by guido monte
seguiamo il vento che ci ha lasciato il canto di circe, fino a che il sole scompare
e l’ombra ricopre tutto. siamo nell’oceano profondo, nel paese delle nebbie dei cimmeri, popolo della notte. qui scavo una fossa per libare coi morti, dividiamo miele, vino, acqua, farina bianca; poi riempio la buca di sangue nero.
e incominciano a salire dall’erebo le fila dei morti. e giunge tiresia, l’indovino,
e mi dice parole:
sì ulisse, tornerai a casa e i proci punirai con la morte.
allora prepara un remo spianato e parti di nuovo, fino a una terra di gente che non conosce il mare, le navi e il sale. e quando un passante ti chiederà cos’è quel ventilabro che porti sulla spalla, allora sacrifica a poseidone, e torna a casa, dove ti verrà una morte dolce, nel mare.
e subito tiresia sprofonda di nuovo nella casa senza fondo dell’ade.
e mia madre mi accenna del figlio e della sposa, del vecchio padre nei campi,
tutti che attendono il mio ritorno, anche lei che ne è morta d’attese, per la mia mancanza.
poi scorrono infinite anime di quel grigio regno della notte, agamennone ucciso alla mensa della sua casa, che chiede del figlio, e vedo l’ombra di achille, che mi confida
la sua pena di regnare sul popolo dei morti, a cui avrebbe preferito qualunque destino da vivo, anche quello di servo che lavora nei campi di un altro. poi, dopo avergli detto il valore del figlio, lo vedo sparire in quel grigio prato di asfodeli.
ancora una turba infinita di morti, e alla fine torno indietro sulla mia nave, ai compagni, per seguire le onde di oceano, sul soffio del vento.
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