domenica 15 settembre 2013

La casa

di Irene Fiordilino


Il corridoio era lungo, molto lungo. Di notte era ancora più lungo, le pareti erano più alte e quella sera sembravano anche più vicine tra loro. Charlie, abituata alle grandi distanze, camminava facendosi luce con una mini-torcia-giocattolo mezza scarica, e per tenersi compagnia durante le interminabili traversate della casa ragionava su argomenti di vario genere e natura. Ma quella notte la novità delle pareti restringenti teneva occupata la sua mente: la zia era passata da quel corridoio quando aveva visitato la casa.
Era l’unico modo di raggiungere la cucina, e sicuramente dalla cucina la zia era passata. Charlie alzò il pollice, come faceva la mamma quando rinfacciava al papà le cose “certe” che lei faceva e di cui lui sembrava essersi dimenticato, e continuò a ragionare. La zia, adesso, non sarebbe passata tra quelle due pareti. Questo era un dato altrettanto certo. E come avrebbe fatto se lei, piccola piccola, di soli sette anni e minuscola come una bambina di cinque, ci passava a mala pena? E la zia non era certo una Barbie. Charlie alzò l’indice. Ma adesso non sapeva cosa pensare, che dito alzare, cosa concludere. Le pareti si erano avvicinate, potevano forse avvicinarsi? Ovviamente no! In fondo, neanche potevano alzarsi.
Charlie trovò una curva ad angolo che non ricordava, e dovette mettersi di piatto, strisciando schiena e petto contro le umide pareti, per riuscire a svoltarla e non rimanervi incastrata. Ma le pareti non potevano essersi avvicinate.
Charlie si fermò un attimo a respirare e guardò in su, appoggiando la testa al muro di destra e rischiando di poggiare il mento su quello di sinistra. Che stupida, si era quasi aspettata di vedere il solito soffitto ammuffito che normalmente coperchiava il corridoio. Poteva forse aspettarsi qualcosa, lei? Il soffitto non c’era, questo era certo come il fatto che un soffitto non può scomparire. A Charlie sembrò abbastanza logico e alzò ben due dita insieme. Le pareti sembravano alzarsi all’infinito, e restringersi all’infinito non solo guardando il corridoio verso avanti (tanto che Charlie si chiedeva quanto ancora sarebbe riuscita a procedere), ma anche rivolgendo lo sguardo verso l’alto. Forse, tante, tante, tante Charlie più in alto si avvicinavano così tanto da diventare un unico gigantesco muro. Chissà che aspetto doveva avere quel corridoio da fuori la casa!
Qualche passo più avanti Charlie trovò una porta a sbarrarle la strada. Chi può costruire una porta in questo modo? Quella sì che era una gran scocciatura… lei voleva semplicemente un bicchiere d’acqua, è così strano alzarsi la notte con un po’di sete?
“Casa, ridammi la mia cucina, o almeno una bottiglia!” disse a voce alta mentre apriva la porta. La maniglia era arrugginita e fredda, difficile da abbassare, i cardini cigolavano insistentemente. Una scala stretta e dai gradini in legno sgangherati apparve allo sguardo assonnato di una bambina assetata. Strano, in quella casa non c’erano scale, si sarebbe potuto alzare un pollice su questo punto.

Charlie cominciò a salire, stando attenta a non mettere un piede in fallo e a non precipitare giù, non voleva mica svegliare la mamma! Anche la scala come il corridoio sembrava non finire mai, e lei cominciava a sentirsi decisamente stanca: i gradini potevano essere un po' meno alti. A quello che lei contò essere il centesimo scalino si fermò decisa a tornare indietro. Il corridoio per lo meno era pianeggiante, e se tutto fosse andato per il verso giusto vi era un letto abbandonato pronto a riaccoglierla. Ma non appena Charlie si voltò, pronta a fare dietrofront, ed ebbe puntato sicura la torcia avanti a sé la debole luce bianca scomparve, inghiottita da un buio denso e acquoso. Charlie spazientita mise un piede oltre il bordo dello scalino sopra cui stava, decisa a ridiscendere, anche al buio. Ma per fortuna aveva un ottimo senso dell equilibrio, e riuscì subito a ributtarsi indietro, perché il gradino appena sotto il suo era scomparso, e non valeva la pena di verificare a cosa avesse lasciato il posto. Ricominciò a salire, non che potesse fare altro, e anche la luce ricominciò a funzionare. Avrebbe potuto saziare la sua curiosità e scoprire che fine avesse fatto il gradino o come lei sospettava l’intera scala sottostante, ma saggiamente non volle tentare la fortuna una seconda volta, indirizzando la luce dove non era evidentemente gradita.

Dopo quelle che le furono sembrate ore di salita Charlie trovò sulla destra una porticina, simile a quella che aveva aperto per accedere alle scale. Questa volta non fu difficile aprirla, la maniglia era calda, umidiccia, e i cardini sembravano essere stati oleati recentemente. Non si sollevò nemmeno tanta polvere quando mise il primo piede oltre l’uscio, entrando in una piccola stanza in legno polverosa, che le ricordò subito la soffitta di una vecchia casa di campagna, illuminata da candele, alcune visibilmente appena accese, entro candelabri in argento scuro sparsi senz’ordine per la stanza. Charlie spense la torcia, e con un rapido sguardo si fece un’idea del luogo in cui era capitata: sulla parete destra vi era una libreria, piena di vecchi libri voluminosi quanto impolverati, che sembrava dover crollare sotto il peso dell’eccessivo carico da un momento all’altro; di fronte a sé vi era una parete spoglia, con una piccola finestra priva di vetro e murata dall’esterno; la parete sinistra, infine, era occupata da una credenza piena di porcellane rotte. Che cosa buffa, raccogliere tanti e simili cocci e disporli così ordinatamente sopra uno scaffale! Al centro della stanza vi era tuttavia la principale fonte di attenzione per Charlie: un piccolo tavolo circolare con sopra un bicchiere e una brocca piena d’acqua. Anche la brocca ed il bicchiere sembravano più cocci abilmente riutilizzati che oggetti finalizzati al proprio uso. Charlie si chiese se potesse servirsi da sé, ma se lo chiese davvero per poco, perché tale era la sua sete che già stava bevendo quando si rese conto di poter essere stata scortese col proprietario di quell’acqua. “Un bicchiere d’acqua, o di vino, non si nega mai a nessuno!” diceva sempre il suo papà, e lei sperava fosse un principio unanimemente condiviso. Bevendo si girò intorno, e notò che alla destra della porta vi era una sedia a dondolo rivolta verso il muro che entrando non aveva notato. Essa dondolava dolcemente, aggiungendo un leggero scricchiolio all’eterno scricchiolare di quella stanza. Charlie si chiese perché e come dondolasse, se fosse lì cullata dalla corrente d’aria che lei stessa avvertiva sulla pelle e che proveniva dal solido cemento posto a sbarrare la finestra, o se fosse lì a cullare, piuttosto, qualcuno che vi era comodamente seduto sopra. Eppure sulla sedia non sembrava esserci nessuno, non si vedevano né teste ciondolare su né piedi penzolare giù. Charlie per sicurezza si avvicinò a controllare. In fondo, se vi fosse stato seduto un nano, o un bambino, la spalliera avrebbe potuto coprire totalmente la sua figura. La sedia era inequivocabilmente vuota, e Charlie alzò decisa il pollice. Questo gesto le dava sicurezza. Restava tuttavia il fatto che la finestra fosse prigioniera del cemento, e che la corrente d’aria continuasse imperterrita a far tremolare le flebili fiammelle delle candele. Charlie non si sentiva autorizzata ad alzare un altro dito, che certezze erano mai queste?
Charlie tornò sui propri passi, e dietro la finestra murata, come se quel muro non fosse stato che una tenda leggera, le sembrò di scorgere l’ombra di una donna col mento poggiato sulle mani e coi gomiti puntati al davanzale di quello che sarebbe potuto essere un balcone cui era affacciata. Ma quando Charlie si stropicciò gli occhi, la donna era scomparsa. Eppure lei avrebbe alzato tutte e cinque le dita se le avessero chiesto quanto fosse certa di averla veduta.

Non notando altre aperture che la porta dalla quale era entrata, Charlie decise che il suo viaggio era terminato. Aveva bevuto ed era pronta a tornarsene a letto. Sentì in quel momento uno squittire e uno scricchiolare più forte di qualsiasi altro scricchiolio, provenire dalla libreria. Un grosso e sudicio ratto uscì dal suo nascondiglio in mezzo a due libri e cominciò a girare e girare in tondo per la stanza. Charlie urlò e si rintanò in un angolino, seguendo con gli occhi il vorticoso roteare di quell’essere dagli occhi fiammeggianti. Era un ratto, ma non lo era. O forse lo era ma non solo. Comunque fosse, Charlie non vedeva l’ora di fuggire. Appiattendosi più che poteva contro la credenza piena di cocci cercò di avvicinarsi lentamente alla porta, senza mai perdere di vista l’essere. A un tratto questo si fermò, Charlie sobbalzando diede un colpo con la testa allo scaffale dietro di sé e fece cadere un gruppo di piccoli pezzi di ceramica variopinta che andarono in frantumi. Il ratto la guardava, negli occhi, fisso. La guardava rosicchiando la propria stessa coda, abilmente portata alla bocca. A Charlie veniva voglia di vomitare.
Charlie si scaraventò sulla porta ed uscì, pregando che le scale ci fossero ancora. Le scale c’erano. Erano illuminate da una strana luce bluastra che veniva dal basso e che andava avvicinandosi. Ben presto lo vide: un bambino dalla pelle violacea e luminescente che ciucciandosi violentemente e spasmodicamente il pollice saliva verso di lei fissandola negli occhi. Aveva lo stesso sguardo di quel topo che si mangiava la coda. Charlie rimase paralizzata e quasi ipnotizzata fin quando il bambino non fu proprio davanti a lei, con un piede sull’ultimo scalino. Allora corse nella stanza, e si accucciò in un angolo, tremando. Non sapeva più cosa fare e quale delle due creature temere maggiormente. Certo aveva degli strani vicini! E pensare che non li aveva mai incontrati tra la sua stanza e la cucina, e nessuno gliene aveva mai parlato… altrimenti non sarebbe stata così spaventata.
Il topo intanto aveva già divorato la sua coda, e adesso sembrava intento a rosicchiare la propria zampa destra posteriore. Ma non la guardava più, e questo a Charlie parve un passo avanti. Il bambino intanto era entrato nella stanza, e senza più degnarla di uno sguardo andò a sedersi sulla sedia a dondolo, adesso perfettamente immobile, dietro la cui spalliera scomparve. Che maleducato, poteva presentarsi! E non sembrava così piccolo da doversi ancora succhiare il pollice. Roba da poppanti diceva la mamma. Charlie attese qualche minuto, stringendosi forte le ginocchia e fissando il suo pigiamino a fiori rosa e blu, quindi non appena le sembrò opportuno silenziosamente si alzò ed uscì. Con la coda dell’occhio vide la sedia ricominciare a dondolare e una mano salutarla da dietro la finestra.
Charlie cominciò a scendere i gradini illuminati dalla luce della stanza, considerando fortunata qualsiasi circostanza tale da consentirle di conservare quel po' di batteria che rimaneva alla sua torcia per un momento di vera necessità. Ma d’un tratto, con un violento BANG, la porta si richiuse, e quando Charlie per la paura fece un balzo in avanti, scivolando sullo scalino sopra cui aveva appena finito di poggiare il piede destro, il centesimo gradino per esattezza, si accorse che insieme alla luce l’intera scala era scomparsa. E come non accorgersene se stava adesso precipitando nel vuoto? Precipitava e precipitava, un precipitare precipitoso che sembrava non finire mai. Nonostante all’inizio fosse stato divertente, l’essere circondata dal buio con lo stomaco che continuava a rivoltarsi su se stesso dopo un po' cominciò a sembrarle infastidente. Charlie si chiese se priva del suo apparato digerente avesse comunque avvertito la caduta, e si domandò se in questa accezione non potesse essere considerato anch’esso un organo di senso. Ecco, Charlie aveva trovato non solo un nuovo organo di senso, ma anche un nuovo e mai scoperto senso vero e proprio! Per il bene della scienza doveva immediatamente comunicare la sua scoperta. Fece un rapido conto: vista, udito, olfatto, gusto e… gliene mancava uno, ma non aveva importanza. Quel maledetto mignolino non riusciva a sollevarlo mai. I sensi erano quattro più quello che la maestra le chiedeva sempre e che lei non ricordava mai, questo dunque sarebbe stato il sesto senso, in matematica era brava. L’avrebbe chiamato Precipitandus, perché tutte le cose in us si sa che acquistano scientificità, e fiera di se stessa poté alzare un pollice orgoglioso.
Ma dopo un po’ Charlie cominciava a preoccuparsi: se non fosse mai atterrata, come avrebbe potuto comunicare al mondo la sua sensazionale notizia? Come avrebbe potuto vincere l’Oscar? Oh, l’Oscar… il premio che spettava a tutti i grandi uomini di scienza, uomini proprio come lei… da non confondersi mica con il Nobel, come faceva quello stupido del suo compagno di banco, premio che tutti sapevano essere per gli attori. Chissà, magari un giorno avrebbe vinto anche quello! Le strade per il successo sono infinite, dicevano in tv. E proprio nel momento in cui, distratta nuovamente dalla sua immaginazione, contemplava se stessa elegantemente vestita, con la mamma commossa e il pubblico sciolto in un delirio di applausi, che saliva sul grande podio gridando Eureka!, senza dubbio parola adatta alla situazione, la caduta finì. Finì semplicemente finendo. Charlie si trovò nel suo letto e si addormentò.



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