di Francesca Saieva ......................................................
.Tra detto e non detto il caos regna sovrano e l’immaginario collettivo rimane impelagato nel ‘dubbio’ di ciò che si esplicita nel nascondere l’implicito. Da poco più di una settimana il cielo è in fiamme. Presto per tirare le somme e fare il punto della situazione (no di certo per le vittime di Misurata, Bengasi e Tripoli…), tardi per neutralizzare gli eventi. Così, tutti invitati al ‘gran ballo imperiale’ assistiamo alla parata di carri guidati da missionari armati e da cesari bonapartisti mentre intonano un ‘canto libero’ tra interferenze radiofoniche e velleità canore di un Robespierre (di turno): “la guerra è sempre il principale desiderio di un governo potente, che vuole divenire ancora più potente” (intervento di Robespierre alla Legislativa, 18 dicembre 1791).
Ma a quanto pare la negoziazione è già on the road anche se non tutti sembrano esserne convinti. Infatti, Francia e Gran Bretagna si stringono nel sodalizio, l’Italia ‘sciorina’ le sue idee (compiaciuta di averne), mentre la Nato sta aspettando con pazienza perché si ricompongano i ‘ranghi’, tra luci di un neon che lampeggia sul display: RISOLUZIONE 1973. E i successi non tardano ad arrivare, sono queste le ultime notizie. Intendendosi sul concetto di successo, sempre nell’ottica di una “guerra diventata status, condizione costituente per la possibilità di un’alternativa democratica” (il manifesto, 25 marzo 2011). In fondo, retrocedendo solo di ‘qualche’ anno tra propagande militari e politiche espansionistiche, la storia del mondo, travestita di slanci umanitari, incarna strategie democratiche con i suoi ‘se’ e i suoi ‘ma’. Già Sparta d’altronde, insofferente ad Atene, assecondava (nell'ultima fase della guerra del Peloponneso) la parola d’ordine: portare la libertà, prescindendo dalla provenienza degli aiuti alleati (i Persiani). Opportuna, a questo punto, una riflessione, quella di Luciano Canfora però, quando, in riferimento alla crisi ateniese del 411 a.C. e al successivo intervento spartano, scrive: “Non è esatto dire che i greci tutti avevano chiesto a Sparta di essere liberati, bensì soprattutto quella parte politica e sociale delle città e delle isole che avevano invano e per decenni tentato di abbattere il potere popolare puntellato da Atene. Ora le parti rischiavano d’invertirsi” (L. Canfora, Esportare la libertà, 2007). Rischio inevitabile, perché se è vero che la legge della causa-effetto regola la storia, è vero anche che a un liberatore corrisponda sempre un oppresso, e così pure il suo inverso. Tanto che nel gioco di rimandi il do ut des diviene epicentro di questo nostro ‘mondo coloniale’ a scomparti. Quest’ultimi credo non più evidentemente e facilmente quantificabili, secondo una storia tradizionale che, ancor di più oggi, è sovrastata da questioni economico-petrolifere, da politiche gestionali irrisolte (ad esempio la questione MAGHREB) e da particolareggiate individualità nazionali d’interesse per il Nord-Africa, di minore o maggiore peso. Non più due grandi blocchi ma ‘barriere utili’ all’interno dei due scomparti. E l’eco dispersa di un vecchio slogan gandhiano, non ci sono guerre giuste, sembra giungere ai primi di aprile su qualche piazza a prova di bomba, ma purtroppo mescolata ad altre ‘distorte’ voci di piazza, assertrici di quanto “in colonia l’interlocutore valido e istituzionale del colonizzato, il portavoce del colono e del regime di oppressione è il gendarme o il soldato” (Frantz Fanon, I dannati della terra, trad. it. di C. Cignetti, 1962). Chissà che il vero problema non risieda nella gestione stessa della libertà, snaturata e involgarita da retoriche indecenti di salvatori del mondo, al caro prezzo del petrolio nel baratto di vite umane. La libertà in Africa, oltraggiata e offesa dal tiranno, in questi strani giorni, reclama il suo ‘essere’. In chi confidare allora, se non nel primo ‘passante’, il suo amico ‘mercenario’. E il mondo intero con i suoi profughi è in fiamme. La terra brucia di cadaveri nello Yemen e così anche in Siria. Ma qualcuno dirà: è un’altra faccenda. Io, però, non sono sicura che sia un’altra storia.
.Tra detto e non detto il caos regna sovrano e l’immaginario collettivo rimane impelagato nel ‘dubbio’ di ciò che si esplicita nel nascondere l’implicito. Da poco più di una settimana il cielo è in fiamme. Presto per tirare le somme e fare il punto della situazione (no di certo per le vittime di Misurata, Bengasi e Tripoli…), tardi per neutralizzare gli eventi. Così, tutti invitati al ‘gran ballo imperiale’ assistiamo alla parata di carri guidati da missionari armati e da cesari bonapartisti mentre intonano un ‘canto libero’ tra interferenze radiofoniche e velleità canore di un Robespierre (di turno): “la guerra è sempre il principale desiderio di un governo potente, che vuole divenire ancora più potente” (intervento di Robespierre alla Legislativa, 18 dicembre 1791).
Ma a quanto pare la negoziazione è già on the road anche se non tutti sembrano esserne convinti. Infatti, Francia e Gran Bretagna si stringono nel sodalizio, l’Italia ‘sciorina’ le sue idee (compiaciuta di averne), mentre la Nato sta aspettando con pazienza perché si ricompongano i ‘ranghi’, tra luci di un neon che lampeggia sul display: RISOLUZIONE 1973. E i successi non tardano ad arrivare, sono queste le ultime notizie. Intendendosi sul concetto di successo, sempre nell’ottica di una “guerra diventata status, condizione costituente per la possibilità di un’alternativa democratica” (il manifesto, 25 marzo 2011). In fondo, retrocedendo solo di ‘qualche’ anno tra propagande militari e politiche espansionistiche, la storia del mondo, travestita di slanci umanitari, incarna strategie democratiche con i suoi ‘se’ e i suoi ‘ma’. Già Sparta d’altronde, insofferente ad Atene, assecondava (nell'ultima fase della guerra del Peloponneso) la parola d’ordine: portare la libertà, prescindendo dalla provenienza degli aiuti alleati (i Persiani). Opportuna, a questo punto, una riflessione, quella di Luciano Canfora però, quando, in riferimento alla crisi ateniese del 411 a.C. e al successivo intervento spartano, scrive: “Non è esatto dire che i greci tutti avevano chiesto a Sparta di essere liberati, bensì soprattutto quella parte politica e sociale delle città e delle isole che avevano invano e per decenni tentato di abbattere il potere popolare puntellato da Atene. Ora le parti rischiavano d’invertirsi” (L. Canfora, Esportare la libertà, 2007). Rischio inevitabile, perché se è vero che la legge della causa-effetto regola la storia, è vero anche che a un liberatore corrisponda sempre un oppresso, e così pure il suo inverso. Tanto che nel gioco di rimandi il do ut des diviene epicentro di questo nostro ‘mondo coloniale’ a scomparti. Quest’ultimi credo non più evidentemente e facilmente quantificabili, secondo una storia tradizionale che, ancor di più oggi, è sovrastata da questioni economico-petrolifere, da politiche gestionali irrisolte (ad esempio la questione MAGHREB) e da particolareggiate individualità nazionali d’interesse per il Nord-Africa, di minore o maggiore peso. Non più due grandi blocchi ma ‘barriere utili’ all’interno dei due scomparti. E l’eco dispersa di un vecchio slogan gandhiano, non ci sono guerre giuste, sembra giungere ai primi di aprile su qualche piazza a prova di bomba, ma purtroppo mescolata ad altre ‘distorte’ voci di piazza, assertrici di quanto “in colonia l’interlocutore valido e istituzionale del colonizzato, il portavoce del colono e del regime di oppressione è il gendarme o il soldato” (Frantz Fanon, I dannati della terra, trad. it. di C. Cignetti, 1962). Chissà che il vero problema non risieda nella gestione stessa della libertà, snaturata e involgarita da retoriche indecenti di salvatori del mondo, al caro prezzo del petrolio nel baratto di vite umane. La libertà in Africa, oltraggiata e offesa dal tiranno, in questi strani giorni, reclama il suo ‘essere’. In chi confidare allora, se non nel primo ‘passante’, il suo amico ‘mercenario’. E il mondo intero con i suoi profughi è in fiamme. La terra brucia di cadaveri nello Yemen e così anche in Siria. Ma qualcuno dirà: è un’altra faccenda. Io, però, non sono sicura che sia un’altra storia.
ricordando tacito: "ubi solitudinem faciunt, pacem appellant"
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