lunedì 21 marzo 2011

Italianità, il vincolo delle nostre radici


di Francesca Saieva
(photo by Francesca Saieva)
Chi, almeno una volta nella vita, non ha attraversato in auto tutto lo Stivale? Paesaggi e immagini si susseguono nell’alternanza di elementi geofisici che ne determinano i suoi ‘particolarismi’. E sì! Perché proprio da lì, nel suddetto particolarismo, va ritrovata la controversa nonché ambigua nazionalità italiana. A distanza di pochi giorni dai festeggiamenti per i 150 anni dell’unità d’Italia, la ‘sbornia’ non è stata ancora del tutto smaltita; sembrano confermarcelo le ultime polemiche in merito alla questione libica sempre più ‘cogente’.
In questi giorni, “E’ GUERRA” su tutte le testate giornalistiche e sui media, e l’Italia (giovane nazione per antonomasia, e per tradizione storica passiva nelle ‘pratiche colonialiste’) si accinge ancora una volta a fare da fanalino di coda all’Inghilterra e alla Francia. Certo per la nostra nazione, i corsi e i ricorsi della storia non mancano: ‘interventisti e non’, seppure sotto differenti forme e altre bandiere di partito, dicono la loro. C’è chi sostiene che la cautela possa essere strategica per la questione petrolifera, c’è chi ritiene che la cautela non porti petrolio, sottintendendo quanto la cautela consista in ben altro. Mi chiedo però: quanto incide la questione libica sulla presunta italianità e soprattutto sulla nostra consapevolezza d’italiani? Quanto la fragilità identitaria del Belpaese è imputabile al Risorgimento (perlopiù a un post-risorgimento) tanto da dover auspicare, senza alcuna retorica a un “nuovo Risorgimento” e alla sua ‘partigianeria’?
La questione nazionale ha radici profonde, segnate dai particolarismi locali che già, a suo tempo, hanno scoraggiato imperatori, la loro politica espansionistica e unitaria. La contraddizione italiana permane e non basta di certo una non lontana secessione padana per risolverla; la chiave di volta va invece cercata nella convivenza di ciò che è locale, ma incompleto se non integrato. Così vengono fuori due immagini dell’Italia, una, purtroppo, più realistica di ‘stato-vassallo’, servile, nel tempo abituato ad alleanze variegate, a emulare (ancora oggi) il modello-mito imprenditoriale americano; l’altra più poetica e fantasiosa di nazione-orchestra, nell’accordo armonico dei singoli strumenti per un’unica ‘opera’. Certo, ammetto, vocabolo desueto quello dell’armonia per un paese tutt’al più descritto con amarezza quale povera patria (F. Battiato) e paese del danno e della beffa (G. Raboni).
Così, pure, non va sottovalutato il fattore linguistico. Di questi giorni è l’intervista a Umberto Eco su “Le Monde”, in cui lo scrittore si sofferma sull’unità d’Italia; un paese che egli definisce soprattutto lingua. E a distanza di decenni, ancora attuale è il pensiero di un altro grande, Luigi Pirandello, quando nel 1895 in “La Critica” scrive: “Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? In Sicilia? In Piemonte? No davvero! Si parla, o si vuole parlare nelle scuole, e si trova nei libri. E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti […]”. Peccato che il Belpaese in questo momento sia distratto sulla questione scuola e sul ruolo di ricerca e formazione. Allora siamo proprio sicuri che le colpe dell’Italia e della sua sbiadita italianità siano d’attribuire all’eroe dei due mondi? D’allora di acqua sotto i ponti ne è passata, e l’eroico furore risorgimentale, svuotato del suo significato originario e più prossimo, si è perso nella rivendicazione assolutista di forti nazionalismi. Come non dire che è il ‘dopo’ e non il ‘prima’ a fare il corso della storia, cioè a dire, è ciò che noi facciamo di quello che abbiamo a mutare gli eventi e soprattutto le loro intenzionalità. La storia si fa e si racconta, non sempre giustificabili sono i suoi mezzi nel raggiungere gli obiettivi. Ma la storia dell’Italia è anche la storia delle maschere locali, dei ritratti del cinema d’autore, delle caricature dei vignettisti, degli italiani che s’interrogano sulla loro italianità, del perché c’è tanta difficoltà a ‘ostentarla’. Fare il punto oggi sull’italianità significa tra l’altro considerare la nazione, presente al destino economico delle regioni, prendere posizioni d’intervento sulla questione immigrati, dove l’aprire le frontiere presupponga distribuzione equa sul territorio dei ‘nuovi arrivati’ per il bene collettivo del paese, secondo prospettive integrazioniste delle masse.
“Siamo tutti fuori dalla Terra Promessa – scrive Claudio Magris – verso la quale tuttavia occorre continuare a camminare”, perché è necessario “diventare italiani, perché lo siamo e per diventare europei” ("Corriere della Sera", 1997). Un’immagine nuova dell’Italia, fra dimenticanze ataviche, è dunque richiesta, perché, come scrive nel 1993 Enzo Biagi: “non siano sempre gli stessi a rappresentare la malattia, il medico e la cura” ("Corriere della Sera").
Quaggiù, da noi a Palermo, il 17 marzo il tempo ‘ha fatto bello’; io ho visto tanta gente, auto d’epoca e tanti bambini adagiati sulle radici di alberi secolari.

1 commento:

  1. Intervento di spessore (come di consueto). Me lo sono davvero goduto.
    Complimenti
    Enzo

    RispondiElimina

Questo blog consente a chiunque di lasciare commenti. Si invitano però gli autori a lasciare commenti firmati.
Grazie