mercoledì 22 gennaio 2014

La scuola

Kandinskij Composizione VI 1913
 

di Enzo Barone

La scuola è grande chiusa in sé arida di nessun colore.
Anzi che sia una scuola nessuno è sicuro: sta da sola, severa e scontrosa in mezzo ad un campo di stoppie.
Sta da sola.
Per arrivarci lascio il piccolo borgo sulla strada grande e mi avanzo a gradi per un viottolo stento, pallido di gelo, annegato dall’ombra di apocalittici tigli.
C’è una vertigine di curve anse strappi da seguire e poi appare da lontano quell’incongruo parallelepipedo, un delirio fattosi cemento.

I campi vuoti gli stanno intorno per dare senso al suo assurdo star lì.
E’ di sette piani, inerte, fuori contesto, edificata a inizio di qualche secolo per essere un luogo di austera presenza. 
Asserisce sé stessa in pietra arcigna, refrattaria e marnosa, come grinzosa la maestra zitella, scialba d’abiti ed ufficiale.
Ha una base di ruvido bugnato, granito inappellabile e scontroso; su un fianco si apre una possente scalinata con un braccio che piega ortogonale al muro e i gradini sono di pietra alti troppo.
E’ di alcuni piani, sette questo lo so, spropositati forse; è regolare respingente, senza aggetti, né decori, né cornici o mensole; solo un blocco allampanato in muratura, non fosse per le finestre, grandi e rettangolari, spicci rettangoli da caserma raggruppati in fasce di tre, con ritmo sorvegliato, tagliate, su un paramento ruvido di calce, con regolarità implacabile ad ogni livello per indagare la piana intorno.
Si entra e subito ecco l’androne immensamente alto: desolato ti sprofonda in una inermità ancestrale.
Dopo la vetrata basculante una scala ingoia un sepolcro di piani, serrata ascesa di incertezza.
Una volta ci andai che c’era luce, ma era poca e fioca, passando strozzata da una coperta di nuvolaglia ferma.
C’ero andato con qualcuno, credo: con una donna avrei voluto, per non sentirmi abbandonato.
Troppo tempo è trascorso o nulla.
Perché ci sono andato?
Dov’è la scuola poi?
Poi qualcuno ci ha chiamati dall’alto, dal fondo, dai cantinati fioriti di colpo, non so da dove.
Devo andare.
Salgo da solo quei gradini e mentre lo faccio da solo, so di averlo fatto sempre così, da solo, da prima che nascessi.
Sento una fitta spietata: la pena senza nome che mi spacca il petto.
Salgo senza rimedio  infeconde scale bianche e senza arrivo.
Girano attorno ad una larga tromba perfettamente quadrata, seguendo con spietata geometria ognuno dei quattro lati delle rampe.
Nessuna irregolarità nell’assolutezza celeste del quadrato, nessuna eccezione: solo l’ intransigenza delle perentorie scale.
Mi ricordo bene che un piano e l’altro erano separati da una distanza immensa e alla fine di ogni rampa, a metà strada, vedevo il finestrone scompartito da divisori di metallo.
Mi fermo davanti ad ognuno e guardo di sotto la piana immobile, le stoppie spente, i profili opachi dei monti, due o tre fattorie tutte intorno all’ampia conca abbandonate coi tetti perlati di brina.
Mi chiedo perché già al primo piano tutto mi sia sembrato così lontano e la distanza cresca troppo ad ognuno, perché tutto giù sembri remoto, ché il palazzo ne aveva solo sette, non di più.

Non c’è nessuno. Ma so pure di dovere andare.
Poi d’un tratto apro – e non lo voglio ! - una grande porta blu e di là c’è la scuola - e non sapevo! - la mia scuola credo.
Passo attraverso un corridoio stretto interminato; si aprono tutte insieme porte sghembe da un lato, dall’altro e poi stanze lunghe e dritte, buie e tristi, assembrandosi, affastellandosi.
Rabbiose si sfasciano una sull’altra davanti a me nel corridoio, corrompono lo spazio.
Sono porzioni d’angoli, frazioni d’interezza, stipiti, segmenti e rette, volumi a spaziarsi in aule; dimensioni oblique al mio passo si incrociano in incoerenti direttrici.
Prospettive spurie si accendono ad ogni metro: cattedre, muffe e gessi, sedie e goniometri, armadi e chewing gum appiccicati ibridano le loro forme e urlano colori sporchi.
Le cose,  contaminati i generi, si diffondono eretiche.
Tutto questo è in contraddizione demente e pervicace con quello che era fuori il palazzo, ammesso che sia mai esistito.
Ogni cosa è avanzo di realtà, caos, delirio, muri brutti, polvere, scritte oscene, versi animaleschi urlati al vuoto, afrore d’ hashish e puzzo di piscio agli angoli.
In una stanza un uomo vecchio in piedi conciona solennemente dritto davanti a sé.
Patetico coglione!

Ci sono gli altri, giovani iene o bestie di qualunque specie, massa che toglie il fiato: si aggirano attorno a banchi assembrati, vetri spezzati, lordura, libri aperti e immacolati, sibilano refoli di frasi come coltelli.
Inseguono brandelli di parole in volo, come falene innamorate, ciascuno andando solo, in una direzione sua.
I ragazzi si assembrano ora sul corridoio, si accalcano verso di me, sempre più, spingono, premono: urlano, baccanti orfane di Euripide, minacciano azioni terribili, dimenano pugni in aria inani, piangono, leggono Rembaud, pregano bestemmie, sputano laudi.
Lo vedo: sono soli, nel liquame appiccicoso del proprio furore; ascoltano metalli, parlano da profeti, giocano a carte; vegliano a turno il sonno di santi e mestatori.
Respirano da tisici avidamente amore e fiele, ammanniscono sconcezze con  innocenza: l’aria è torbida e gli appartiene intera.
Adesso mi accorgo che in tanti, tutti, hanno, senza saperlo, facce da grandi: sono insieme, i padri e i loro stessi figli.


Nella stanza di fronte gira una donna che si è persa: stride e cigola aspra la sua voce.
Il suo è uno sguardo di sola andata.
Traccia rette, disegna in aria inarrivabili comete; mostra ai ciechi aurore boreali.
Poi - lo so prima cha accada – il suo corpo prende a disfarsi davanti a me: cadono le falangi ad una ad una, la mano poi, il braccio e quindi i capelli, il naso, il resto, come squame o malli asciutti, come la forma seccata della pupa dei morti.
Il mio cuore ora batte all’impazzata. Sento intera la mia provvisorietà. Sento assoluta la mia irresolutezza: sono del tutto nudo e atterrisco.
Corro fuori; pazzo salgo agli altri piani.
Schianto la porta e dentro è sempre uguale. Ad ogni piano, ad ogni porta spalancata gli stessi corridoi, la stessa dissoluzione, lo stesso precipizio.
Tutto disarmonia, grida, disordine, insensatezza.
Né c’è pace né remissione.
Vorrei uscire, ma non posso.
Non da solo. 

Salgo ancora e ne conto sette.
M’ingoia il piano. Mi attira un invito tiepido.
Sono dentro.
Il piano sereno, in fine.
E’ chiaro, è luce, è silenzio, pulizia.
Incanta, innamora; spaccia tepori, mesce armonia.
Sono tranquillo.
Da qualche parte, nelle stanze chiuse, so che qualcuno studia e vi sprofonda dentro, come in una preghiera, come Girolamo nel suo studio, come l’occhio di Galileo fisso dentro ai suoi firmamenti.
Mi vengono incontro tutt’assieme, che non mi accorgo, i visi dolci dei miei alunni antichi, i più preziosi, i volti che ho cari.
Mi fermano, vogliono parlarmi, mi abbracciano. Via via se ne presentano di nuovi e sorridenti; poi spariscono presto, uno dopo l’altro.
Sento per ciascuno una nostalgia feroce.
Vorrei piangere.
 
Adesso lo so.
Sono nella Scuola, nella Scuola di ciascuno, nella Scuola eterna.
Ci ha presi da piccoli un giorno, che si era appena in piedi, ci ha fatti suoi e poi non ci ha lasciati più, tenendoci per sempre con sé.
Non ci si libera mai di lei né veramente io l’ho mai desiderato.
Mi si avvicinano gli ultimi due allievi, quelli che più amai.
Sorridono forte.
Mi prendono per le braccia, con dolcezza, e mi accompagnano al termine del piano.
La porta che vedo in fondo sarà la fine.

Fuori intanto è montata nebbia.
 
 
Carini gennaio 2014

 

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