di Enzo Barone
Spesso ci sarà capitato di finire vicini di bus, di coda
alla posta, di sedia in ambulatorio, di
poltrona in aereo o d’ombrellone in spiaggia col tipetto chiacchierone.
La massaia infaticabile e frustrata, l’impiegato precisino,
il qualunquista che saprebbe mettere a posto lui le cose, il nonnetto
logorroico e un tantinello andato, il ragazzo fanatico di moto.
Noi uomini o donne di buon senso, di buone letture, nel
vigore degli anni, che abbiamo una famiglia, un lavoro, una casa, insomma
ben altro a cui pensare siamo costretti a sopportarne la presenza come un pegno
episodico che prima o poi tocca a tutti pagare.
La nostra dignitosa tranquillità, il diritto universalmente
riconosciuto al riserbo o alla privacy, il più prosaico desiderio di non aver
rotte le balle dall’importuno di turno che blatera e blatera di ogni cosa senza
chiedersi minimamente se a noi interessi quello che ci sta dicendo.
Sono valori sacrosanti, forse ancor di più al nord, nei
paesi civili che alle latitudini meridionali, ma neanche troppo.
Chi rompe, rompe, ad un certo punto!
E invece no, ci sbagliamo.
Quasi sempre.
Ieri pomeriggio ad esempio dividevo l’attesa
nell’ambulatorio semivuoto del mio medico con un nonnetto appunto, con un bel
papillon al collo, un vedovo molto riguardoso, un po’ eccentrico e molto molto
chiacchierone.
Come un esperto cacciatore da posta, non appena qualcuno
entrava nel suo raggio d’azione lo catturava nella sua trappola verbosa e lo
faceva suo, intavolando discussioni, anche ben condotte, su quei temi, diciamo
universali, sui quali tutti ci possiamo ritrovare, essendo costretti in uno
spazio comune: il tempo, gli acciacchi, il comportamento dei politici, le
disquisizioni sul vivere civile dei nostri corregionali.
Ad un certo punto ero rimasto da solo nella stanza con
l’arzillo ometto, col mio mal di gola, col mio umore da influenzato, sollecitato
con poco riguardo al mio stato e nonostante continuassi a dedicare la mia
attenzione alla mail nel mio cellulare, a proseguire un discorso iniziato col
paziente appena andato via su come si può arrivare a cento anni con un po’ di
fortuna e con una condotta di vita sana e saggia.
Dopo alcuni ostinati tentativi di garbata invadenza, davanti
al mio palese disinteresse a farmi coinvolgere in conversazioni che mi erano
del tutto estranee, il vecchietto si è arreso ed è calato un silenzio freddo e
gravido di rincrescimento e delusione, che è durato grazie al cielo pochi
istanti, perché adesso toccava a lui entrare.
Ho sbagliato a comportarmi così, anche io come tanti di noi.
In assoluto, a prescindere da tutto.
A prescindere anche da una sommaria analisi psicologica del
soggetto che ci dovrebbe servire a distinguere il bisognoso di un contatto dal
rancoroso in cerca una sponda; la vittima in cerca di sfogo dall’emarginato
psicolabile.
Ragionando con una certa asettica ratio filosofica,
rifiutare deliberatamente il tentativo di dialogo con un altro essere umano è
rifiutare di aprirsi al mondo, è in qualche modo rifiutare di essere partecipe
della comunità umana, del flusso del pensiero, qualunque sia l’argomento del
discorrere.
Tornando al mio nonnetto poi, negare a quell’uomo qualche
istante di comunione con un altro essere umano, chiunque egli sia, anche accettando
la conversazione per una forma di indulgenza compassionevole, di tolleranza
condiscendente, è non solo una scortesia, ma anche un esercizio di
indifferenza, una mancanza di carità cristiana (o di umanità, se credete) addirittura.
Pensiamoci quando ci troviamo accanto a qualcuna di queste
persone prolisse, a questi incontinenti verbali; pensiamo che il loro
rivolgersi a qualcuno, ad una persona qualunque è spessissimo il tentativo
disperato di vincere una solitudine ordinaria e opprimente, tale da spingerli a
rischiare la derisione, il ridicolo, il fastidio recato, pur di trovare qualcuno
con cui scambiare due chiacchiere.
La donna lasciata dal suo uomo, l’anziano rimasto vedovo,
l’impiegato vessato dal suo capo: sono sofferenze che sentono un bisogno
disperato di scaricare, quando si può, la propria pena,
di trovare qualcuno che li aiuti a portare per un po’ il
loro peso.
Pensiamoci: abbiamo in fondo una certa responsabilità; è una
forma di amore per il prossimo e neanche dei più trascurabili.
Io oggi, per mio conto invece, rischierò, ben volentieri, con
queste mie chiacchiere, di mettere i panni di uno di quei pretini ciarlieri e che
seminano predicozzi e voi magari penserete di avere sbagliato lettura e di
stare forse leggendo, inconsapevolmente, le pagine di Famiglia Cristiana.
Bella questa riflessione sull'occasione perduta. Del resto a tutti è capitato qualcosa di analogo (l'ufficio municipale di viale Lazio docet) ma forse ti sarà di consolazione pensare che almeno una volta anche il vecchietto dell'ambulatorio avrà adottato la tua stessa condotta magari commentando candidamente: ma a chistu sta cunfirienza cu ci la retti. Complimenti. Salvo Barone
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