venerdì 3 dicembre 2010

L'arte e la riproducibilità del reale. Alcune considerazioni sulle relazioni tra manierismo e arte contemporanea

di Enzo Barone

Leggendo un saggio recente sul manierismo di Andrea Baldinotti possono tornare utili alcune considerazioni intorno al pensiero dell’autore. Considerazioni di una certa rilevanza per una riflessione, anzi per una delle riflessioni fondamentali che ogni genere di estetica si pone di fronte al prodotto artistico.
Il rapporto tra la realtà e la sua riproducibilità, non solo nel campo artistico, ma anche in ambito letterario ad esempio.
L’autore, e questa è una cosa già nota, afferma che l’arte manierista, mutando decisamente orientamento rispetto al primo Rinascimento, si pone il problema della rappresentazione della realtà in nuovi termini.

Non si pone cioè più l’obiettivo di rappresentare la realtà il più fedelmente possibile, in modo mimetico: viene superata la consueta soglia della percezione, acquisizione e riproduzione epidermica di essa (pur corretta dai canoni di armonia e proporzioni classiche); si va oltre, ad un livello di penetrazione profonda del dato visivo, di identificazione quasi tra osservatore-artista e realtà rappresentata. L’artista cioè, afferma il Baldinotti, non rappresenta la realtà, ma la supera, va al di là. 
Questo risulta evidente soprattutto osservando ad esempio la evanescente e intangibile pittura sacra di Pontormo o in altrimenti gli smalti smaglianti e irreali del Bronzino.

E’ noto a questo proposito quante analogie negli ultimi decenni abbia fatto rilevare la critica artistica tra il manierismo storico e i manierismi moderni e, più in generale, tra quell’epoca artistica e l’arte contemporanea.
La tensione verso l’innovazione formale; la volontà di violare la regola data come limite oppressivo; la ricerca di modalità espressive mai sperimentate; l’immedesimazione empatica col sentire dei personaggi, col dramma che si narra; la volontà soprattutto di portare avanti un’arte che basta a se stessa, che vive e si nutre di leggi proprie: questi alcuni dei parallelismi più evidenti tra le due epoche.
E soprattutto, fatte naturalmente le debite distinzioni riguardo alla consapevolezza critica e le intenzioni comunicative degli artisti del manierismo, è percepibile la comune esigenza di superare l’assunto vecchio di secoli dell’arte come mimesi in senso stretto. La schiavitù dell’arte, ancillare ad un’unica funzione, quella rappresentativa. Rappresentativa soltanto della superficie del visibile.
Allora la questione si fa più interessante. Visto che nel corso della storia dell’arte questo ha negli ultimi centocinquant’anni via via assunto le dimensioni di problema estetico fondamentale: quello di sfuggire da una riproduzione naturalistica vincolante, esteriore, esclusivamente in termini visivi del mondo.
Facciamo un po’ d’ordine, restringendo le considerazioni al campo della pittura.
Dopo “i secoli bui” del medioevo, dal ‘400 almeno fino alla metà dell’800 i pittori europei, credendo di essere continuatori dell’idea della mimesis greca, sul piano metodologico e su quello formale hanno indirizzato la loro ricerca fondamentalmente verso un solo obiettivo, quella di un progressivo avvicinamento verso una sempre maggiore aderenza nella imitazione della natura, nella sua riproduzione fedele. Come se l’unica modalità con la quale rapportarsi al mondo fosse quella puramente rappresentativa. Con un’unica vera eccezione: il manierismo appunto.
Mettiamo al confronto su questa questione l’eterodossia manierista e quella moderna.
Andrea del Sarto, il Pontormo, Rosso Fiorentino o il Parmigianino hanno la sfortuna di dipingere dopo che i grandi del rinascimento hanno detto tutto quello che di più compiuto e risolto si poteva dire in termini artistici, esaurendo o quasi il campo della sperimentazione nell’ambito dell’arte rinascimentale.
Per di più essi vivono il terremoto della riforma, la fine della stabilità politica italiana, la scoperta dell’America e il tramonto dell’eurocentrismo, la violazione di Roma del 1527, insomma la fine di un epoca, la fine del mondo, del loro mondo.
Per questi pittori quindi era un po’come se sfuggire alla tradizionale maniera di imitare la natura fosse una necessità, la necessità di non volere riprodurre il mondo conosciuto, ma di crearne uno nuovo, perché il vecchio ormai non c’era più.


O, detta anche in altri termini, se cambia il mondo, deve cambiare anche il modo di rappresentarlo.

Ma riannodiamo il montaggio del ragionamento ritornando alla sequenza sull’arte moderna.
Parlavamo prima del percorso dell’arte dal ‘400 alla metà dell’800, dominato dalla concezione costante e tecnicamente sempre perfettibile di arte uguale a mimesi del reale, con l’unica soluzione di continuità rappresentata, dicevamo, dal manierismo,.
Quando si interrompe questo percorso ? Esistono varie tappe.
Nella prima, con l’Ecole di Barbizon,  l’interruzione avviene nel momento in cui ci si accorge che per secoli in realtà non si è veramente guardata la natura, il mondo visibile.
Si credeva di imitare la natura, ma in verità si andava dietro ad una sua rappresentazione, cioè ad una sua riproduzione convenzionale, mentale, a priori, mediata da infiniti processi intellettuali che la istruivano sottoponendola alle forche caudine dell’armonia, delle proporzioni, della compostezza, del buon dipingere classicista insomma.
E che quindi sarebbe stato il caso forse di imbarbarire la pittura, scendendo in mezzo alla natura, mutando il modo di osservarla oppure osservandola semplicemente così com’è, senza un modello mentale preordinato. Restituendone una visione destrutturata, volutamente più ingenua, frutto di un rapporto in termini sostanzialmente ottici tra soggetto e oggetto.
In formule: io credo ancora ad una realtà fuori di me, essa esiste, ma è cosa ben diversa, un mondo vergine, quasi ignoto, rispetto alla riproduzione fattane nei secoli passati.

Seconda tappa: nella seconda metà dell’800 l’invenzione della fotografia e più in generale il progresso scientifico pongono l’artista davanti ad un quesito. Ha più qualche senso porsi il problema del fare artistico nei termini, benchè rivisitati dell’impressionismo, di rappresentazione del reale ?
Dopo secoli di tentativi di mimesis il pittore, anche quello realista, può veramente dire
Di riprodurre la realtà ? Può esistere una pittura capace di autentica fedeltà visiva al vero con i suoi mezzi o delle altre tecniche ? Esiste davvero sul piano formale un’arte veramente realistica ?
E cos’è la realtà, quella presentata con tanta sorprendente e scientifica verità dalla fotografia ?
Ma anche la fotografia è uno dei tanti strumenti della sua riproduzione, forse più minuzioso ed esatto nell’indagine, ma niente più. Perché il vero problema non sta nel supporto, qualunque esso sia, che ripete ciò che è davanti al nostro occhio, ma nel nostro occhio, che decodifica e legge il reale. E ne fa una sua rappresentazione mentale probabilmente arbitraria, a sua necessità.

Arriviamo infine al terzo passaggio della questione. A questo punto, trattando del rapporto tra artista e riproduzione del reale, possiamo recuperare l’atteggiamento manierista circa la fine del loro mondo; esso trova un evidente parallelo ad esempio nella cultura e nell’arte del ‘900.
Il novecento, profeticamente annunciato dalla rivoluzione delle avanguardie, il secolo delle grandi tragedie storiche, anzi della tragedia del fallimento della civiltà occidentale, il secolo delle guerre mondiali e dell’annullamento di massa di intere nazioni, il secolo che ha per la prima volta posto la questione dell’olocausto universale, pone l’intellettuale in una condizione di spirito paragonabile a quella dell’uomo di cultura degli anni ’30 del ‘500.
Leger, Picasso, Boccioni, Mondrian o Pollock vivono una condizione di smarrimento e straniamento rispetto al mondo analoga, e forse anche più devastante, rispetto a quella vissuta da Giulio Romano o al Pontormo. Con in più alle spalle un processo di sfaldamento della fede nel reale arrivato alla consumazione dell’ultimo passaggio.
Come interpretare l’informale astratto di Pollock, lo spazialismo di Fontana, le deformazioni di Otto Dix, il realismo magico di Casorati all’interno della questione del rapporto tra artista e realtà ? Di là dal complesso ordito di inferenze culturali e dell’ardita elaborazione concettuale del contesto che produce queste correnti, vi è una similitudine col manierismo, ma anche una degenerazione di quell’idea.
L’artista riproduce il reale in modo deforme, arbitrario, totalmente incongruo, spesso allude appena ad esso, fluttuando in un universo assolutamente autonomo di forme e immagini, non perché il reale non può essere rappresentabile con i mezzi dell’arte o perché non vuole riprodurre il mondo conosciuto, ma perchè desidera crearne uno nuovo, sapendo che il vecchio ormai non c’è più.
Niente più che questo, o meglio, anche e molto più che tutto questo.
Perché tra i termini della relazione tra soggetto e oggetto viene meno uno dei due. L’artista non ha più interesse ad una relazione con il mondo positiva, di una dialettica costruttiva tra artista e natura-riproducibile, perchè non crede ormai più nella realtà, non crede più che esista una realtà, una realtà-oggetto, una realtà-natura, una realtà-storia, pensabile sul terreno di una logica razionale, di un senso compiuto in termini di agire umano


3 commenti:

  1. mi sembra uno studio complesso e affascinante, le cui implicazioni metafisiche riguardano il rapporto dell'uomo con la realtà in generale... a te il merito di aver mosso il primo passo, sul piano della rappresentazione artistica; anche se per cenni, hai ricostruito sinteticamente le tue impressioni sul rapporto estetico soggetto-oggetto fino all'espressionismo, complimenti. guido

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  2. Ho trovato molto interessante questo articolo.
    Mi piacerebbe rintracciare il saggio di Baldinotti: quale sarebbe il titolo?
    Grazie.

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  3. Era in ART dossier dell'ottobre 2010 edizioni Giunti

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