Pubblichiamo integralmente (comprese le "note") la prima parte dell'interessantissima Relazione prodotta dal professor Costa e consegnata alla "Commissione speciale per la Revisione e Attuazione dello statuto della Regione", recentemente sciolta dal Presidente dell'A.R.S.. Nei prossimi giorni saranno pubblicate le restanti due parti ("Motivazioni giuridiche" e "Considerazioni politiche ed istituzionali").
Relazione (parte I)
Motivazioni storiche, giuridiche e politiche alla base della richiesta di riattivazione dell’Alta Corte per la Regione Siciliana[1]
Premesse storiche
L’articolo 116 della Costituzione della Repubblica italiana riconosce alla Sicilia, come ad altre quattro regioni periferiche, “forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale”.
Tale riconoscimento, nel quadro dell’ordinamento repubblicano, non costituisce insidia all’unità politica dello Stato né privilegio che intacca il fondamentale principio di uguaglianza tra i cittadini sancito all’art. 3 della stessa Costituzione, o, quanto meno, non può essere questa né la ratio alla base dello stesso né il modo di dare allo stesso attuazione. L’autonomia, tanto quella originariamente prevista dalla nostra Carta Costituzionale, quanto quella progressivamente in corso di maturazione negli anni che stiamo vivendo, tanto quella ordinaria quanto quella differenziata, unisce piuttosto l’Italia nelle pari opportunità e nel pari diritto di cittadinanza. Il federalismo, correttamente inteso, fondato sulla responsabilità, è una risorsa per il Paese che ha sempre trovato in Sicilia un terreno particolarmente fertile per ragioni strutturali che costituiscono una costante politica dalla quale nemmeno oggi si può prescindere.
Persino Mazzini riconobbe, pur sostenitore di un repubblicanesimo unitario e centralista, che la Sicilia doveva avere forme peculiari di autonomia conformi alle proprie secolari tradizioni parlamentari e di autogoverno. Lo stesso Cavour, che pure per motivi tattici diede forma al primo Stato italiano secondo il modello centralistico francese, dichiarò che la Sicilia era l’unica Regione d’Italia ad avere tradizioni di libertà persino nei secoli dell’Antico Regime e quindi riconobbe, almeno sul piano del principio, il suo diritto ad avere forme decentrate di governo e di legislazione. Garibaldi, infine, per limitarsi a questi “padri” riconosciuti dell’Italia unita, quale primo atto dopo lo sbarco in Sicilia pose addirittura l’indipendenza dello Stato siciliano dalla monarchia duosiciliana, considerata unanimemente illegittima ed usurpatrice da parte dei patrioti siciliani. Egli richiamò in vigore i provvedimenti legislativi ed amministrativi dello Stato di Sicilia indipendente (quelli del periodo 1848-49, che a loro volta avevano richiamato in vigore ed erano in continuità giuridica con quelli precedenti al 1816, relativi al Regno di Sicilia[2]), con il decreto di Alcamo del 17 maggio del 1860. Lo stesso Governo della Dittatura Siciliana tentò senza successo di convocare regolare General Parlamento del Regno di Sicilia per decidere le forme e i modi della confluenza della secolare Corona Siciliana nella piú grande Patria Italiana. La condizione storica e istituzionale speciale della Sicilia tenne banco sino addirittura al 1862, quando malauguratamente si decise per la definitiva e totale confluenza del Governo della Luogotenenza (vero embrione di Stato, con tanto di ministeri delle finanze e degli interni separati) nella compagine strettamente unitaria dello Stato italiano, con vero tradimento di tutte le aspirazioni al contempo unitarie ed autonomiste dei politici siciliani di ogni colore (democratici garibaldini, liberali moderati e cattolici “regionisti”).
Si riprendono oggi questi lontani fatti istituzionali perché l’Italia è considerata la patria del diritto e le violazioni dei diritti naturali dei Popoli sono un “passato che non passa”, foriero di contraddizioni che, lasciate incancrenire, non daranno mai diritto ad un “fatto compiuto”, come del resto la turbolenta storia siciliana di questi ultimi centocinquant’anni ha ampiamente dimostrato.
Non è un caso fortuito che oggi l’Assemblea parlamentare dei Siciliani sieda in quello che fu il Palazzo Reale degli Altavilla, sovrani del primo stato parlamentare al mondo: la nostra Assemblea non è, infatti, solo un “Consiglio regionale” un po’ speciale; essa è anche la diretta e legittima erede del piú antico Parlamento del mondo, ciò che dovrebbe essere vanto e orgoglio non solo per i Siciliani bensí per i cittadini dell’Italia tutta.
Non è quindi solo per gli evidenti motivi strutturali di massima attualità che la Sicilia mantiene tutto il proprio diritto all’Autogoverno ed a forme parziali di sovranità, motivi demografici, geografici, economici, fin anche etno-antropologici; essa mantiene questo diritto per una peculiarissima storia che ne tesse l’identità, culla della stessa lingua italiana e della patria considerata patrimonio comune. Sopprimere queste radici dell’italianità non potrà mai portare a niente di buono per l’Italia tutta. E per un Paese, la Sicilia, che è “piú di una Regione e meno di una Nazione” (non è nostra questa celeberrima definizione) la presenza di uno “stato regionale” in rapporto federativo con lo Stato italiano appare nient’altro che lo sbocco naturale delle cose, nient’altro che un dovere per chi ha la massima responsabilità della Cosa pubblica.
Già nel 1130 fu convocato da re Ruggero II in Palermo il primo Parlamento al mondo. Ma è solo con la rivoluzione nazionale del Vespro (1282-1302) che la monarchia siciliana si trasforma compiutamente in un ordinamento costituzionale moderno, temperando definitivamente il potere del sovrano, tanto in politica estera, quanto nella legislazione, quanto, infine e soprattutto, nella potestà tributaria, con una vera e propria carta costituzionale, sebbene questa fosse costituita dalla somma di piú documenti e non da un documento unitario come sarebbe poi avvenuto in epoca piú recente.
Quest’architettura istituzionale sarebbe rimasta unica[3] in Italia sino all’alba dell’Età contemporanea, e mai dimenticata da storici, patrioti e persino comuni cittadini siciliani. Tutti i re, sempre piú spesso stranieri nel tempo, che si trovavano a cingere la Corona di Sicilia, dovevano prima giurare fedeltà alle Costituzioni e Capitoli del Regno. E il principio, solennemente sancito nel Vespro, che nessun tributo si sarebbe mai potuto elevare in Sicilia senza il consenso dei rappresentanti della “Nazione Siciliana” – come dicevasi allora – ha sempre risuonato nei secoli, sino al dibattito interno ai lavori di quella Consulta Regionale da cui sarebbe nato l’attuale Statuto speciale. E quella costituzione medievale trovò all’interno di se stessa la forza di evolversi: nel 1812 la Sicilia, primo stato italiano pre-unitario, si diede una costituzione pienamente liberale con un diritto di suffragio persino piú ampio di quello che avrebbe avuto lo stesso Statuto Albertino, e fu lo stesso Parlamento medievale, coi suoi “Bracci”, a darsi funzioni costituenti.
Mai la Sicilia ebbe concessa una Costituzione o uno Statuto! Sua conquista, col sangue, fu la Costituzione del 1296, sua conquista fu quella del 1812, sua fu quella del 1848, sua, infine, fu persino la “Costituzione” del 1946, cioè lo Statuto attuale, conquistato dai Siciliani e poi felicemente riconosciuto dallo Stato italiano.
E poi il Risorgimento.
La Sicilia partecipò attivamente e coraggiosamente allo stesso, riconoscendo maturi i tempi per “non essere piú soltanto” Siciliani, ma ora anche Italiani, in spirito di fratellanza con i Popoli della Penisola.
Ma il Risorgimento siciliano fu sempre indipendentista o, quanto meno, federalista, persino nel 1860 come si è visto. Mai i Siciliani archiviarono la loro storia precedente. Nel 1820, nel 1837, nel 1848 la Sicilia prese le armi intanto per la sola indipendenza e i diritti e libertà dell’uomo, l’ultima volta, però, anche con il Tricolore, a sancire che la Sicilia, pur sovrana, voleva confederarsi alla famiglia dei Popoli italiani.
L’ultima rivolta, quella del 1860, anch’essa spontanea, fu scambiata per conquista, e la Sicilia da allora in poi trattata come una remota provincia d’oltremare piegata da logiche coloniali. Essa, insieme alle Province “napolitane” del Regno delle Due Sicilie, piombò in una Questione Meridionale che mai era esistita prima d’allora, la sua economia asservita alle logiche dei “nuovi padroni”, la sua industria, autonoma e fiorente sino all’alba del XX secolo, boicottata e poi distrutta dallo stesso Stato italiano nel nome dei grandi monopoli nazionali, il suo nome infangato, per la prima volta nella storia, da quei briganti che avevano appoggiato ogni repressione in cambio della loro impunità e del controllo sulla vita politica e sociale dell’Isola: nasceva cosí la mafia, regalo avvelenato di un processo politico unitario che cosí tante speranze aveva suscitato negli spiriti piú nobili di questa Terra.
Non si farà qui il “libro nero” del Regno d’Italia in Sicilia, perché troppo lungo sarebbe il conto delle nefandezze che furono compiute contro di essa in quell’infausto periodo e mai riparate, anzi forse talvolta aggravate, nella piú recente storia repubblicana.
Scegliendo solo fior da fiore si ricordino appena le repressioni dei contadini di Bronte già nel 1860, la confisca delle riserve del Banco di Sicilia, la revoca della convocazione del Parlamento e l’organizzazione, in sua vece, della farsa del cosiddetto plebiscito, la confisca senza nessun ritorno in Sicilia dell’immenso patrimonio delle Corporazioni Religiose, in realtà veri e propri enti previdenziali e assistenziali di categoria dei tempi, la repressione sanguinosa della Rivolta del Sette e Mezzo di Palermo (1866), la rinuncia unilaterale all’autonomia[4] della Chiesa di Sicilia nella “Legge delle guarentigie” (1871), le continue proclamazioni di stato d’assedio e di governo militare dell’Isola che si protrassero sino al 1895, la repressione nel sangue della sacrosanta protesta popolare e contadina dei Fasci Siciliani e via via – si omettono dettagli solo per ragioni di spazio – sino alla chiusura della Corte di Cassazione nel 1922[5], alla perdita del diritto di emissione per il Banco di Sicilia nel 1926[6], alle epurazioni fasciste dei soli funzionari siciliani nel 1940 e della “strage del pane” nel 1944.
Da tutto ciò, all’indomani della disfatta italiana nel secondo conflitto mondiale e dell’occupazione alleata dell’Isola, nacque un nuovo moto, non sempre pacifico, volto a riparare questi danni, in parte nel segno del piú netto separatismo e della volontà di recidere ogni legame con l’Italia, ma per la restante parte volta a recuperare le ragioni dell’Unità d’Italia nel quadro di una forma ampia di autogoverno che peraltro era stata piú volte teorizzata – si ricordi almeno la figura di Luigi Sturzo – o timidamente tentata, come con il “Commissariato Civile per la Sicilia” del Di Rudiní nel 1896/97. Si rammenti che nessuna parte del mondo politico siciliano del Dopoguerra pensava realisticamente ad una unione pura e semplice come quella degli anni precedenti, quando persino la destra del neonato Movimento Sociale Italiano, di tradizione naturalmente unitaria, sposò la causa dell’Autonomia siciliana e, all’altro estremo dello schieramento politico, lo stesso fecero persino le sinistre marxiste del PCI e del PSI che del separatismo erano state le piú fiere avversarie.
La richiesta di Autonomia e i relativi progetti furono espressione di un sentimentounanime del Popolo siciliano. Tutte le componenti politiche, ad eccezione di quella indipendentista, erano direttamente rappresentate nella Consulta Siciliana e tutte chiesero e praticamente imposero la soluzione autonomistica che, sulla carta almeno, ad oggi è ancora vigente. Il fatto che formalmente la Consulta non fosse stata eletta, bensí nominata dal Governo dello Stato, non incide sostanzialmente sul fatto che essa si fosse data funzioni costituenti. Il fatto che gli indipendentisti, i soli indipendentisti, non fossero in essa presenti (ed anzi qualcuno di loro, rivelatosi tale, fu costretto alle dimissioni da quell’organo) potrebbe distorcere la rappresentatività del Popolo siciliano solo nel senso che la Consulta sarebbe statatroppo poco autonomista e mai troppo, semmai al Popolo siciliano fosse stata data possibilità di esprimersi liberamente in quegli anni.
In una parola l’Autonomia Siciliana è frutto del principio universale diautodeterminazione dei popoli ed è stata letteralmente conquistata dal Popolo Siciliano, e non graziosamente concessa dallo Stato centrale come talune interpretazioni formalistiche vorrebbero accreditare.
Essa fu nella forma un atto unilaterale del governo italiano, ma nella sostanza fu un patto vero e proprio.
Che la Sicilia fosse diventata una realtà geo-politica distintamente individuata lo si evince dal passaggio dell’amministrazione della stessa dall’AMGOT delle forze alleate allo Stato italiano nel febbraio del 1944, cui si aggiunse, in modo praticamente contestuale, l’istituzione dell’Alto Commissariato Civile per la Sicilia, primo nucleo di un’amministrazione autonoma dell’Isola che avrebbe guidato la nascita delle nuove istituzioni autonomistiche. La Consulta Regionale, a questo Commissariato annessa, si diede funzioni di Assemblea Costituente con apposita Commissione, forse anche andando al di là della missione per la quale era stata istituita. La Consulta partí da un primo canovaccio che era già stato presentato agli alleati e che prevedeva una sorta di vera e propria confederazione tra Sicilia e Italia (il noto Progetto Vacirca). Questo fu poi moderato appena nella forma dal compianto Guarino Amella[7] e, infine, tenendo conto delle pressioni verso un piú forte legame con la Penisola, convogliato in quel progetto Salemi che poi sarebbe diventato definitivo.
Con pochissimi emendamenti da parte della Consulta e del Consiglio dei Ministri italiano quel testo divenne legge costituzionale il 15 maggio del 1946, prima ancora quindi che si fosse tenuto il referendum istituzionale sulla forma di stato che avrebbe dovuto assumere l’Italia e prima ancora che l’Assemblea Costituente iniziasse i propri lavori. La Repubblica Italiana, cosí, trovò la Sicilia autonoma in eredità dal Regno d’Italia e doveva soltanto inquadrare questa forma eccezionale di autogoverno nella nuova forma di stato.
NOTE:
[1] La presente nota è stata curata dal Prof. Massimo Costa dell’Università degli studi di Palermo.
[2] Il quale – si ricorda – aveva tradizioni plurisecolari: era stato proclamato nel Natale del 1130 per trasformazione della precedente “Gran Contea di Sicilia” sulla formale motivazione giuridica che nell’Antichità esso era stato già un regno prima della dominazione romana e che, come tutte le Province dell’Impero, non aveva fatto parte dell’Italia augustea (la quale ultima invece era “non provincia sed domina provinciarum”, come recitava il Corpus Juris di Giustiniano, da cui il celebre epiteto dantesco di “Donna di province” di cui al VI canto del Purgatorio) ed era quindi potenzialmente paese a sé nella concezione giuridica medievale. Lo stesso, dopo la breve (1266-1282) usurpazione angioina, era stato restaurato con la Rivoluzione del Vespro (1282-1302). Fra gli stati italiani pre-unitari il Regno di Sicilia assolse a lungo il ruolo di grande potenza nel Medio Evo, ma ancora nei ristretti confini della “Trinacria”, succssivi al Vespro, fu capace di rilevante politica estera propria fino alla seconda metà del Trecento. Nel Quattrocento andò in unione personale con l’Aragona e perse la piena sovranità in politica internazionale ma rimase sovrano e indipendente nel proprio ordinamento interno sino all’epoca napoleonica quando riacquistò per breve periodo la propria libertà sotto la protezione della Gran Bretagna. Un decreto incostituzionale e illegittimo ne avrebbe decretato infine la fusione con il Regno di Napoli l’8 dicembre del 1816, quando nacque il Regno delle Due Sicilie.
[3] Se si eccettua, non a caso, l’esperienza sarda, che conobbe pure un’esperienza parlamentare, dai poteri piú ristretti, dal XIV secolo sino al 1847 quando il locale parlamento isolano fu sciolto per confluire l’anno dopo nel primo parlamento liberale previsto dallo Statuto Albertino per gli Stati Sardi (il c.d. Piemonte) nei quali il Regno di Sardegna insulare definitivamente confluiva.
[4] La Chiesa Cattolica di Sicilia era stata proclamata autocefala già ai tempi dell’Impero Romano d’Oriente (VIII secolo) e quindi sottratta tanto alla giurisdizione romana, che era stata propria dei primi secoli successivi all’era delle catacombe, quanto a quella Costantinopolitana che le era seguita. Tale autocefalìa fu confermata dalla bolla di Papa Urbano II del 1059, allorquando la Sicilia si apprestava ad uscire dal dominio musulmano, mediante la c.d. Apostolica Legazìa che sottraeva al Papa stesso ogni giurisdizione interna alla Chiesa di Sicilia all’infuori delle materie di fede. Tale organizzazione poneva il Re di Sicilia quale capo della Chiesa e tali furono tutti i sovrani di Sicilia, sino persino a Garibaldi, che volle presiedere ai festeggiamenti in onore di S. Rosalia nella qualità di Legato Apostolico e, poi, di Vittorio Emanuele II, appunto sino al 1871.
[5] La corte di terza istanza, attraverso vari cambi di denominazioni, risaliva alla Magna Curia di epoca normanna; lo Statuto del 1946, peraltro, teoricamente l’avrebbe ripristinata all’articolo 23, disatteso come quasi tutta la Carta in parola.
[6] Anche la perdita della Banca centrale, e con essa del diritto di emissione, di per sé non incompatibili con l’unità valutaria del Paese, colpiva un diritto e un’identità di cui i Siciliani avevano sempre goduto: quello di battere moneta. Persino sotto l’autorità imperiale dell’Antichità e del Medioevo bizantino non si erano privati i siciliani del diritto di compiere emissioni di secondo livello (argentee), mentre alla chiusura della Zecca di Palermo (1834) era seguita di lí a poco (anni ’40 del XIX secolo) la facoltà di emettere moneta cartacea, dapprima sotto la forma imperfetta dei titoli apodissari, e poi, dal 1866, sotto forma di vere e proprie banconote. Anche queste funzioni monetarie e valutarie sarebbero state in piccola parte restaurate dal successivo Statuto, all’art. 40 questa volta, ovviamente restato anche in questo lettera morta.
[7] Il Guarino Amella, liberale di area demo-laburista, fu autorevole Consultore e componente della Commissione ristretta per l’approvazione dello Statuto Speciale. Fu poi primo Presidente della Commissione paritetica Stato-Regione per l’emanazione delle norme attuative dello Statuto sino alla sua improvvisa e prematura scomparsa nel 1949. È considerato praticamente il “Padre” dello Statuto Speciale siciliano.
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