giovedì 21 giugno 2018

Algoritmo, mon amour





di Francesco Scrima


“E’ strano
però che l’uomo spenda miracoli d’intelligenza
per fare che sia del tutto inutile
l’individuo”
(E. Montale – Altri versi)

I


   Quella notte, sognò un Algoritmo. Era lì, davanti a lui, immobile e sorridente.
   Lo guardava con intensità, con l’aria beffarda di chi sa d’incutere timore e di avere un potere perverso, quello di decidere della vita altrui.
   L’inizio di quella giornata era stata delle più normali, quasi banale.
   Si sentiva bene, la pressione a livelli ottimali, la frequenza cardiaca regolare, l’umore sopra la media. Scese le scale di casa e uscì per strada con slancio, il sorriso sulle labbra, il cuore disponibile ai rapporti sociali.
   Ci furono segni negativi di cui non si avvide? Infausti presagi vollero metterlo in guardia su quello che lo attendeva? Non è dato saperlo.
   Era sereno, e ciò bastava.


II

   Il tram che lo avrebbe portato a scuola era pieno. Giovani con cuffiette d’ordinanza alle orecchie e/o iphone a ipnotizzare gli occhi impastati ancora di sonno occupavano tutti i posti a sedere disponibili; gli adulti se ne stavano in piedi, aggrappati alle maniglie poggiamano, con la muscolatura traballante ai sobbalzi della vettura e le orecchie inquiete ad ogni metallico stridore di freni.
   Lui pensava, quieto.
   Pensava a varie cose, come, per esempio, al fatto che qualche vettura in più, in quell’orario mattutino, avrebbe evitato quel disagio da sovraffollamento. Gli avevano detto che un algoritmo regolava orari delle corse, numero di vetture necessarie, fra giorni festivi e feriali, corse notturne e diurne, coincidenze fra tram, autobus e metro.
   Non capiva. Cosa poteva saperne, l’algoritmo, di sovraffollamento o di rischi di borseggio? cosa di ritardi al posto di lavoro o a scuola?
   Pensava che un ristorante di nuova apertura avrebbe cucinato e predisposto i coperti e il personale in sala solo dopo aver sperimentato le caratteristiche del quartiere di ubicazione, l’affluenza nei vari orari, i gusti gastronomici palesati dagli avventori nei primi giorni; pensava anche che nessuna brava massaia si affiderebbe ad un algoritmo per regolamentare l’economia domestica.
   E poi, che c’entrava quel nome?
   Abituato com’era a far derivare tutte le parole che gli servivano – che gli erano care – dalle lingue classiche, non riusciva a comprendere il perché di quel “dolore”, e l’accoppiamento di una “frequenza ritmica” al “desiderio di soffrire”. La “cadenza della sofferenza”? Era una congettura avventurosa, e chissà invece da dove derivava davvero quella parola così minacciosa, così scivolosa, così…
   Affrettò il passo, appena sceso dal tram, per essere a scuola in orario. Odiava poter arrivare in ritardo anche solo di pochi minuti.

III

   La prima cosa che vide fu una siepe di corpi davanti alla bacheca lignea della sala professori. Erano i suoi colleghi.
   Cos’era successo? Lo capì subito, appena anche lui diede un’occhiata all’orario definitivo. Lesse una babele di ore, di classi, di buchi che si aprivano sempre più grandi, voragini bianche nel nero dell’inchiostro stampato, fino ad inghiottire tutto – alunni, insegnanti, edificio scolastico. Tutto.
   Non c’era un solo collega che non si lamentasse del proprio orario. E di chi era la colpa di quell’obbrobrio? Di un algoritmo, ovviamente.
   Avvilito, s’avviò in classe, intuendo che per quel giorno serenità e buonumore erano scivolati via dal suo animo.

IV

   Prima di tornare a casa, fece un salto in banca, dove non entrava mai per ragioni ideologico-logistiche, perché una mail di qualche giorno prima lo aveva convocato (quasi) urgentemente.
   “Che sarà mai?”, si era chiesto. “Avrò toccato il fondo del conto corrente oppure sarò premiato per lo scarso disturbo che reco al lavoro dei dipendenti?
   Niente di tutto questo. Il direttore lo informò, dopo lunga e noiosa attesa, che da qualche settimana un algoritmo, predisposto dalla sede centrale, regolava il suo rapporto con la banca: il conto, gli interessi, tutte le operazioni, ogni singolo numero erano stati affidati a quell’algoritmo. E che stesse tranquillo: erano in buone mani.
   Rientrò a casa pensieroso e bagnato. Un improvviso acquazzone lo aveva sorpreso appena sceso dal tram – giusto 300 metri dal portone del suo palazzo – e lui era uscito senza ombrello né impermeabile; e certo: splendeva il sole già alle 7 del mattino!
Tutte le previsioni meteorologiche che aveva consultato il giorno prima avevano infatti parlato di sole, cielo azzurro, alta pressione, basso tasso d’umidità. E che cavolo! Su quale algoritmo era stato regolato il satellite?

V

   Pomeriggio e sera volarono d’un soffio.
   Corresse compiti, preparò lezioni, studiò e lesse i suoi autori più amati, ma niente, non riusciva a concentrarsi. Eppure non c’era nulla che lo turbasse veramente, nessun pensiero, nessuna ansia, nessun dolore passato o recente occupavano la sua mente. Eppure…
   Andò a letto in quello stato.

VI

   E così lo vide.
   Era enorme, opalescente, pletorico. E sorrideva d’un ghigno feroce.
   Lui si chiese, dapprima, che ci facesse lì, nel suo sogno. E poi se ce l’avesse proprio con lui. Glielo chiese, anzi: - Perché mi guardi così fissamente? Ce l’hai con me?
   L’Algoritmo mutò quel sorriso ebete in una risata sonora.
-          Non so neppure chi tu sia – disse. – Perché dovrei avercela con te?
-          E che vuoi, allora?
-          Io non voglio niente! Sono gli altri, semmai, a volere sempre qualcosa da me…Mi chiedono la soluzione a tutti i loro problemi, la formula giusta per risolvere ogni situazione difficile…Sono un dio, io, per tutti voi!
-          Ma io non ti ho chiesto nulla, non voglio nulla da te…Sparisci, se puoi, dalla mia vita! Lasciami sbagliare per conto mio!
   Urlava, adesso, e doveva essere paonazzo per quello sfogo, e ancor più perché l’Algoritmo se la rideva a crepapelle, fino a scoppiare.
   Allora afferrò una pietra che, chissà come, aveva nella tasca dei pantaloni; prese la mira e tirò con tutta la forza che il sogno gli permetteva. Sentì un fragore, come di vetri che esplodano, di pneumatici che scoppino, di cuori che si spezzino…ma ad infrangersi fu solo il suo sogno e, con quello, l’incubo che gli aveva rivelato un’angoscia mai provata prima: quella di sentirsi deriso, più che offeso, inutile, più che inerme.
   Si svegliò incerto se ridere o piangere. Aveva voglia di alzarsi, di bere un bicchiere d’acqua fresca, di spalancare le persiane ai raggi del sole, di guardare fuori dalle finestre e gioire della semplicità della vita.
   Guardò le sue mani. Erano lì, davanti ai suoi occhi, forti e capaci di conquistare il mondo, di carezzare il volto di una donna o i capelli d’un bambino, di stringere altre mani, di salutare da lontano; capaci e forti, anche, di trascrivere tutte le poesie di tutti i poeti d’ogni epoca, di ogni parte del mondo.
   E per fare tutto ciò, pensò, non c’era bisogno di nessun algoritmo.
   E questo pensiero, infine, lo rese tranquillo e lo rappacificò con la vita.

  









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