di Enzo Barone
Due
settimane fa Rosy Bindi, presidente uscente della Commissione parlamentare
antimafia, proprio nell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo, il luogo
dell’efferatezza, ha presentato le conclusioni della Commissione sul furto
della Natività con i santi Francesco e Lorenzo di Michelangelo Merisi, avvenuta
nella notte tra il 17 e il 18 ottobre del 1969. Erano presenti anche il sindaco
di Palermo, Leoluca Orlando, il giornalista Attilio Bolzoni e sono
successivamente intervenuti l’arcivescovo Lorefice, il presidente della
commissione antimafia della Regione Sicilia Claudio Fava, il presidente dell’associazione
degli Amici dei Musei Siciliani, Bernardo Tortorici di Raffadali e padre
Giuseppe Bucaro, responsabile del patrimonio culturale della diocesi di
Palermo.
Il
furto della Natività, com’è noto, è stato molto più di una delle tante ferite
nella carne martoriata della città, molto più di un rebus investigativo da
risolvere o di uno dei nostri tanti misteri di mafia insoluti. La questione
ha via via negli anni assunto piuttosto la portata di un affaire, che riveste valenze simboliche, sociologico-criminali o di
criminologia mafiosa, anzi è forse un nitido emblema nel perverso ambito
semiotico dell’antropologia mafiosa. Una simbologia valevole all’interno del
codice linguistico dell’onorata società e fortemente espressivo anche all’esterno,
nella realtà della comunità civile, come più avanti cercherò di dimostrare
anche in relazione con le stragi di mafia del 1993.
Il
furto avvenne incredibilmente in uno strano clima – ma purtroppo non troppo strano
per i palermitani in quegli anni - un clima ovattato, di voci sopite in una città fradicia di una triste rassegnazione aprioristica, che soffocava sul
nascere ogni vagito di ribellione ad ogni iniquità. La notizia tutto sommato
non ebbe in quel lontano’69 il risalto dovuto, non destò l’allarme necessario,
non sollevò le furibonde reazioni dei giusti, non provocò una veemente protesta
da parte della società civile. Piansero lacrime solitarie, amarissime e
disperate piuttosto gli uomini fini, i professori di storia dell’arte, gli
intellettuali, le anime belle, oserei dire; qualche prete forse, un cardinale perbene
magari, emarginati e isolati da una chiesa che spesso preferiva coltivare l’amicizia
coi notabili, con gli uomini di rispetto piuttosto che gridare tutto il marciume di quel potere e dire chiaro il nome del mostro che
divorava la città.
Erano
pochi e solissimi in quegli anni quelli che piangevano una città stuprata
ancora e ancora più volte da uno Stato ufficiale che la abbandonava ad una
ineluttabile deriva e da una mafia-Stato, onnipotente, ottusa, biecamente
sprezzante di ogni decenza, di ogni diritto, di ogni retto vivere, della
bellezza in primis.
Palermo
in quegli anni era presa da altro. Scivolava con fatalità regolare e inesorabile
nel suo baratro più limaccioso e buio. Il centro storico, nel ventre del quale
era ospitata la Natività, era abbandonato in buona parte alla canaglia, degradato, consumato
ancora dai bombardamenti del ‘43, eluso come la peste dai cittadini dei
quartieri bene. Un governo della città letteralmente criminale, che aveva
ottusi interessi speculativi ovunque, ne aveva espulso scientificamente nel
dopoguerra gli artigiani, gli operai, i borghesi e persino gli aristocratici,
la sua gente insomma. Bastava a quei tempi che un edificio fatiscente, la
cosiddetta edilizia elencale, ma anche gli edifici di pregio storico, un
convento, un palazzo signorile, una chiesa fossero dichiarati pericolanti dall’apposito
Assessorato all’Edilizia Pericolante che immediatamente si erigeva un muro, si
chiudeva una strada, prosciugando quell’arteria di vita, facendo così crollare
il valore commerciale degli immobili adiacenti e trasformando infine in pochi
anni in degradati anche gli edifici in discrete condizioni, per poi più
facilmente cancellarli realmente, abrogarli dalla memoria storica e trasmutarli
nel nuovo senza memoria. La più classica delle profezie autorealizzate.
Si
preparavano altrove, ai margini della Conca i dormitori, i falansteri
dell’insignificanza, i casermoni per i parvenù immigrati a frotte dalla
provincia, i palazzoni a dieci piani affastellati l’uno sull’altro ai margini
delle vecchie carraie e dei vicoli interpoderali, rubando di giorno in giorno
il barbaglio arancio dei mandarini e l’oro ai limoni. Si speculava, si mangiava,
si fotteva la natura in modo selvaggio e insensato, costruendo dove era terra
da coltivare e in mancanza di spazio vergine si dava alle fiamme ciò che c’era
tra i piedi. In una notte arse nell’indifferenza collettiva a Piazza Croci il villino
Deliella, capolavoro del liberty palermitano; col Villino Florio di Basile
l’ignoto piromane invece fece cilecca. Ho pena per quello che dovette capitare
a quel maldestro incendiario. Qualche altra villa patrizia fu lasciata
all’abbandono e al degrado per potere più facilmente essere in seguito
abbattuta. Cosa Nostra ingrassava felicemente, nella sua beata inesistenza. La
mafia infatti non c’era, era una invenzione malevola e livorosa di qualche
comunista, per screditare qualche spettabile uomo d’affari, qualche onorevole,
qualche amministratore devoto alla parrocchia e obbediente a Roma e a
Washington.
Poi
negli anni ’80 qualcuno, alcuni magistrati, alcuni poliziotti smossero le
acque, agitarono i miasmi putridi. Qualcuno a un certo punto disse che la mafia
c’era davvero, ma si dovette attendere la testimonianza di Masino Buscetta negli
anni ’80 per averne la conferma. Come se le decine di assassini, le bombe, le
lupare bianche, la corruzione della città, la devastazione edilizia la droga a
fiumi fossero tutte assieme il prodotto di qualche gruppetto sparuto di
banditelli male organizzati. E così da allora si tornò a parlare del Caravaggio
Negli
anni ’90 dunque, in una città mutata, finalmente risvegliata e redenta a suon
di bombe dal secolare coma autoindotto, qualcuno, magistrati, giornalisti più
che studiosi, parlando di mafia riprese a parlare del Caravaggio, chiedendosi
dove fosse finito il quadro, se esistesse ancora, appassionandosi persino a
domandarsi se fosse stato veramente un furto di mafia o se un giorno chissà il
quadro avrebbe fatto ritorno a casa e in quali condizioni. E parve a tanti,
intellettuali e uomini retti, magistrati e maitres a penser locali, ancora una
volta assurdo, incredibile persino come quindici anni prima avesse potuto
passare con così poco clamore quella offesa così atroce alla nostra civiltà, alla
società civile palermitana. Dimenticando il fatto che una società civile allora
non esisteva, e che proprio per questa ragione, tutto o quasi tutto il male a
Palermo fino ad un po’ di tempo fa poteva avvenire e un attimo dopo essere
divorato nel torpore del sonno atavico della ragione, anzi della coscienza. Ma
molte volte, fuori dagli uffici giudiziari, queste erano chiacchiere da circoli
culturali, lamenti autoreferenziali che si esaurivano in ambienti circoscritti, discorsi fatti più che altro con la sollecitudine della ipotesi astratta, col puntiglio
asettico e accademico di chi parla di qualcosa che non esiste e non esisterà
mai più. Un gioco d’elite, il crogiolarsi per tanti in un dolore puramente
intellettuale, raffinatamente ritualizzato, piuttosto che patito dal tessuto
vivo della città.
Ora
pare che si riesuma il cadavere, che si riapra il cold case. Sembra, come è
avvenuto ad intervalli ciclici, che stavolta la pista sia buona, che si possa addirittura
sperare in un recupero della tela o di qualche suo scampolo, secondo i moderati
auspici della Bindi.
E’
in effetti una questione intrigante e molto. Da far venire l’acquolina in bocca
anche a chi reporter investigativo o di nera non è.
Più che restituire un racconto esauriente e
giornalisticamente compiuto sulla vicenda investigativa, adesso cercherò di riassumere brevemente a quali esiti sono giunte le indagini e proverò poi a dirvi l’idea
che mi sono invece fatto io dell’affaire.
In
breve l’ipotesi portata avanti dalla Commissione, la più praticabile allo stato
attuale, è quella che fa capo alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia
Pietro Grado, testimone diretto dei fatti. Il furto, secondo Grado, viene
effettuato tra il 17 e il 18 ottobre ’69 appunto, per iniziativa spontanea di
alcuni delinquenti comuni, pochi sembrerebbe e non ancora affiliati a Cosa
Nostra. La quale naturalmente, avendo presto capito la portata commerciale
dell’opera, non può rimanere esclusa a lungo dalla vicenda. Così il capozona
Bontade, sentendo quel po' di scruscio che si era sollevato, chiede in giro dei
ladri, li trova e da loro apprende che l’opera è ancora in città. A quel punto il
rappresentante regionale di Cosa Nostra dei tempi Tano Badalamenti, avendo
anche lui appreso dai giornali del trafugamento, in virtù della sua autorità
chiede al Bontade che l’opera venga condotta nella sua casa di Cinisi, per cercare
di ragionare su come poterci lucrare al meglio.
In breve il boss si risolve a interessare della cosa un noto trafficante
d’arte svizzero per visionare il Caravaggio, un uomo anziano pare. C’è un
episodio a questo proposito in fondo insignificante in questa storia per certi versi, ma
molto significativo per capire cos’è la mafia: il mercante d’arte chiede a un certo punto di essere lasciato solo col
quadro e in quel momento, trovatosi davanti alla maestà della Natività, ricorda
Grado, scoppia in un pianto dirotto. Sicchè don Tano, tornando dentro e vedendo
il vecchio piangere come un bambino solo per aver guardato un quadro, sbotta a
ridere dicendo: “Ma guarda stu scimunito!”
Insomma
alla fine il trafficante si propone di acquistare lui l’opera e quando gli
viene chiesto come farà a portare via una tela tanto grande senza dare
nell’occhio, risponde che la sezionerà, in quattro o forse sei, otto porzioni
che poi venderà a singoli compratori.
Gli
investigatori successivamente per avere la controprova dell’autenticità di
queste dichiarazioni mostreranno alcune foto di trafficanti d’arte al Grado, il
quale effettivamente riconoscerà tra queste quella del vecchio arrivato a
Cinisi da don Tano. Il che, insieme alla convergenza delle dichiarazioni di
altri pentiti quali Marino Mannoia ad esempio, fa di questa per gli inquirenti
la pista principe, la più concreta tra tante. Il Caravaggio uno o multiplo,
quindi sarebbe tuttora in Svizzera o quantomeno dalla Svizzera si dovrà partire
a quanto pare per capire quali destinazioni hanno avuto gli scampoli
acquistati.
In
tutti questi anni altri collaboratori, molti di caratura notevole, come
Mannoia, Spatuzza, Manno, hanno raccontato altro e tanto altro sul quadro. Chi
riferendo che la Natività era stata bruciata, chi che conservata malamente, in
attesa di destinazione, era stata mangiata alla fine dai topi, chi, come
qualcuno sentì dire a Gerlando Alberti, racconta addirittura che il Caravaggio forse
sarebbe tuttora ancora nascosto in qualche stalla del boss Marchese dalle parti
di Corso dei Mille.
Ora
dopo avere ascoltato i relatori presenti a San Lorenzo ed altri volontari e
involontari attori e referenti incidentali della vicenda io una mia idea me la
sono fatta. Non pretendo che abbia riscontri oggettivi o veridicità scientifica,
ma ce l’ho e ben precisa.
Presento
intanto alcuni elementi che costruiscono le basi del mio ragionamento.
Primo:
Bernardo Tortorici ha raccontato di aver più volte portato giù dal suo
alloggiamento la eccellente riproduzione della Natività oggi in loco; è a sua
detta un’operazione estremamente complessa e laboriosa, che coinvolge tre
quattro persone almeno, che sappiano perfettamente cosa fare e per di più coordinate
da un esperto. Sembra inoltre che dall’esame attento della cornice originale superstite
si possa vedere come non esista alcun residuo dei filamenti della antica tela,
segno che la resezione di essa è stata fatta con precisione a dir poco
chirurgica.
Secondo:
le due custodi dell’Oratorio a quei tempi erano tali sorelle Gelfo, le quali,
accortesi tardi del furto, comunicarono intempestivamente il furto al parroco padre
Benedetto, che a sua volta con ritardo ne riferì al cardinale Carpino, che in
ultimo con altrettanto ritardo fece la sua denunzia alle forze di polizia.
Bene,
la levatrice dei quattro figli invisibili per l’anagrafe di Totò Riina, nati in
una clinica privata a poche centinaia di metri dall’Oratorio, di cognome guarda
caso proprio Gelfo faceva, il che è una omonimia assai curiosa, se di omonimia
si fosse trattato e non invece di consanguineità.
Terzo:
padre Bucaro, direttore dell’Ufficio Beni culturali
dell’Arcidiocesi di Palermo, nel suo intervento ha ricordato invece le
lacrime, l’avvilimento senza fine di monsignor Rocco, suo professore in
seminario, responsabile a quei tempi della gestione dell’oratorio, il quale
ebbe a raccontare agli studenti come fosse stato ad un passo dalla felice
conclusione di una trattativa aperta con i rapitori, e come qualcosa, un
coinvolgimento indebito delle forze dell’ordine, una mossa poco appropriata di
qualcuno, avesse poi fatto sfumare irrimediabilmente la trattativa.
Quarto
elemento, che in apparenza potrebbe sembrare poco significativo: il 23 ottobre,
tra i primi giornalisti a fare una ipotesi investigativa articolata sul furto
fu Mauro de Mauro, che titolava così un suo articolo sull’Ora: “Forse diviso in
tre il Caravaggio rubato a S. Lorenzo. La polizia segnala i presunti tagli”,
cosa che pare collegarsi in modo stupefacente a quanto riferito da padre Bucaro
e alle conclusioni delle ultime indagini.
Notizie
sbiadite, voci deboli, coincidenze, dicerie o indizi talvolta sostanziosi: è in
questo contesto insicuro e fragile che ci tocca trarre delle conclusioni,
edificare un orientamento. Ma, si sa, da noi spesso si va a naso e qualche
volte ci si azzecca pure a fidarsi del naso, perché le cose, anche le verità
dico, troppo spesso sono così, incerte, sbiadite, sentite dire.
La
mia convinzione è che il furto sia stato eseguito su commissione, come d'altra parte ha lasciato intendere la stessa Bindi, in base alle testimonianze
raccolte dall’antimafia. Gli esecutori materiali erano certamente accompagnati
e guidati da professionisti ed è verosimile che il furto sia stato preceduto da
vari sopralluoghi e forse di più: direi che chi ha guidato i manovali sia stato
qualcuno che col quadro ha avuto a che fare in modo diretto e continuo, uno di
dentro insomma. Un quadro di tal genere, restaurato tra l’altro due anni prima,
di tali dimensioni e di difficile manipolazione, tagliato perfettamente dalla
cornice non può che essere stato prelevato da chi sapeva esattamente quanto valesse,
cosa e come dovesse fare per portarlo via. Altro che balordi, altro che piccoli
delinquenti di quartiere!
A
questo punto però bisogna capire chi commissionò il furto.
Pare
altamente improbabile che si possa escludere il non coinvolgimento sin dall’inizio
di Cosa Nostra. C’è d’altra parte qualcosa nelle testimonianze di poco logico
rispetto nelle conclusioni tratte poi dalla Commissione. Pare infatti altamente
improbabile che un furto di tale portata e di tale difficoltà possa essere
stato eseguito da due, tre picciotti non affiliati alle cosche, benchè guidati
da esperti, senza la previa autorizzazione almeno del capo mandamento. I quali
picciotti, tengono nascosto per un po' da qualche parte nei dintorni della
Kalsa un quadro di tal genere, uno dei massimi capolavori di pittura presenti a
Palermo non sapendo bene cosa farne, fin quando la mafia non viene al corrente
del fatto, dai mezzi di stampa per giunta. E’ sospetta a questo proposito è anche
la catena di ritardi consecutivi nella segnalazione del furto, come è
fortemente sospetta l’indagine sotto traccia tentata da monsignor Rocco. Come
se chi doveva denunciare e doveva cercare di recuperare il quadro sapesse benissimo
chi fosse il referente imprescindibile con cui avere a che fare e sapesse
quindi di doversi muovere coi piedi di piombo per non inquietarlo. Cosa che
probabilmente non fece affatto il povero De Mauro, che quando si muoveva di rumore
ne faceva tanto, il De Mauro che sbatté in faccia alla città prima di tutti
quello che non era il caso di far sapere e che appena
undici mesi dopo venne inghiottito dalla lupara bianca in via delle Magnolie,
certamente per via di questa e di molte altre indagini tanto più scabrose.
Considerando
poi l’opera in sé, mi pare abbastanza inverosimile pensare ad una sua resecazione
in porzioni e ad una sua vendita a lotti: non si ratta di un polittico o di un affresco
staccato, ma di un dipinto dove le figure, come è usuale nel Caravaggio maturo,
sono tutte strettamente in relazione dialettica le une con le altre, sia nelle
pose, che negli sguardi e nei moti d’animo i quali, quelli dei santi,
dell’angelo col cartiglio e persino del bue, convergono tutti simultaneamente
verso il fulcro compositivo, cioè il Bambino. Che senso poi avrebbe, ammesso
che il taglio fosse stato fatto con perizia assoluta, acquistare un San
Giuseppe o un San Lorenzo che guardano nel vuoto, come in un gioco di isolati trasferelli
senza più alcuna nobiltà artistica, senza il loro contesto comunicativo? Chi
acquisterebbe queste menomazioni di un capolavoro, questi moncherini tristi di
una felicità perduta? E se per questa mia domanda retorica esistesse invece
veramente una risposta positiva nel mondo del crimine, allora la domanda
muterebbe immediatamente, acquisendo invece il senso di un’ironia amara o di un
nerissimo sarcasmo.
E’
un garbuglio intricato questo affaire, che si aggroviglia in un nodo
inestricabile insieme a tanti altri fatti, non solo siciliani, come nei più
cupi misteri idi questo Paese, strano, inquietante, ripeto con singolari
coincidenze e incredibili incroci di destini, che però nella storia di questa
città spesso coincidenze e semplici incroci non sono. Delle custodi Gelfo e
della levatrice dei Riina, si diceva, della sparizione di De Mauro anche, ma il
’69 e poi il ’70 sono gli anni anche del tentato golpe Borghese, sono gli anni
della strage di via Lazio, della prima pulizia etnica mafiosa, che epura dal
centro storico alcune famiglie mafiose, come afferma lo stesso Pietro Grado. A
questo aggiungo un'altra inquietante coincidenza della quale sono venuto
casualmente a conoscenza attraverso il racconto di un caro amico: pochi mesi
dopo il fattaccio il cardinale di allora Carpino, improvvisamente e senza una
spiegazione convincente, si dimette dal suo incarico, dicendo che è troppo
vecchio per quel lavoro (il prelato aveva 66 anni) e chiede il trasferimento a
Roma. Si vociferò a suo tempo di pressioni subite in curia dal prelato, che
verso Cosa Nostra aveva assunto un atteggiamento non del tutto indulgente, a
mezzo di certi ambienti vicini al vecchio cardinale Ruffini, per il quale la
mafia era una invenzione dei comunisti per screditare e delegittimare politici
e amministratori rispettabili e soprattutto vicini alla Chiesa. Chissà che uno
degli episodi più eclatanti di questa opposizione alla criminalità mafiosa del
buon Carpino non sia stato rappresentato proprio dai suoi movimenti scomposti alla
ricerca della Natività trafugata.
In
ultima analisi dunque io credo che il furto sia stato voluto e organizzato da Cosa
Nostra con intenti a lei chiarissimi (benché ancora da definire giudiziariamente).
Volendo infatti dare credito alle dichiarazioni alla pista indicata da Grado,
se il collaboratore parla del trafficante svizzero come di persona con cui già
il Badalamenti era in relazione da prima del furto e che il capomafia riceve in
tempi brevi nella sua proprietà per una stima dell’opera e per trattarne la
vendita, e allora questa è una prova che il progetto del furto, come di altri,
era probabilmente in cantiere da tempo.
Inoltre
io credo che, al di là delle bieche ragioni del ricavo di un ricco utile, forse
sono ipotizzabili altri e ancor più complessi motivi nel suo trafugamento.
Forse qualcuno dalla mente fine, qualcuno dell’occulto terzo livello mafioso - non
certo il pecoraro Badalamenti - voleva
fare del dipinto di maggior pregio artistico custodito a Palermo un ostaggio
eccellente in mano a Cosa Nostra, un gioiellino buono per futuri e possibili ricatti
o, chissà, trattative.
Certamente,
qualunque sia stata la ragione del crimine, la mafia con questo furto si è resa
come in tante altre occasioni colpevole di uno sfregio, di un sommo sfregio agli
onesti, rendendo chiaro a tutti che essa tra i tanti suoi poteri ha (o ha
avuto) anche quello di privarci del bello, di spregiarlo, di umiliare ogni decoro,
ogni orgoglio fondato sul bene di cui la cultura e le arti sono portatrici. Si
mortifica con azioni di questa portata simbolica l’amor proprio della comunità
civile, si svuotano persino di senso le ragioni della lotta alla corruzione
morale, privando e distruggendo la società di ciò che è bello e che ha valore
si tenta di omologare ogni aspetto della vita sociale ad un’arida lotta di
tutti contro tutti con l’unico scopo di trarre dei vantaggi materiali da un
confronto di questa specie, terreno questo nel quale poi la mafia è per
definizione vincente. Si volle allora e si vuole ancora opporre brutalmente alla
civiltà della cultura, dello spirito, dell’elevazione morale il puro e brutale
spregio di tutto questo, l’insensatezza di chi può annullare, e brutalmente,
volgarmente offendere ciò che ci è più nobilmente caro. Qualcosa di simile successe,
come ha ricordato l’arcivescovo Lorefice, in tempi più recenti, nel 1993. In
quell’anno le menti raffinatamente perverse che guidavano Cosa Nostra colpirono
chiese, musei, gallerie e persino la chiesa cattedrale di Roma, San Giovanni in
Laterano, un sacerdote a Palermo. Si colpì duro, si colpì al cuore e il cuore
di una nazione, di una società è ciò che di più bello e sacro essa custodisce,
allora come forse nel ‘69.
Così
che in fine non si può non condividere la impeccabile chiosa della relazione
della già citata Commissione antimafia quando dice parlando del furto: “Una
metafora della lotta tra il Bene e il Male, che si combatte anche con il valore
morale dell’arte e della cultura, e con la protezione del patrimonio artistico
della nazione.”
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