domenica 23 agosto 2015

China Town

di Enzo Barone
E sì che una volta l’era n’altra roba da queste parti, te capì? l’era tutta povera gente nostra, che mangiava michette e cotoletta e il risotto ogni tanto la domenica, roba da cristiani testina! al massimo ti arrivavano da Pero, da Novate, da Settimo e da Rho. C’era quelli da Sesto e dalla Bovisa, da Porta Romana e persino da Gallarate, Cinisello e Monza. Si era un po’mischiati all’Isola, e’ vero: a noialtri a San Babila o a Brera ci chiamavano quelli dello Scalo Farini, perché, nessuno di noi, ‘sta attento, si poteva dire meneghino del Cordusio o di Corso Italia, tanto meno io che c’avevo il babbo che veniva da Brembate, ma l’era tutta gente dei nostri insomma, che ci si intendeva solo scuotendo la testa, sollevando un sopracciglio.


 Le case erano le stesse ma più allegre e linde: dietro a via Farini, dalle parti di via Testi erano per lo più prati, pozzanghere e nebbia. C’erano i Walter, gli Alberto, i Gino, i Beppe, i Sandro; le Terese, le Mariette, le Luise, le Silvie, le Roberte. Tutta gente che sapeva di sapone da bucato o minestrone, boia d’un cane, di vino rosso tuttalpiù, Giuda ladro! allora c’erano le cicogne che facevano i nidi sopra alle pertiche vecchie della luce e pure gli scoiattoli settant’anni fa, ti venivano a mangiare dalle mani, te lo giuro, sulla testa di mia madre, si proprio qua, nelle aiuole, nei giardinetti tra Piazzale Maciachini e via Zara, non tutte ‘ste puttane di zanzare di adess che ti si appiccicano addosso come gli zingari. Noi dello Scalo Farini, si era tutti figli di operai, che avevano fatto la guerra, gente semplice, lavoratori coi calli alle mani, ascolta baluba! I ragazzi non si aveva tante menate per la testa: lavorare, aiutare in casa, poi i sabati sera ti trovavi al Parco Savarino in venti con tre vespe e una Seicento, ma per la balera o il cinema ci si stava tutti su. E la sezione, gli scioperi e se occorreva menare qualche fascio ogni tanto, tutto lì; poi le donne, il matrimonio, figli quelli che vengono, vita solita, roba da operai, da dopoguerra. Ancora erano tempi quelli che ti potevi dir “Tel chi el terun…” al Salvatore o al Nunzio che passava, a quelli là sorridevano, a mezza bocca, chiaro, oppure non capivano un cazzo, bofonchiavano qualcosa in terronese, ti guardavano storditi come i marziani, e via davanti a noi in fila che si rideva, seduti sul muretto, a prendere aria e fumo. Da ‘ste parti ce n’era un po’, già allora e poi sempre di più, dalla Bassa, dal Lazio dalla Toscana anche; ce n’era di animali che puzzavano di pecore e fame lontano un miglio, pieni di figli sporchi, a nidiate come i topi; ce n’era però anche qualcuno che ci parlavi; lavorava sodo, ci potevi anche tirare tardi in osteria a bere e giocare a scopa. Poi, dal cinquanta a ‘sta parte, ne sono arrivati a tir, anzi a vagonate, che dopo, già nei settanta, la città l’era tutta piena da Bresso a Corsico, da Baggio a Segrate. Dopo quei là, de l’Africa del nord intendo, poco a poco hanno imparato a togliersi pidocchi dal cranio, a parlare più calmi, a non metterti le mani sulla faccia e toccarti quando ti sono vicini, a rigar dritto insomma. Ora mi dico signori miei non ci devono però avere poi tutto ‘sto amor proprio e orgoglio di razza – razza bastarda s’intende –: dopo tre-quattr’anni parlavano lombardo, i figli almeno, e certe volte anche i padri, che a sentirli era un piscio e cercavano di fare i sostenuti e le ragazze mettevano su le minigonne, le troiette, insomma tutti a somigliare a noialtri milaness, e per giunta ti tifano Inter e Milan, ti mangiano la cassoeula , dicono “ven chi…”, “cosa l’è che chest chi?” e bestemmiano davanti a una scopa peggio che noialtri. Che a parlarci, a tu per tu, poi ti dicono non vorrebbero tornarci neanche coi piedi avanti laggiù, coi zulù. Hanno imparato, ostia! ognuno però a stare nelle sue case o ballatoi; ognuno nei suoi appartamenti o catoi, che diamine, te va a lavurà e poi a casa, finestre ciuse con gli amici tuoi e non star a rompere i coglioni con ‘ste braccia per aria e ciudi le finestre quando viene fuori ‘sta puzza di sarde fritte, di pecora cotta o cime di rape di merda. Poi i figli studiano, i nipoti si scordano da dove veniva suo nonno; era inevitabile, tutta la mistura di africa, roma, puglia, napoli, noialtri. La maggior parte intendo testina, che ce ne di quelli che feccia era e feccia è restà, anche dopo tre generazioni, africa era e africa resta, e và a dà via e ciapp! Ma insomma in fine, che vuoi farci, che li cacciassimo tutti a fucilate e calci in culo? Una mano poi ce l’hanno anche data e dopo, l’è vero, basta che stiano a rigar dritto, a non sgarrare. Te va a casa e chiudi la porta e si sopravvive. S'è superata anche quella, Milan l’è andà avanti, ognuno con la sua vita, ognuno coi suoi odori.

Il fatto è che adesso qui da per tutto all’Isola e anche altrove, sono almeno quindici anni che l'è tutta n’altra roba. Adess sai come lo chiamano il quartiere? Lo chiamano China Town, quei ciapa ratt di via Montenapoleone, e ci ridono pure di gusto, porco demonio! Sono arrivati proprio col nuovo millennio, sempre di più; prima gli albanesi e i rumeni con le loro facce nere e furtive, poi colombiani, peruviani, croati, serbi, ucraini e arabi, coi loro occhi scuri e cattivi e poi, vacca boia, soprattutto facce gialle di più e di più e di più, un diluvio, un’inondazione, un’alluvione dove da principio l’acqua sale piano e poi tutto d’un colpo è alta due metri e ti porta via. Che portasse via loro, puttana di una Eva! ma si, va dà via il cul, mica non lo so che ce n’è di ometti che rigano dritto e scusi, pelmesso, glazie e magari hanno pure la legge del loro mao da rispettare?

Se vai per via Farini, via Lancetti, via Stelvio, via Marche tutte queste zone, le mie, dove che inseguivo lucertole da bambino e tiravo su le gonne alle ragazzette, sulle panche dove si parlava di pallone, nei bar dove ci si dava appuntamento col Beppe, col Gigi, negli oratori dove tiravo calci col Paletta, nei localeti dove che con la Barbara si prendeva il caffè, e poi da per tutto, per strada, nei negozi, sulle fermate dei tram, perfino sul muretto di Parco Savarino, i marocchini, gli egiziani, i sudanesi, i tunisini, con le loro facce gialle o vaniglia da malaria, scure o mezze scure, mezze qualche cosa, che hanno il coraggio di portare qui da noi le loro donne vestite da carnevale o affogate nei veli neri fino agli occhi, con i ragazzetti figli di puttana che ti guardano con i loro sorrisetti maligni e ti promettono di fotterti domani la tua terra da sotto. Inutile il pianto l’è la stessa roba, da per tutto l’è pieno; e la Bovisa e Sant’Ambrogio e dietro al Sempione. I caffè, le trattorie, gli alimentari, i tabacchi, perfino il pane, i supermarket e le scarpe li hanno in mano le facce gialle, i pakistani, i bengalesi: hanno comprato tutto loro. E lascia perdere che ti fa male alla salute, mi dice sempre il Beppe, tranquillo che lascio perdere, mica ci posso fare una malattia, ma almeno ognuno al posto suo tirar dritto e fare come si fa noi, te capì amico mio? Che poi bisognerebbe, ai bongo-bongo e ciù en lai, bisognerebbe almeno spiegarci come profumava l’erba qua nel quartiere una volta, dell’odore che c’era dentro alle osterie di sessant’anni fa, degli scoiattoli, degli odori di una volta insomma, di come che si mangiava noi un tempo, farci capire, farci entrare in corpo tutti i sensi e i sentimenti che si aveva noi povera gent dello Scalo Farini.
Ma insomma, al fine che vuoi farci, l’è il futuro, dicono, e poi ci si abitua a tutto, te fai il tuo, righi dritto, grazie: quattro michette e due toscani e ciapa ‘sti due euri, pakistan; la me se scusi, ma dovrei passar per salire sul mezzo, fachiro col camicione, faccia da babbuino; sciura ciun-ciun la dica per piacere al figliolo di togliere la bici da sopra il cofano della Panda e appuntato, un ocio a ‘sti due figli di Maometto che stanno a guardare un po’ troppo attenti l’entrata de la posta; e và, lascia perder Guanin, taci, che l’è meglio, Giuanin tira dritto, Giuan, un bicchiere due chiacchiere sul Milan e vai casa, no? Giuanin ciudi la porta e tiutt‘sto mondo de facce gialle sta fuori dai coglioni, te capì? E allura quando che arrivo in via Arnaldo da Brescia, dove che sono vissuto tutta la vita, e magari sul portoncino di casa ho scostato, dando col bastone sulle ciappe, i due mezzi negri che stanno sempre sedù sul gradino, mi chiudo il portone alle spalle e te salù a tutti. Anche se l’è un caldo de la Madonna in agosto e tutto, le finestre le tengo ben ciuse anche loro, perchè tutto ‘sto gran baillame sta fuori dai coion; certo che mi contento di poco, si capisce amico mio, la mia minestra calda, il barolo, il mio tg, il filmetto e si fotta tutto il mondo e buonanotte. Almeno a casa sarò paron, vacca di una troia!
Al TG parla il Papa, di ‘sti benedetti fratelli del mondo che vengono a cercare tutti qua una speranza di vita, ma si caro Francesco, pastore di tutte le anime da accogliere fraternamente, che sei tanto mite con tutti nel tuo bianco Vaticano, tu che sei buono e mi chiedi di perdonare tutti, come Cristo, guarda che io lo sforzo grande, ma grande, l’ho fatto e ora, finalmente, dopo i terun, io ora riesco pure a viverci in mezzo agli albanesi, ai baluba, alle facce gialle, a tutti ‘sti  colori, ‘ste facce, ‘sti parlari strani, a ciapar il caffe da Ben Alì, comprare le sigarette da Wuan-Chu, farmi fottere il posto in tram dalla Solange e andare avanti, perché se non lo puoi cambiare lo stato delle cose, sottomettiti saggiamente ad esso, caro Giovanni: si don Gino! Cussì, attenti a rigar dritto e poi ognuno al suo posto e ciusa la porta e buonanotte alla secchia (secchia, per non dir altro, Santo Padre).
Però quest’altra cosa no che non può andare giù, e no miseria boja, che da quando la settimana passata hanno aperto quel buco orientale, Dio solo venendo sa da dove, qua sotto al mio balcone, al posto della vecchia trattoria piemontese fallita l ‘altro mese, caro il mio Bergoglio Giorgio, ora non son padrone, dico, nemmeno a casa mia, col caldo cane di questi giorni e porte e finestre serrate, sigillati spifferi e fessure, non sono libero di sfuggire al lezzo, al tanfo lercio e nauseante di quei bolliti di montoni e cavoli e soprattutto di quella spezia ruffiana e invadente, che mettono dentro a tutte le loro porcherie, quella curcuma, come cazzo se dis, che non ti dà requie e ti insegue in tutte le stanze, notte giorno e non finisce mai – ma da dove porcaccia Eva salirà su poi, dall’acqua dello sciacquone, dalla conduttura del gas, dai muri? E’ un assedio senza riposo, un infame serpente tentatore che non ti liberi di lui. Con quale diritto, chi vi ha dato il permesso a voi baluba? Ero riuscito mandare giù tutto, vivere in mezzo a tutto questo carnevale di tutto il mondo che mi è venuto a vivere intorno e sono andato avanti lo stesso; ma dentro la mia casa no eh! non ho scampo, mi perseguita ogni giorno, senza pace, quell’odore di straniero, quel senso acuto e speziato che ti fa sentire strano e ti fa uscire di regola. Questo mai!

Sicchè adesso l’è finita. L’aroma di frattaglie di maiale e verza della mia cucina va avanti da due giorni e tre notti, mentre adess penso che metterò su il midollo per un altro paio di giorni e lesserò riso su riso; intanto è andata via una damigiana da cinque litri di nebbiolo giù per gli imbuti e per i tre gargarozzi fetidi e sui fornelli stasera metterò a bollire a lungo, rabboccandolo di continuo, un ramaiolo di bardolino con chiodi di garofano e cannella, per il brulè. Poi andrò avanti con le fritture dei mondeghili e i rustin negà. L’impasto abbondante per le cotolette salterà sull’olio bello caldo tra un pò, visto che te, faccia d’oliva qua, mi hai appena detto poco fa che non sopporti l’odore di tuorlo fritto. Il fioeu qua, avrà undici, dodici anni o giù di lì: è l’unico a cui non avevo messo il sonnifero nell’aranciata la sera che invitai voi della trattoria orientale, te e la tua bella famigliola, a prendere qualcosa su a casa mia, così per conoscerci meglio. Sai, mi ha implorato per due giorni, con le grida soffocate dal cencio in bocca, di farlo andare a casa e di smetterla, che lui non c’ha colpa. Lui respira ancora, ma a fatica, mentre la stracciona velata, che sia tua moglie,  - concubina o troietta, che vuoi che sappia? - ormai ha smesso da alcune ore e i suoi rantoli si sono mescolati per un pezzo coi bocconi de panettun che le venivan fuori; tu invece, amico mio faccia d’oliva, che pari ben in carne, più che andato sembri svenuto. Io intanto devo stare attento a non scivolare con tutta la porcheria che avete mandato fuori voi bestie sul pavimento e andare avanti con la cucina. Le cose vanno fatte per benino e fermarsi a questo punto non si può più: e no, sarebbe troppo facile! i mei bravi untori di narici, persecutori dell’olfatto, che ci mangiate sopra alle nostre teste e ci obbligate a respirare le vostre porcherie, almeno fin quando non avrò finito le scorte di riso, di frattaglie, di midollo, le damigiane di vino e tutto il resto. Fino a che non avrete capito, e non vi avrò messo dentro e dentro e dentro, fino a farvi uscir fuori pure l’anima, tutti i profumi, i sensi e i sentimenti di noialtri, povera gent dello Scalo Farini.

 

Feltre agosto 2015

2 commenti:

  1. Un epiloco tragico in un crescendo di rancore per il diverso. La idealizzazione del passato nella negazione dell'altro e della diversità come arricchimento. Attualissimo,.coinvolgente e scritto con la solita maestria.

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  2. Scusate per errore di battiutra è venuto fuori epiloco e non epilogo

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