di Francesca Saieva
photo di Maria Venere Licciardi
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.“Si avanza alla cieca in una direzione ignota, ma quanto più s’indietreggia tanto più si allarga l’orizzonte, tanto più vasto appare il paesaggio della vita che si offre allo sguardo […]” (C. Magris, Itaca e oltre,1999).
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.“Si avanza alla cieca in una direzione ignota, ma quanto più s’indietreggia tanto più si allarga l’orizzonte, tanto più vasto appare il paesaggio della vita che si offre allo sguardo […]” (C. Magris, Itaca e oltre,1999).
Ho appena terminato di leggere il romanzo Alla cieca di Claudio Magris. I miei occhi sono ancora fermi sull’interrogativo dell’ultima pagina: “Come andiamo?” (C. Magris, Alla cieca, 2007).
Una domanda da ‘ultima-prima’ pagina, alla quale a pancia si risponderebbe di certo: non va per niente bene.
Ma un punto interrogativo è solo uno dei tanti fine-incipit della Storia, che non trova risposta se non nell’idea di tante storie difettate da insufficienza visiva, incapace di avvistare bandiere bianche; una storia che ‘si fa’, dunque, alla cieca.
Un “récit du voyage, car le voyage est un préambule ininterrompu, le prélude à quelque chose qui reste indéfiniment en suspens et dont on ne devine jamais la fin” (B. Westphal, Austro-fictions: une géographie de l’intime, 2010).
E Claudio Magris, scrittore, giornalista, letterato e germanista, più volte candidato al Nobel per la letteratura, fa di Alla cieca un’epopea storica quale viaggio di vite umane nell’imbarbarimento ideologico e le sue nefaste conseguenze; un romanzo-odissea tra le ‘geografie del tempo’ (dall’annessione del 1802 della Tasmania come colonia penale alla Gran Bretagna fino alla fine dell’URSS nel 1981 con le sue annesse vicende) come tra ‘isole’ confluenti in unico mare.
Perché Magris è lo scrittore del viaggio (tutti i suoi scritti lo confermano) e del suo mistero universale racchiuso nei frammenti del tempo, negli scrigni del buio e del suo dilatarsi tra periferiche scintille multicolori che brillano e “frammenti di astri esplosi e scagliati nello spazio scuro in cui affondano e si spengono” (Alla cieca).
E il senso dell’altrove rivive nei molteplici io dei personaggi-protagonisti, nei microcosmi sotterranei, invisibili a occhio nudo, ma taglienti sulla pelle bruciata, seviziata, torturata dei dissidenti, dei forzati, dei reclusi, dei pazzi, degli uomini nel viaggio di andata ‘senza ritorno’. Ma forse dal nulla è possibile il ritorno.
E tutto si fa specchio della totalità, anche il fondo senza fondo del mare, con le sue correnti inafferrabili a volte anche al vento.
La ricerca originaria scava, sonda e diviene storia alla presenza di un ‘qualunque’ dittatore Tito. In particolare Alla cieca è, infatti, la storia del forzato Jorgen Jorgensen, re d’Islanda; del compagno Cippico, del suo viaggio dai lager a Goli Otok (Isola Calva) dove Tito recludeva i dissidenti; dei rivoluzionari traditi dalla loro stessa ideologia). Parole sferzanti, quelle di Magris, quando scrive: “Lui [Jorgen] è morto a Dachau; almeno ha avuto la fortuna di essere stato torturato e massacrato dalle SS e non dai compagni” ( Alla cieca).
L’amarezza si mescola al paradosso nel sentimento nostalgico come mancanza che squarcia la realtà; al di là di rassicuranti connessioni soltanto brada violenza e selvaggia fisicità (Magris in C. Pozzoli, L’utopia possibile: per una critica della follia politica, 1992).
Così nel dolore universale degli offesi dalla vita si ritrova il senso cosmico della scrittura, nel suo viaggio diurno/notturno tra dei e demoni. Anche quando “i sosia che abitano nel fondo del cuore dicono cose che smentiscono valori – perché – la letteratura è anche una discesa agli Inferi, a quello che (secondo Flaubert) chiamiamo latrina del cuore” (C. Magris, Corriere della sera, ottobre 2007).
Forse anche per questo per Magris il dare voce imparziale alle corde più diverse nonché alle passioni più antitetiche (Alfabeti) ricostituisce il senso di una scrittura totale, cosmopolita in termini di confini geografici e sociali. Alcuni stralci del suo discorso a Francoforte del 19 ottobre 2009, per un premio per la pace, ci parlano di strade per l’integrazione alla luce di una Mitteleuropa. “Uno dei tanti abbagli che insidiano la pace […] è essere ossessionati dall’universalità della guerra e credere che essa sia inevitabile, inseparabile dalla vita”, e ancora “Sono – anche – altri oggi i confini che minacciano la pace, confini talora invisibili all’interno delle nostre città, fra noi e i nuovi arrivati da ogni parte del mondo, che stentiamo perfino a vedere” (C. Magris, Corriere della sera, ottobre 2009).
Arduo, a questo punto, il compito della letteratura. Nel tentativo di un cosmopolitismo ‘creativo’ secondo tecniche linguistiche e metalinguistiche, per una congiunzione di luoghi, d’idee, di culture, per un unico senso originario, archetipico come universale umano.
La parola ha un grande compito: “abbracciare l’infinito al silenzio, mescolando tutti i generi letterari e spingendosi all’estremo del dicibile” (C. Magris, Corriere della sera, dicembre 1995).
Scrivere è trascrivere, ma è anche tradurre e interpretare. Penso, anche, mescolare tutte le lingue possibili cosicché l’origine della parola perda la sua stessa identità per diventare ‘altro’. “Sotto le palpebre i puntini, i dischi e i globi, si moltiplicano e roteano vorticosamente, cambiano colore e figura”.
Una strada dimenticata verso cui avanzare, mentre il tempo si rapprende e una grossa lucertola perde di continuo la sua coda; un nuovo orizzonte per chiedersi ancora: “ha una storia, una vita, questa poltiglia?” ( Alla cieca).
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