sabato 6 agosto 2011

La città sognata













di Enzo Barone

Una sera qualunque d’estate chiudete gli occhi, con ogni vostra convinzione,
chiudete gli occhi e, respirando forte sotto il porticato l’aria che sa di sale, sognate, sognate oppure immaginate di farlo, se non ne siete più capaci.
Sognate la vostra città o un’altra che solo un po’ vi rassomigli o una sconosciuta e lontanissima.
Lei sa di essere sognata e per di più lei stessa è compresa dentro un sogno, il delirio eterno in cui tutte le cose esistono, prima di essere create.
Camminate nel sogno, avanzate con l’andamento quieto e misurato dei sonnambuli o con l’andatura di chi passeggia senza fretta, oppure sorvolate il suolo a un metro circa da terra o levitate del tutto, traslocate come il fantasma del Louvre od ogni genere di spettri.
Adesso state osservando ciò che si prospetta davanti ai vostri occhi: siete ancora ai confini del sogno e però state entrandovi già dentro. Dietro di voi l'opaco sfondo che sconforta; davanti si apre la città.
E’ deserta e scura, anzi è la notte stessa in forma di città, ma inondata, schiarita da fanali e lampioni a regolari intervalli, in sincrona alternanza con le ombre scure: l’asfalto si bagna qua e là di questo sfrangiarsi di sommesse luci giallognole, sbiadite; il nero della pece è luce friabile e frastagliata in scaglie che si allarga piano piano, come una macchia d’olio.
Avanzate e la città si apre, deserta e inanimata, disabitata e silente, profonda e senza memoria: nessun rumore vi ha mai albergato. Ecco si dipana, si allarga ai vostri occhi in spigoli e vie e piazze, in spazi da minimi a madornali; come una chiazza di nero bitume o di sangue si allaga, si espande quasi d’istante in istante rovinosa come un’inondazione, come il crollo di una diga.
La via, la piazza che vi trovate innanzi forse è quella che sapete, esattamente definita dalle verticali e ortogonali dei suoi edifici: si apre davanti al vostro volo di airone e affonda nel buio ed ecco che essa non è quella che era, non lo è mai stata. E’ senza confini: prospettiva smisurata con punto di fuga infinito. Pensate a dove potrà avere fine e già siete al suo fondo ultimo; ne percepite l’inestricabile sequenza d’incroci, trivi, spigoli, svolte e li seguite istantaneamente: strade che si dipartono di volta in volta senza sosta, sempre più freneticamente, che fuggono in diritte, deliranti prospettive, strette e vorticose, e le percorrete ad una velocità siderale e angosciante, slittando, scivolando tra lo sfavillare dei fanali e i riflessi delle vetrine.
Adesso la città davanti a voi si dilata e si richiude, cresce e si restringe a volte indovinata ed esatta, a volte ignota, disorientante. Giungete adesso in un quartiere remoto, forse sconosciuto, ma certamente terribilmente amato, a voi intimo, però trasmutato, si…camuffato e travestito in altre spoglie. Il vostro andare si è ora misteriosamente rallentato. Vi lasciate condurre dall’andamento che vi guida, addentrandovi, seguendo il tracciato con naturalezza, portati dal vostro istinto, come catturati da una mistica processione oppure, dietro ai vostri sensi, salendo su per il corpo di una donna. Ma non è una donna qualsiasi che vi guida: è il senso di vostra madre che vi chiama irresistibile e tremendo.
Svoltate per un vicolo segreto e attraverso uno stretto passaggio vi trovate dentro un desolato mercato deserto, le lastre del basolato luccicano alla luce dei fanali: sentite che quello è il nucleo di ogni incanto. E’ un luogo ancora sporco della sua vita mattutina, sporco e fatiscente: i portali antichi sbrecciati, le cornici dei palazzi logore, le mensole ricurve dei balconi consumate, le facciate fiaccate e scrostate. Gode di una tisica bellezza, nella sua eterna barocca rovina. Mentre vi fermate a considerarlo una raffica di scirocco asfissiante di colpo vi toglie il respiro e spazza via la lordura. Traversate la piazza e sentite che quello spazio è divenuto il ventre buono che vi ingoia; è il centro, il vuoto invisibile e famelico che inghiotte, ma in un viluppo tiepido e uterino.
E’ un cedere, un precipitare senza fine in un burrone senza fondo, l’essere trascinati, senza volontà alcuna, in un irresistibile buco nero primordiale.
Si, vi sentite trascinati dentro, sentite già di essere tornati lattanti al seno della madre, non della vostra però, della madre di ognuno, la madre universale: anzi di più, siete nell’arcano del suo utero stesso e provate il calore umidiccio di un cucciolo che vi stia leccando il dito. 
Ed è proprio adesso che avvertite infine di essere soli, irrimediabilmente, completamente soli: non privati della presenza di alcuno, ma in una solitudine assoluta, l’unico essere esistente di quello spazio.
Unici, nel ventre della madre universale, insieme alla lordura del mercato vuoto e della sua tisi, al bitume e ai fanali, alle diagonali e alle prospettive, ai trivi e agli spigoli, in un tutt’uno con la città e col suo sogno.
Solo quando capirete che la madre è la città, saprete che voi ne siete una sua parte; basola, strada, incrocio e verticali più che uomo o essere vivente.
Solo quando capirete di essere tutt’uno con lei potete addentrarvi in ogni strada, viale, passaggio o largo; abitare ogni piazza, piazzale, giardino; entrare in ogni quartiere, isolato, caserma; penetrare infine in ogni palazzo, villetta, casa, o catoio,  negli appartamenti e nelle stanzette ammuffite, penetrarle nella calce e nel tufo, nelle tegole e nei tinelli, nel cemento armato e nelle lamiere, arrivando a percepire con la più intensa vibrazione giù fino al midollo di averla posseduta carnalmente in tutte ed ognuna di queste cose.
Unicamente allora potrete avere nelle vostre vene, nel vostro sangue ogni suo sentimento, ogni suo istinto, sentirne il cuore stesso, come sente chi ne è ormai figlio, amante e padre.
Succederà quindi che - proprio quando avvertirete che siete condotti dove volete non più planando, ma desiderandolo soltanto – divenuti la luce stessa, percorrerete a velocità incommensurabile un groviglio delirante di incroci, una sequenza vertiginosa di vicoli e di viali diritti, sterminati che si susseguono e infine, di colpo, sarete nella casbah più segreta, nel cuore tenebroso di un presentito, mistico sancta sanctorum, come nel ricettacolo più impenetrabile del tempio di Luxor, come nell’aleph più impensabile e sacro.
E allora illuminati come il Budda, prescienti come san Giovanni, sapienti come Platone sentirete di avere nella vostra mente, nel vostro sangue, nella vostra pelle, la madre vostra, tutti i diecimila anni della sua storia, tutti i gemiti dei suoi piccoli, tutti gli assedi alle sue mura, tutti i pianti delle sue donne, tutte le fedi abbracciate, tutte le fedi abiurate, tutti i testamenti traditi e le nozze onorate, tutti gli orrori conclusi, tutti le grida del suo popolo, tutto il ferro, il fuoco il tritolo, ogni devastazione, gioia, disonore, brandello, sangue e tragica grandezza dei suoi figli.
Voi e la madre vostra, voi e la generata vostra, voi e l’amante vostra; voi e la vostra città.
Poi, come dismessi dall’incanto lucidissimo, tornerete ad essere soltanto voi stessi. No, non vi desterete dal sogno, semplicemente smetterete di planare e scenderete a terra. E in un silenzio assoluto nell’angolo più remoto di quel luogo che vi ha trovati vedrete aprirsi uno strettissimo passaggio, vibrare giù in fondo una piccola, ma intensa luce.
Vi giungerete silenziosi e circospetti, a piccoli passi, come in preda ad un timore denso, ad un presentimento.

Così dentro un portone di una casupola cadente, intravedrete un fuoco acceso su di un braciere. La fiamma brucia vigorosa, ma voi invece sentite freddo, un freddo acuto. Chini intorno al fuoco vedete finalmente dei viventi. Avanzate lentissimi e silenti e mentre lo fate via via vi accorgete che quello è un posto sordido, un antro cupo, umido di muffa, maleodorante, che vi opprime con un peso formidabile. Quegli esseri, neanche uomini forse, sono cupi e neri di fumo e opprimenti anch’essi. Parlano di rado, guardando il fuoco: piuttosto fanno cenni d’intesa col capo e col corpo, emettendo strani suoni gutturali talvolta. E’ grave e dura la loro presenza, il loro esistere: sa di ferro e abominio.
Siete ora a pochissimi passi da loro, sentite persino il loro respiro cavernoso, il loro alito mefitico; girate intorno ad essi in cerchio senza che notino minimamente la vostra presenza. Come mai vi chiederete a questo punto? Forse - solo adesso lo ricordate - perché siete ancora in un sogno, nel sogno che avete sempre cercato, che avete sperato.
E vi è dato di essere tutt’uno con la vostra città, il suo amante persino. Vi è dato, si diceva, per incanto, di sentire nell’intimo la sua carne, l’origine di ogni sua tara, vizio o colpa.
Perciò in questo preciso istante sapete, capite al fine pienamente, senza doverlo chiedere, senza conoscenza, coi sensi soltanto, con la sapienza mistica dei profeti, che quello deve essere il luogo misterioso; dopo anni o secoli di ricerca e patimenti avete trovato in ultimo la causa precisa e unica delle meschine congiure, delle demoniache trame, dove si ordisce con coscienza e metodo ogni nequizia, la fetida e sciente fucina infine del male tutto della città.
Tutto, l’assurdità di ogni orrore e corruzione, è spiegato, tutto è compreso, tutto è chiaro, semplicemente.
Soltanto in quel momento svegliati dal sonno sognato in grembo alla madre vostra, potrete ormai morire al mondo come dormienti, non come sognatori.
 
Palermo-Feltre

6 agosto 2011


1 commento:

  1. un'atmosfera allucinatoria molto coinvolgente... :))) ennio

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