Le case
erano le stesse ma più allegre e linde: dietro a via Farini, dalle parti di via
Testi erano per lo più prati, pozzanghere e nebbia. C’erano i Walter, gli
Alberto, i Gino, i Beppe, i Sandro; le Terese, le Mariette, le Luise, le Silvie,
le Roberte. Tutta gente che sapeva di sapone da bucato o minestrone, boia d’un
cane, di vino rosso tuttalpiù, Giuda ladro! allora c’erano le cicogne che
facevano i nidi sopra alle pertiche vecchie della luce e pure gli scoiattoli
settant’anni fa, ti venivano a mangiare dalle mani, te lo giuro, sulla testa di
mia madre, si proprio qua, nelle aiuole, nei giardinetti tra Piazzale
Maciachini e via Zara, non tutte ‘ste puttane di zanzare di adess che ti si appiccicano
addosso come gli zingari. Noi dello Scalo Farini, si era tutti figli di operai,
che avevano fatto la guerra, gente semplice, lavoratori coi calli alle mani,
ascolta baluba! I ragazzi non si aveva tante menate per la testa: lavorare,
aiutare in casa, poi i sabati sera ti trovavi al Parco Savarino in venti con tre
vespe e una Seicento, ma per la balera o il cinema ci si stava tutti su. E la
sezione, gli scioperi e se occorreva menare qualche fascio ogni tanto, tutto
lì; poi le donne, il matrimonio, figli quelli che vengono, vita solita, roba da
operai, da dopoguerra. Ancora erano tempi quelli che ti potevi dir “Tel chi el
terun…” al Salvatore o al Nunzio che passava, a quelli là sorridevano, a mezza
bocca, chiaro, oppure non capivano un cazzo, bofonchiavano qualcosa in
terronese, ti guardavano storditi come i marziani, e via davanti a noi in fila che
si rideva, seduti sul muretto, a prendere aria e fumo. Da ‘ste parti ce n’era
un po’, già allora e poi sempre di più, dalla Bassa, dal Lazio dalla Toscana
anche; ce n’era di animali che puzzavano di pecore e fame lontano un miglio, pieni
di figli sporchi, a nidiate come i topi; ce n’era però anche qualcuno che ci
parlavi; lavorava sodo, ci potevi anche tirare tardi in osteria a bere e
giocare a scopa. Poi, dal cinquanta a ‘sta parte, ne sono arrivati a tir, anzi
a vagonate, che dopo, già nei settanta, la città l’era tutta piena da Bresso a
Corsico, da Baggio a Segrate. Dopo quei là, de l’Africa del nord intendo, poco
a poco hanno imparato a togliersi pidocchi dal cranio, a parlare più calmi, a
non metterti le mani sulla faccia e toccarti quando ti sono vicini, a rigar
dritto insomma. Ora mi dico signori miei non ci devono però avere poi tutto
‘sto amor proprio e orgoglio di razza – razza bastarda s’intende –: dopo
tre-quattr’anni parlavano lombardo, i figli almeno, e certe volte anche i
padri, che a sentirli era un piscio e cercavano di fare i sostenuti e le ragazze
mettevano su le minigonne, le troiette, insomma tutti a somigliare a noialtri
milaness, e per giunta ti tifano Inter e Milan, ti mangiano la cassoeula , dicono
“ven chi…”, “cosa l’è che chest chi?” e bestemmiano davanti a una scopa peggio
che noialtri. Che a parlarci, a tu per tu, poi ti dicono non vorrebbero
tornarci neanche coi piedi avanti laggiù, coi zulù. Hanno imparato, ostia! ognuno
però a stare nelle sue case o ballatoi; ognuno nei suoi appartamenti o catoi,
che diamine, te va a lavurà e poi a casa, finestre ciuse con gli amici tuoi e
non star a rompere i coglioni con ‘ste braccia per aria e ciudi le finestre
quando viene fuori ‘sta puzza di sarde fritte, di pecora cotta o cime di rape
di merda. Poi i figli studiano, i nipoti si scordano da dove veniva suo nonno;
era inevitabile, tutta la mistura di africa, roma, puglia, napoli, noialtri. La
maggior parte intendo testina, che ce ne di quelli che feccia era e feccia è
restà, anche dopo tre generazioni, africa era e africa resta, e và a dà via e
ciapp! Ma insomma in fine, che vuoi farci, che li cacciassimo tutti a fucilate
e calci in culo? Una mano poi ce l’hanno anche data e dopo, l’è vero, basta che
stiano a rigar dritto, a non sgarrare. Te va a casa e chiudi la porta e si
sopravvive. S'è superata anche quella, Milan l’è andà avanti, ognuno con la sua
vita, ognuno coi suoi odori.
Il fatto è che adesso qui da per tutto all’Isola e
anche altrove, sono almeno quindici anni che l'è tutta n’altra roba. Adess sai
come lo chiamano il quartiere? Lo chiamano China Town, quei ciapa ratt di via
Montenapoleone, e ci ridono pure di gusto, porco demonio! Sono arrivati proprio
col nuovo millennio, sempre di più; prima gli albanesi e i rumeni con le loro
facce nere e furtive, poi colombiani, peruviani, croati, serbi, ucraini e arabi,
coi loro occhi scuri e cattivi e poi, vacca boia, soprattutto facce gialle di
più e di più e di più, un diluvio, un’inondazione, un’alluvione dove da
principio l’acqua sale piano e poi tutto d’un colpo è alta due metri e ti porta
via. Che portasse via loro, puttana di una Eva! ma si, va dà via il cul,
mica non lo so che ce n’è di ometti che rigano dritto e scusi, pelmesso, glazie
e magari hanno pure la legge del loro mao da rispettare?
Se vai per via Farini, via Lancetti, via Stelvio, via Marche tutte queste zone, le mie, dove che inseguivo lucertole da bambino e tiravo su le gonne alle ragazzette, sulle panche dove si parlava di pallone, nei bar dove ci si dava appuntamento col Beppe, col Gigi, negli oratori dove tiravo calci col Paletta, nei localeti dove che con la Barbara si prendeva il caffè, e poi da per tutto, per strada, nei negozi, sulle fermate dei tram, perfino sul muretto di Parco Savarino, i marocchini, gli egiziani, i sudanesi, i tunisini, con le loro facce gialle o vaniglia da malaria, scure o mezze scure, mezze qualche cosa, che hanno il coraggio di portare qui da noi le loro donne vestite da carnevale o affogate nei veli neri fino agli occhi, con i ragazzetti figli di puttana che ti guardano con i loro sorrisetti maligni e ti promettono di fotterti domani la tua terra da sotto. Inutile il pianto l’è la stessa roba, da per tutto l’è pieno; e la Bovisa e Sant’Ambrogio e dietro al Sempione. I caffè, le trattorie, gli alimentari, i tabacchi, perfino il pane, i supermarket e le scarpe li hanno in mano le facce gialle, i pakistani, i bengalesi: hanno comprato tutto loro. E lascia perdere che ti fa male alla salute, mi dice sempre il Beppe, tranquillo che lascio perdere, mica ci posso fare una malattia, ma almeno ognuno al posto suo tirar dritto e fare come si fa noi, te capì amico mio? Che poi bisognerebbe, ai bongo-bongo e ciù en lai, bisognerebbe almeno spiegarci come profumava l’erba qua nel quartiere una volta, dell’odore che c’era dentro alle osterie di sessant’anni fa, degli scoiattoli, degli odori di una volta insomma, di come che si mangiava noi un tempo, farci capire, farci entrare in corpo tutti i sensi e i sentimenti che si aveva noi povera gent dello Scalo Farini.
Se vai per via Farini, via Lancetti, via Stelvio, via Marche tutte queste zone, le mie, dove che inseguivo lucertole da bambino e tiravo su le gonne alle ragazzette, sulle panche dove si parlava di pallone, nei bar dove ci si dava appuntamento col Beppe, col Gigi, negli oratori dove tiravo calci col Paletta, nei localeti dove che con la Barbara si prendeva il caffè, e poi da per tutto, per strada, nei negozi, sulle fermate dei tram, perfino sul muretto di Parco Savarino, i marocchini, gli egiziani, i sudanesi, i tunisini, con le loro facce gialle o vaniglia da malaria, scure o mezze scure, mezze qualche cosa, che hanno il coraggio di portare qui da noi le loro donne vestite da carnevale o affogate nei veli neri fino agli occhi, con i ragazzetti figli di puttana che ti guardano con i loro sorrisetti maligni e ti promettono di fotterti domani la tua terra da sotto. Inutile il pianto l’è la stessa roba, da per tutto l’è pieno; e la Bovisa e Sant’Ambrogio e dietro al Sempione. I caffè, le trattorie, gli alimentari, i tabacchi, perfino il pane, i supermarket e le scarpe li hanno in mano le facce gialle, i pakistani, i bengalesi: hanno comprato tutto loro. E lascia perdere che ti fa male alla salute, mi dice sempre il Beppe, tranquillo che lascio perdere, mica ci posso fare una malattia, ma almeno ognuno al posto suo tirar dritto e fare come si fa noi, te capì amico mio? Che poi bisognerebbe, ai bongo-bongo e ciù en lai, bisognerebbe almeno spiegarci come profumava l’erba qua nel quartiere una volta, dell’odore che c’era dentro alle osterie di sessant’anni fa, degli scoiattoli, degli odori di una volta insomma, di come che si mangiava noi un tempo, farci capire, farci entrare in corpo tutti i sensi e i sentimenti che si aveva noi povera gent dello Scalo Farini.
Ma insomma, al fine che vuoi farci, l’è il futuro,
dicono, e poi ci si abitua a tutto, te fai il tuo, righi dritto, grazie: quattro
michette e due toscani e ciapa ‘sti due euri, pakistan; la me se scusi, ma
dovrei passar per salire sul mezzo, fachiro col camicione, faccia da babbuino;
sciura ciun-ciun la dica per piacere al figliolo di togliere la bici da sopra
il cofano della Panda e appuntato, un ocio a ‘sti due figli di Maometto che
stanno a guardare un po’ troppo attenti l’entrata de la posta; e và, lascia
perder Guanin, taci, che l’è meglio, Giuanin tira dritto, Giuan, un bicchiere
due chiacchiere sul Milan e vai casa, no? Giuanin ciudi la porta e tiutt‘sto
mondo de facce gialle sta fuori dai coglioni, te capì? E allura quando che
arrivo in via Arnaldo da Brescia, dove che sono vissuto tutta la vita, e magari
sul portoncino di casa ho scostato, dando col bastone sulle ciappe, i due mezzi
negri che stanno sempre sedù sul gradino, mi chiudo il portone alle spalle e te
salù a tutti. Anche se l’è un caldo de la Madonna in agosto e tutto, le
finestre le tengo ben ciuse anche loro, perchè tutto ‘sto gran baillame sta
fuori dai coion; certo che mi contento di poco, si capisce amico mio, la mia
minestra calda, il barolo, il mio tg, il filmetto e si fotta tutto il mondo e
buonanotte. Almeno a casa sarò paron, vacca di una troia!
Al TG parla il Papa, di ‘sti benedetti fratelli del mondo che vengono a cercare tutti qua una speranza di vita, ma si caro Francesco, pastore di tutte le anime da accogliere fraternamente, che sei tanto mite con tutti nel tuo bianco Vaticano, tu che sei buono e mi chiedi di perdonare tutti, come Cristo, guarda che io lo sforzo grande, ma grande, l’ho fatto e ora, finalmente, dopo i terun, io ora riesco pure a viverci in mezzo agli albanesi, ai baluba, alle facce gialle, a tutti ‘sti colori, ‘ste facce, ‘sti parlari strani, a ciapar il caffe da Ben Alì, comprare le sigarette da Wuan-Chu, farmi fottere il posto in tram dalla Solange e andare avanti, perché se non lo puoi cambiare lo stato delle cose, sottomettiti saggiamente ad esso, caro Giovanni: si don Gino! Cussì, attenti a rigar dritto e poi ognuno al suo posto e ciusa la porta e buonanotte alla secchia (secchia, per non dir altro, Santo Padre).
Però quest’altra cosa no che non può andare giù, e no miseria
boja, che da quando la settimana passata hanno aperto quel buco orientale, Dio
solo venendo sa da dove, qua sotto al mio balcone, al posto della vecchia
trattoria piemontese fallita l ‘altro mese, caro il mio Bergoglio Giorgio, ora non
son padrone, dico, nemmeno a casa mia, col caldo cane di questi giorni e porte
e finestre serrate, sigillati spifferi e fessure, non sono libero di sfuggire
al lezzo, al tanfo lercio e nauseante di quei bolliti di montoni e cavoli e
soprattutto di quella spezia ruffiana e invadente, che mettono dentro a tutte
le loro porcherie, quella curcuma, come cazzo se dis, che non ti dà requie e ti
insegue in tutte le stanze, notte giorno e non finisce mai – ma da dove porcaccia
Eva salirà su poi, dall’acqua dello sciacquone, dalla conduttura del gas, dai
muri? E’ un assedio senza riposo, un infame serpente tentatore che non ti
liberi di lui. Con quale diritto, chi vi ha dato il permesso a voi baluba? Ero
riuscito mandare giù tutto, vivere in mezzo a tutto questo carnevale di tutto
il mondo che mi è venuto a vivere intorno e sono andato avanti lo stesso; ma
dentro la mia casa no eh! non ho scampo, mi perseguita ogni giorno, senza pace,
quell’odore di straniero, quel senso acuto e speziato che ti fa sentire strano
e ti fa uscire di regola. Questo mai!
Al TG parla il Papa, di ‘sti benedetti fratelli del mondo che vengono a cercare tutti qua una speranza di vita, ma si caro Francesco, pastore di tutte le anime da accogliere fraternamente, che sei tanto mite con tutti nel tuo bianco Vaticano, tu che sei buono e mi chiedi di perdonare tutti, come Cristo, guarda che io lo sforzo grande, ma grande, l’ho fatto e ora, finalmente, dopo i terun, io ora riesco pure a viverci in mezzo agli albanesi, ai baluba, alle facce gialle, a tutti ‘sti colori, ‘ste facce, ‘sti parlari strani, a ciapar il caffe da Ben Alì, comprare le sigarette da Wuan-Chu, farmi fottere il posto in tram dalla Solange e andare avanti, perché se non lo puoi cambiare lo stato delle cose, sottomettiti saggiamente ad esso, caro Giovanni: si don Gino! Cussì, attenti a rigar dritto e poi ognuno al suo posto e ciusa la porta e buonanotte alla secchia (secchia, per non dir altro, Santo Padre).
Sicchè adesso l’è finita. L’aroma di frattaglie di
maiale e verza della mia cucina va avanti da due giorni e tre notti, mentre
adess penso che metterò su il midollo per un altro paio di giorni e lesserò
riso su riso; intanto è andata via una damigiana da cinque litri di nebbiolo giù
per gli imbuti e per i tre gargarozzi fetidi e sui fornelli stasera metterò a
bollire a lungo, rabboccandolo di continuo, un ramaiolo di bardolino con chiodi
di garofano e cannella, per il brulè. Poi andrò avanti con le fritture dei
mondeghili e i rustin negà. L’impasto abbondante per le cotolette salterà
sull’olio bello caldo tra un pò, visto che te, faccia d’oliva qua, mi hai appena
detto poco fa che non sopporti l’odore di tuorlo fritto. Il fioeu qua, avrà undici,
dodici anni o giù di lì: è l’unico a cui non avevo messo il sonnifero
nell’aranciata la sera che invitai voi della trattoria orientale, te e la tua
bella famigliola, a prendere qualcosa su a casa mia, così per conoscerci
meglio. Sai, mi ha implorato per due giorni, con le grida soffocate dal cencio
in bocca, di farlo andare a casa e di smetterla, che lui non c’ha colpa. Lui respira
ancora, ma a fatica, mentre la stracciona velata, che sia tua moglie, - concubina o troietta, che vuoi che sappia? -
ormai ha smesso da alcune ore e i suoi rantoli si sono mescolati per un pezzo coi
bocconi de panettun che le venivan fuori; tu invece, amico mio faccia d’oliva,
che pari ben in carne, più che andato sembri svenuto. Io intanto devo stare
attento a non scivolare con tutta la porcheria che avete mandato fuori voi
bestie sul pavimento e andare avanti con la cucina. Le cose vanno fatte per
benino e fermarsi a questo punto non si può più: e no, sarebbe troppo facile! i
mei bravi untori di narici, persecutori dell’olfatto, che ci mangiate sopra
alle nostre teste e ci obbligate a respirare le vostre porcherie, almeno fin
quando non avrò finito le scorte di riso, di frattaglie, di midollo, le
damigiane di vino e tutto il resto. Fino a che non avrete capito, e non vi avrò
messo dentro e dentro e dentro, fino a farvi uscir fuori pure l’anima, tutti i profumi,
i sensi e i sentimenti di noialtri, povera gent dello Scalo Farini.
Feltre agosto 2015
Un epiloco tragico in un crescendo di rancore per il diverso. La idealizzazione del passato nella negazione dell'altro e della diversità come arricchimento. Attualissimo,.coinvolgente e scritto con la solita maestria.
RispondiEliminaScusate per errore di battiutra è venuto fuori epiloco e non epilogo
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