di Raimondo Augello
Pochi giorni addietro avevamo
pubblicato un articolo in cui commentavamo la scelta del giudice sportivo di
sanzionare la tifoseria milanista, recidiva per i suoi cori razzisti nei
confronti dei napoletani, con la chiusura per un turno di San Siro. Il titolo
del pezzo, ispirato ad una speranza tuttavia frenata da una certa dose di
ironica diffidenza era “L’Italia s’è
desta (ed era ora)”. A chiusura dell’articolo, infatti, avevamo manifestato
il timore che la Lega Calcio non trovasse la forza per applicare la misura
repressiva decretata, intimidita dalla quasi unanime ribellione al
provvedimento che ha visto solidali con
la società rossonera quasi tutte le tifoserie d’Italia e gli stessi presidenti
di parecchie società.
Ebbene, quanto paventato è puntualmente accaduto: la Lega
Calcio, tornando sui suoi passi, ha revocato il provvedimento ricorrendo,
riguardo al reato di “discriminazione territoriale”, all’escamotage
di applicare il principio della condizionale. Cioè a dire, se si dovessero
verificare cori discriminatori la chiusura dello stadio scatterà soltanto dopo
un anno, a patto però che l’episodio si ripeta altre volte nel corso dell’anno
in questione. Detto e fatto: con applicazione immediata e retroattiva del
principio sancito, sabato 19 ottobre Milan-Udinese, prevista a porte chiuse, si
è svolta invece con tutti i settori dello stadio aperti al pubblico, curva
compresa. Non credo che serva molto soffermarsi a commentare una tale scelta e
a dire quanto essa si traduca in un segnale di debolezza nei confronti delle
frange peggiori del nostro tifo: si tratta di un preciso atto di capitolazione
di fronte ad un fenomeno, come già illustrato, diffuso da decenni e sinora
tollerato con compiacente disinteresse da parte di chi avrebbe potuto e dovuto
provvedere a reprimerlo da tempo. Un atto di capitolazione che di fatto
consegna gli stadi e le società di calcio stesse, spesso così indulgenti verso
le pose dei propri ultras, al ricatto che viene dal peggio delle proprie
tifoserie e ai rigurgiti più beceri che sgorgano dalla più elementare gestione delle sue
pulsioni. Evidentemente, per fatti di
tal genere il principio della responsabilità oggettiva, da sempre un dogma per
la giustizia sportiva, non vale a nulla.
Riflettiamoci: se un balordo decide di lanciare in campo una bottiglietta la
società di calcio, come sempre accaduto, rischia di perdere la partita a
tavolino e di subire la squalifica del campo; se invece ad esempio, come
accaduto lo scorso 5 ottobre a Bologna, duemila tifosi veronesi in trasferta
decidono di violare il minuto di silenzio in memoria dei migranti periti nella
strage di Lampedusa la notte del 3 ottobre, intonando all’unisono una irridente
marcia funebre, si continuerà a parlare di goliardia, di innocente ironia
(naturalmente conoscendo i sentimenti di solidale umanità coltivati dagli
ultras veronesi nei confronti di chi è diverso da sé!).
Quanto ai Napoletani,
continueranno a dover tollerare i cori nei loro confronti. Pazienza! D’altro
canto è da quando il già citato marchese Massimo D’Azeglio li definì “carne che puzza” che ci sono abituati.
In un’Italia dalle poche
certezza sarebbe stato auspicabile che la giustizia sportiva, spesso
dimostratasi più inflessibile di quella ordinaria, ci fornisse qualche
riferimento in più, e invece, anche questa vicenda si è conclusa con modalità
tipicamente italiche, un miserevole gioco delle parti all’insegna di una totale
incapacità di mantenersi coerenti ai princìpi: tutto secondo il copione della
migliore farsa italica.
“Il sonno della ragione genera i mostri”: il
timore è che il sonno indotto della
memoria abbia generato la presunzione che essi siano frutto della normalità.
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