sabato 19 febbraio 2011

"L'inquilino"

estratti dal romanzo di Daniela Palumbo
pagg. 41-42

Ci ritroviamo su queste vecchie poltroncine di paglia, io e lui. A parlare, o a respirare in silenzio, fuori in balcone, come due anziani su di una panchina.
Sono passate le cinque e io ho dimenticato tutte le mie commissioni. O forse le ho volutamente ignorate.
Giù in strada, e poi subito dopo sul marciapiede, il dottor Vizzini, medico di famiglia fino a dieci anni fa, fino a quando non decise di arrendersi alla pensione. Visibilmente invecchiato, tranne che nel portamento, riconoscibile soprattutto per il suo consueto modo di attraversare: senza rallentare il passo né guardarsi attorno, quasi con aria di sfida. E con il sacchetto del pane saldamente tenuto tra due dita.
Al primo piano della palazzina di fronte, la lunga persiana in legno, grande aperta, al centro del balcone ravvivato dai gerani. E lì davanti, le gambe sinuose per metà nascoste dalle sbarre della ringhiera in ferro, il busto leggermente piegato in avanti, a seguire la curva della strada, compare dal nulla la sagoma slanciata della "rossa", quasi fosse ormai parte integrante del panorama.
Ricompare lì, proiettata su quel fedele sfondo, come "fotogramma della memoria".
In realtà non ho mai saputo come si chiamasse, né ho mai sentito in tutti quegli anni pronunciare il suo nome. E fino ad oggi questo non m'era mai parso strano.
"Guarda laggiù, i soliti impiegati della ditta al piano di sopra. A quest'ora in libera uscita. A bere e a compilare schedine al bar. A volte pare che nulla sia cambiato, o possa cambiare".
"Tu sei cambiata."
"Che vuoi dire?"
" Guarda! Su questo balcone dove sei torntata tu, non c'è più traccia di armi da fuoco. Almeno così pare."
Il tono è scherzoso e serio insieme.
Sorrido. E sono sorpresa: non avrei mai creduto che lui ricordasse quel particolare. Della mia infanzia. Qunado dall'alto della mia veranda, durante le sue infinite partite di pallone in strada, io prendevo la mira e... pum pum pum! Lui s'accasciava per terra dopo un tiro. Così si consumava, sotto ai miei occhi di bambina già donna, la mia "vendetta d'amore".
"Mi è venuto il desiderio di una granita al limone. Che dici Irene, scendiamo a prenderla al bar?"
La mia espressione non trasmette entusiasmo, e probabilmente risulta più eloquente delle mie parole: "Ti prego, vai tu."
Lui esita, rimanendo in silenzio.
"Io non mi muovo, Roberto, ti aspetto qui. E riferisco di tutti i passanti che avrò visto attraversare."
"D'accordo, per questa volta soltanto."
Si alza, come facendo un grande sforzo.
"Allora vado. Servizio a domicilio per la signora!"
Sicuramente scherza, ma l'impressione è proprio quella di qualcuno che si muova a fatica.
"Purché non ci ripensi e mi spari da qui sopra".
***
"Ma perché volevi spararmi?"
Strana domanda; è come quando si chiede al proprio bimbo: "Ma tu, vuoi bene a mamma?".
Comunque rispondo. Lasciando sciogliere i pezzetti di ghiaccio tra lingua e palato. E con un tono di voce quasi infantile.
"Ricordi? Alla galleria d'arte di Milano. Sono andata via senza nemmeno rivelarti il mio nome perché tu non mi hai riconosciuta. Succedeva più o meno lo stesso quand'ero bimba piccola: io ti passavo davanti, con gli occhi fissi su di te, e tu praticamente non mi vedevi".
Riflette. La sua difesa mi lascia senza parole: "Non ti ho riconosciuta dici? E ridisegnare il tuo profilo su di un foglio bianco, nello spazio di qualche minuto, come feci allora... Non era quella una maniera di "riconoscerti"? Seppure inconsapevolmente."
Senza parole. Come in certi adorati vecchi film.
In effetti, fu forse quello il momento a partire dal quale mi trovai "disarmata". Come lo sono adesso, come probabilmente sarò nei mesi e negli anni a venire, nelle future stagioni. Poiché da tempo ho messo via pistole e fucili, e con essi ogni altro tipo d'arma. E forse, ancora prima di rinunciarvi, ho esaurito le munizioni.
Le campane della vicina chiesa annunciano la messa delle sei. Ripenso alle bambine. Tra poco dovrò andare.
Mi chiedo perché un uomo come lui non abbia mai avuto figli. E finalmente viene alla luce la domanda che esitava a salirmi sulle labbra. Forse perché troppo indiscreta, troppo diretta.
"Roberto... tu sei felice?"
Segue una pausa di silenzio, lunga: è evidente che lui non trovi le parole per esprimere tutto quanto, nonostante abbia tanto da raccontare.
Perché mi sento confortata, intimamente "soddisfatta" per questa sua esitazione? Probabilmente perché era quello che desideravo, perché ancora prima di formulare la domanda, speravo in una sua risposta negativa.
Poi la voce grave di lui, poche parole come passi a tentoni nel buio.
"Sono felice che mia madre sia morta".
Lui non mi vede adesso, non mi sta guardando. Non può leggere sul mio viso lo sguardo appeso, come impiccato a una corda.
"Che sia morta prima di me".

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