giovedì 4 luglio 2013

Parigi Cortazar/Antonioni

by Pippo Zimmardi


Prima di partire mi ero fatto procurare da Costantino la fotocopia di un breve racconto di Cortazar ambientato nell’isle de St-Luis dal titolo “le bave del diavolo”. Da questo racconto Antonioni ha preso spunto per il suo Blow-up ed io volevo vedere i luoghi di ambientazione del racconto. Non si trattava di una ricerca di archeologia del set come sarebbe piaciuta a Michele Mancini, bensì di una mia curiosità sulla virtualità del set. Quale sarebbe stato il set del film di Antonioni se fosse stato ambientato e girato negli stessi luoghi indicati dal racconto originale?  La caccia alle possibili differenze sarebbe potuta essere il gioco più appropriato da sostenere. Un fotografo crede di aver fotografato una determinata situazione che si rivela altra e poi ancora un’altra. Avevo previsto anche la possibilità, trovato il luogo delle sviste, di fare qualche ripresa con la videocamera: il cielo, le nuvole, gli angoli e i passanti.



- Vuoi rifare il film?- Aveva ironizzato Costantino nel consegnarmi i quattro foglietti del racconto.
  Decido così di non portare nessun apparecchio nel mio giro.
La vocazione letteraria ai fantasmi dell’isola di san Luigi è raccontata, con più o meno dovizia di citazioni e numeri civici illustri, in tutte le guide parigine. La mia passeggiata, tuttavia, non avrebbe avuto presunzioni di locazioni precise, mi sarei limitato a seguire i riferimenti stradali del testo del racconto per fermarmi, come ho già detto, nel probabile luogo degli inganni.
  L’isola è al centro della città ma abbastanza isolata dal trambusto. Alle diciotto e trenta di estate le strade sono deserte. Molti negozi di anticaglie chiusi, ristoranti in apertura, chiese. Da una finestra il suono di un pianoforte che accompagna una voce impostata. Il Quai d’Anjou, citato nel racconto, è il lungo senna. Di fronte si vede Paris plage, la spiaggia inventata di Parigi di cui arrivano rumori, musiche e voci dagli altoparlanti come da un luna park lontano.
 Mi fermo all’altezza dell’hotel de Lauzun 1657, accanto al numero civico 17 il tubo della grondaia prende forma di un mostro marino verde, un serpente che mangia se stesso. Baudelaire vi soggiornò, un racconto di Jules Théophile Gautier vi colloca l’entrata ad un club esclusivo. C’entra in qualche poesia di Apollinaire? Continuo a camminare sino alla fine dell’isola. Un piccolo giardinetto pubblico ne occupa la punta. Sarà il giardino del racconto? Attraverso una strada trafficata. E’ la strada ponte, pont Sully. Passo oltre il cancello. Bambini e genitori, qualche vecchietto. Le aiuole sono curate, nella terra battuta dei vialetti passerotti saltellano e cercano col becco il posto da scavare, forse a caccia di un verme o di una tana dove accucciarsi per un po’ di fresco. L’estrema punta del giardino è una prua di cemento che s’incunea nella Senna. Mi sporgo a guardare l’acqua che scorre senza fretta. Poi la luce prepotente del pomeriggio estivo inoltrato, le ombre, il verde. Potrebbe essere questo il posto. Un piccolo spazio verde. L’esatto opposto dei grandi prati, delle colline, dei campi da gioco e delle scalinate del parco di Londra dove Antonioni ha poi  ambientato il suo film. Qui aiuole recintate, qualche albero e, quasi in uscita, la base di un monumento senza statua. Entrambi i luoghi tuttavia sembrano riuscire a isolare dalla grande città.  Leggo la scritta sulla base della statua: ad Antoine Louis Barye, i suoi ammiratori di Francia e d’Inghilterra. La domenica mattina del racconto sarebbe potuta essere qui. Mi siedo in una panchina tiro fuori della tasca le fotocopie sgualcite del racconto e rileggo la parte che riferisce dei luoghi. C’è qualcosa che non quadra. Certo la sgrammaticatura programmatica per quanto espressiva non giova alla comprensione immediata, la retorica non paga. i riferimenti topografici, tuttavia, sono chiari. Il protagonista, un traduttore fotografo, una domenica ventosa di novembre, esce dal suo appartamento in rue Monsieur le Prince e si avvia in direzione della Sainte Chapelle. Per ammazzare il tempo, che lo divide dalla buona luce, devia il suo percorso e fa un giro nell’Isola St. Louis. Lungo il quai d’anjou. Passa dinanzi all’hotel de Lauzun. E alla fine perviene a uno slargo, dove scatta alcune foto.  Controllo sulla guida di Parigi e ho la conferma. Rue Monsieur le Prince si trova nel quartiere latino vicino al museo di Cluny. Mi convinco che il mio punto d’arrivo è l’inizio della passeggiata del protagonista sull’isola, nel senso che io ho fatto inconsapevolmente il suo percorso a ritroso. Ritorno su i miei passi sino alla punta estrema del quai de Bourbon. Oltre la strada che s’incurva tra i palazzi, un giardinetto, poco più di qualche aiuola e l’argine alto del fiume. Appoggiata al parapetto, una ragazza giapponese scatta foto in direzione della strada con il telefonino. La seguo con lo sguardo sino a vederla sparire giù per le scale che portano all’argine basso del fiume. Il posto è realmente isolato. Il ponte d’accesso all’isola, smista le folle all’entrata dirigendole lontane da questo spiazzo alberato e ventoso. La strada tuttavia rende possibile la sosta in auto. Come nel racconto. Un appartato angolo di città. La città del film, Londra, rimossa nel parco. La città del racconto, Parigi che ci regala il suo lato nascosto, non trafficato ma percorribile. La città del film che si oblia, il suo svanire, la virtualità del suo improbabile non essere, il suo possibile attuarsi, non attraversabile. Lo sguardo del racconto che si riscopre distratto e disorientato. Lo sguardo del film che ostenta sicurezza e cade nell’inganno di ciò che non ha limiti. Due protagonisti, due soggetti. Uno, il traduttore del racconto,  che si conferma in fuga, nella scoperta della complicazione. L’altro, il fotografo del film, che si esclude nell’illusione.
 Mi avvicino al parapetto e guardo per vedere che fine avesse fatto la giapponese. Giù sulla punta dell’argine ragazzi preparano picnic o, organizzati con luci, amplificatori e chitarre, sono lì per lì per fare festa. Aspettano forse il tramonto per iniziare. La ragazza non si vede più. Mi giro. Ho dinanzi la scena della storia: fondale e quinte.  Traccio qualche linea sbilenca nel notes.  Suoni e voci filtrano nel vento tra le fronde dell’albero di lato al muro del palazzo. La strada è vuota. Vento e vuoto male si accordano alla prosa gonfia del racconto, mentre invece mi ricordano la colonna sonora del film. Il fruscio delle foglie nel parco che le cronache raccontano realizzato in studio. Mi chiedo se Antonioni abbia visto questi luoghi prima di fare il film o se la scelta di ambientare il film a Londra, nella memoria di set precedenti, abbia escluso a priori qualsiasi sopraluogo mirato. Le voci e le musiche dai diffusori di Paris plage arrivano come un ronzio appena fastidioso, riconoscibili ma lontani. Al tramonto cesseranno e lasceranno il posto alle chitarre e ai suoni autarchici dei picnic sull’argine che si daranno un’anima con gruppi elettrogeni e computer.


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