lunedì 25 novembre 2013

L'orologio

by Irene Fiordilino

Tic. Tac.
Tic. Tac.
Sto per impazzire, l'incessabile ticchettio dell'orologio, l'orologio che non si vede, l'orologio nella stanza, l'incessabile ticchettio mi perseguita ogni notte.
Sto per impazzire.
Ho comprato questa casa in centro storico non più di tre mesi fa, a metà del prezzo che credevo valesse, in realtà unicamente al prezzo della mia salute. Me l'ha venduta un uomo grezzo, sulla sessantina, pieno di debiti. Volevo farci il mio studio, uno studio ampio e luminoso in cui poter dipingere ed esporre i miei quadri liberamente. È per questo che per dormire ho scelto la stanza più piccola tra tutte, una stanza tanto piccola che la mia ex moglie non l'avrebbe giudicata sufficiente nemmeno per il ripostiglio.
La stanza si trova all'ultimo piano dell'edificio, e non è segnata nella piantina della casa. Sopra, sul tetto, sta la terrazza invasa dai piccioni. L'ex proprietario dice che non esisteva, che era murata, la mia stanza, e che è per questo che non è segnata sulla pianta. Sciocchezze –  gli ho detto io – l'ha ricavata lei togliendo l'ultimo tratto alle scale interne, quello che saliva fino alla terrazza, e allargando leggermente il pianerottolo. Chissà a quanto l'affittava, poi, questo buco.
Adesso alla terrazza ci si può andare solo dalla scala esterna, una pericolante ferraglia arrugginita che trema col vento.
Tic. Tac.
Ogni tic sbatto una palpebra, ogni tac sbatto l'altra. È così che passo le notti ormai, incapace di chiudere entrambi gli occhi insieme e addormentarmi. Ho provato a dormire al piano di sotto, nello studio, sul divano, ma la situazione non è migliore. Il ticchettio dell'orologio trapassa muri e pavimenti.
Le pareti della mia camera avevano una carta da parati azzurra, molto bella, un regalo di un amico. Dico “aveva”, perché in una di queste notti deliranti l'ho tutta raschiata, con le unghie e poi con qualsiasi oggetto appuntito mi capitasse tra le mani. Ho raschiato tutte le pareti in cerca dell'orologio, perché so che l'orologio c'è, io sento l'orologio.
A volte passo ore a tastare le pareti umide con l'orecchio per cercare il punto esatto da cui si diffonde l'insopportabile rumore, ma ogni volta che mi sembra di averlo localizzato e comincio a scavare il cemento compatto, con un piccolo scalpello da scultore, esso mi sfugge.
Ha piovuto tutto il giorno, la prima grande pioggia della stagione, la prima che vivo in questa nuova casa. Ho scoperto che la terrazza non ha un sistema di scolo, che l'acqua vi si accumula dentro e che il tetto ne è saturo. Grandi chiazze di umidità hanno già contribuito a scrostare l'intonaco degli angoli e a far marcire la sfortunata carta azzurrognola, adesso d'un putrido colore indefinito.
Mi chiedono perché non lascio questo posto, cosa ci trovi ancora in questo buco che trasuda acqua e fa venire il malditesta. È semplice  – rispondo io – non trovo l'orologio.
Sento un rumore al piano di sotto. È stato un tonfo, credo. Adesso un sibilo, sì, mi sembra sia un sibilo. Tendo l'orecchio ma il suono non smette. Il ticchettio lo sovrasta ad intervalli regolari. Mi alzo dal letto e mi accosto alla porta, un tuono abominevole squarcia il silenzio oscurando per pochi attimi anche il ticchettio. In lontananza scatta una allarme. Resto in ascolto, mi concentro sui rumori della casa ma il sibilo sembra scomparso. Accosto ancora di più l'orecchio alla porta, qualcuno bussa.
Il mio orecchio rimane incollato alla porta, non sono capace di muovermi. Sento il sibilo ricominciare attraverso il legno sottile, mi sembra anche di avvertire un respiro lento e profondo, ritmico.
Sento qualcosa muoversi, dietro la porta, un rumore leggero e confuso. Trattengo il fiato. Qualcuno poggia qualcosa proprio in corrispondenza del mio orecchio, dall'altra parte.
Tic. Tac. È un orologio. Sento il nuovo ticchettio sovrapporsi al primo, solo una frazione di quarto di secondo li separa. È un orologio.
Urlo, cado a terra, svengo.
Sogno di essere legato a un gigantesco disco bianco. Intorno non vi è nulla, un nulla privo di senso e totalizzante, che non so descrivere. Vedo una sagoma nera alla mia  sinistra, lunga e sottile, immobile, la sua origine è al centro del disco. Un rumore assordante e ritmico, che fa tremare tutto intorno a me, viene da qualcosa alla mia destra. Mi volto e vedo una sagoma nera in tutto simile a quella alla mia sinistra, solo un po' più lunga. Cerco di capire da dove provengano quei colpi furibondi, ma entrambe le lunghe figure mi impediscono di vedere al di là. Eppure il rumore si avvicina, è sempre più intenso. A un tratto lo riconosco, lo riconosco dall'inconfondibile intervallo di tempo che si frappone fra una scossa e l'altra: è un ticchettio. Ed  ecco che la vedo, una sottile lancetta rossa, affilata come una lama, che supera la lancetta alla mia destra e si avvicina imperterrita verso di me.
Ancora pochi secondi e ne sarò falciato.
Tic.
Tac.
Tic.
Quando mi sveglio respiro affannosamente, ogni boccata scuote violentemente il mio petto. La porta dietro di me è aperta.
Tutto sembra a posto, nulla è in disordine. Lancio uno sguardo verso la finestra, mi sembra di scorgere una figura bianca dietro il vetro oscurato dalla pioggia abbondante. Mi precipito a guardare, ma non vi è nulla: solo la scala di ferro sbatacchia fragorosamente, minacciando di sganciarsi ad ogni raffica. Appena mi volto, e guardo nuovamente verso la direzione della porta, mi accorgo che una X è stata segnata alla destra dello stipite.
Il ticchettio sembra adesso provenire esattamente dal punto segnato sul muro.
Afferro il mio scalpello e comincio a scavare, incapace di pensare, guidato dall'ipnotico ritmo sempre uguale. Scavo per ottomilacinquecentotrentasette tic e tac, scavo e qualcosa trovo.
Trovo un orologio. Un minuscolo orologio argentato incastrato nella parete, a profondità. Infilo il braccio nella lunga e sottile apertura che ho creato e lo afferro: è freddo, ma non riesco ad estrarlo dal cemento, qualcosa lo trattiene ancorato al muro.
Comincio a scalpellare tutto intorno, cercando di allargare il buco per aggirare, scavando da un'altra parte, la misteriosa forza che mi impedisce d'ottenere l'oggetto della mia ossessiva, malata ricerca. 
Adesso il buco è tanto ampio che posso entrarvi io stesso. Gli occhi mi brillano di un'eccitazione incontrollabile, ma nel momento in cui finalmente riesco a stringere tra le mie mani il malefico marchingegno mi accorgo della più angosciante, sconvolgente, orribile delle caratteristiche di esso: l'orologio non funziona. Immobili le sue lancette mi sorridono beffarde da un “07:30” inamovibile, eterno.
Tic.
Tac.
Mi volto, esattamente di fronte a me vi è una figura antropomorfa ma non umana, tra le mani ha un orologio. Le lancette tra le sue dita scorrono tranquille, ticchettando, prendendomi in giro.
La nicchia entro cui mi sono infilato è profonda: troppo ho scavato per quelle vecchie pareti argillose, e troppo presto vedo adesso il muro davanti a me richiudersi come il coperchio di una tomba. Una risata disumana si solleva, sovrastando il tumulto della casa che crolla.
Tic. Tac.
In mano stringo ancora l'orologio, fermo.


3 commenti:

  1. cara irene sono la prof laura mi è piaciuto il tuo racconto sembra di leggere e.a. poe mi piace molto il senso del mistero che è sempre presente nei tuoi scritti e poi lo stile...è inconfondibile! brava!

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