Le Iene e con MTV, il palermitano Pif rappresenta
davvero un’autentica sorpresa per il fatto che, pur essendosi già occupato di
cinema collaborando come aiuto regista nel 2000 con Marco Tullio Giordana nella
realizzazione de “I cento passi”, il film che rievoca l’esperienza umana,
civile e politica di Peppino Impastato, mai aveva raggiunto un personale
successo cinematografico paragonabile a quello che sta vivendo in questo
momento.
Dichiarato dal Ministero dei Beni Culturali film di rilevante
interesse culturale e realizzato con la collaborazione dei ragazzi di Addio
Pizzo, “La mafia uccide sempre d’estate” racconta con un linguaggio fresco ed
accessibile a tutti, non esclusa una cifra linguistica talora cara al pubblico
giovanile, la storia di Arturo, giovane palermitano e del
suo processo di crescita dalla culla sino alla piena maturità, sullo sfondo
delle vicende di mafia che hanno segnato la storia di Palermo tra gli anni
Ottanta e gli anni Novanta. Una sorta di realizzazione cinematografica di un
romanzo storico di chiara ispirazione autobiografica, nel quale tuttavia è
possibile per ciascun palermitano che abbia vissuto quegli anni ritrovarsi e
provare le stesse emozioni del protagonista. E ad accompagnare come un
leit-motiv l’intera vicenda, sta l’innamoramento di Arturo per Flora, un
sentimento concepito tra i banchi delle elementari e poi coltivato e
gelosamente vagheggiato per parecchi lunghi anni.
Il
film, per buona parte del suo svolgimento, si mantiene su un registro
comunicativo che rasenta il comico, con una rappresentazione non soltanto delle
vicende personali di Arturo, ma anche dei tragici fatti di cronaca che vi fanno
da sfondo, segnata da una forte ironia. Lo spettatore, non senza un certo
imbarazzo, si trova così di fronte ad un Totò Riina o ad un Leoluca Bagarella
ridotti ad una essenza quasi macchiettistica, con una modalità narrativa del
fenomeno mafioso che ricorda per certi versi il film “Tano da morire” di
Roberta Torre (d’altro canto, non è forse proprio Peppino Impastato che ci ha
insegnato la forza dissacratrice di una risata nei confronti dell’arroganza
mafiosa?). Parlo di imbarazzo ma sarebbe forse meglio parlare di perplessità,
nella misura in cui il film, nel suo agile dipanarsi tra il serio e il faceto,
lascia incerto lo spettatore stesso se ci si trovi di fronte ad un’opera
ridanciana (ammesso che si possa ridere di fatti di tal genere), di mediocre
livello artistico per la sua leggerezza, o se piuttosto voglia andare a parare
altrove, magari sviluppando un messaggio profondo capace di toccare nel vivo,
come solo un lavoro di forte spessore sa fare, la sua coscienza. Ben presto,
però, ci si accorge di come il film voglia raccontare il processo di
maturazione di un’intera città, un tempo complice o indifferente in molte delle
sue componenti, ma incontenibile nella sua ribellione morale contro l’assenza o
la connivenza delle istituzioni al momento delle stragi del ’92. Una sorta di
“metanoia” si direbbe con termine greco, un autentico capovolgimento del modo
di pensare e di percepire la realtà che passa attraverso un doloroso processo
di acquisizione di coscienza. Nel pensiero tragico di Eschilo, la conoscenza
umana poteva passare soltanto attraverso la sofferenza, principio riassunto dal
poeta nella formula “pathei mathos” (la conoscenza attraverso la sofferenza) e
davvero i tempi tragici di un dramma collettivo pare ripercorrere l’ultima
parte del film in cui, abbandonato ogni
intento ironico, il regista riesce a strappare allo spettatore un moto di
commozione ed una viva partecipazione ai fatti che scorrono dinnanzi ai suoi
occhi. Perché quel momento di straripante ribellione finisce nel racconto di
Diliberto per coinvolgere tutti, anche coloro che sino a quel momento non
avevano voluto o non avevano saputo aprire gli occhi, e come in un
inestricabile nesso tra vita privata e pubblica, tra sentimenti individuali e
passione civile, il protagonista Arturo riuscirà a coronare il suo sogno d’amore
nato tra i banchi di scuola soltanto quando, senza parole, si ritroverà di
fronte l’amata Flora (precedentemente segretaria dell’onorevole Lima del quale
condivideva il programma politico), durante una di quelle manifestazioni di
protesta contro uno Stato assente. E il film si chiude con le immagini, belle e
commoventi, di Arturo che, come in un itinerario di crescita morale e civile,
porta il proprio bambino ancora molto piccolo sui luoghi simbolo in cui sono
cadute le vittime della mafia, quasi a volere trasmettere al proprio figlio sin
dalla più tenera età il testimone di quella coscienza cui ormai non era più
possibile rinunciare, espletando così nel modo più nobile e consapevole il
proprio magistero paterno, che consiste nell’accompagnare il figlio alla
conoscenza della realtà. Una realtà, appunto, frutto di una sofferenza
individuale e collettiva. Una sorta di composizione circolare dunque, che
partendo dall’infanzia del protagonista si chiude con l’infanzia del suo bimbo,
in cui il messaggio pare essere che l’esperienza storica vissuta da un
palermitano appare così forte da condizionare e improntare di sé ogni forma di
amore, quello per un figlio, ma anche l’amore inteso come eros, che sboccia
dopo tanti anni senza bisogno di parole soltanto quando i due protagonisti
incontratisi casualmente, avvertono, guardandosi negli occhi, la condivisione
di quel percorso di sofferenza e di conoscenza.
Il
film ha dunque non soltanto il merito di ripercorrere i principali fatti di
cronaca di mafia che abbracciano più di un ventennio di storia cittadina, ma
soprattutto di dare voce all’esperienza e
alle emozioni che certamente tanti Palermitani condividono con il
regista.
Un
paio di anni addietro, mi è capitato di partecipare alla tonnara Bordonaro alla
commemorazione di Libero Grassi, il primo imprenditore che a Palermo aveva
osato opporsi alla violenza del racket. In quella circostanza, oltre alla
vedova Pina Maisano, ai ragazzi di Addio Pizzo, ad autorità e magistrati, era
presente il giornalista milanese Gianni Barbacetto, corrispondente di cronaca
giudiziaria dal capoluogo lombardo per conto de Il Fatto Quotidiano, giornale
del quale è considerato una delle principali firme, nonché direttore
dell’Omicron (Osservatorio Milanese sulla Criminalità Organizzata al Nord) .
Ebbene, Barbacetto, presa la parola, ha lodato gli enormi passi avanti fatti
dalla società civile palermitana nell’arco degli ultimi decenni, la nascita
delle associazioni, il proliferare delle denunce, la scomparsa di quel clima di
omertà che aveva in sostanza finito per costituire una sorta di luogo comune
dell’essere siciliani.
Una
consapevolezza, insomma, che al dire di Barbacetto deve porsi come modello per
qualsiasi altra comunità che voglia opporsi seriamente al fenomeno mafioso.
Raccontando dei tanti processi di mafia a cui aveva assistito per lavoro, il
giornalista riferiva di un clima di omertà da parte di gran parte degli
imprenditori milanesi, talora anche di fronte all’evidenza delle
intercettazioni telefoniche, rivelatrice di
una sottovalutazione o di una sudditanza nei confronti del problema
mafioso, tale da indurre Barbacetto a concludere dicendo che “da noi siamo
indietro di trent’anni rispetto a Palermo nella percezione del fenomeno”. E proprio di questi trent’anni vuole
raccontarci il film, di quel difficile percorso riconosciuto dallo stesso
giornalista de Il Fatto Quotidiano, di quel doloroso processo di crescita
diventato ormai parte irrinunciabile della complessa condizione dell’essere
Palermitani. Un film che se nel suo genere non può definirsi a pieno titolo un
capolavoro (come certamente lo è “I cento passi”), può forse dirsi un “quasi
capolavoro”, secondo una definizione ricorrente in alcune recensioni diffuse in
questi giorni.
Ormai da alcune settimane la proiezione del
film è proposta alle scuole cittadine di ogni ordine e grado che con ampio
afflusso hanno aderito all’iniziativa, dalle elementari ai licei. L’auspicio è
che questo grande interesse possa concorrere a creare nelle nuove generazioni
una nuova consapevolezza che, a Palermo come altrove, crei le basi di una
conoscenza che spezzando la fatalistica meccanica di derivazione eschilea
superi l’anello della sofferenza come passaggio ineluttabile; evitando così che
si possa ripetere ciò che è accaduto a Palermo e di cui la nostra generazione è
stata attonita testimone prima di tradurre in ribellione la propria
indignazione.
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