giovedì 20 novembre 2014

Viktor

by Giulia Greco
collage by Pippo Zimmardi

Viktor quella mattina si svegliò di cattivo umore. Quando aprì gli occhi, notò che era una di quelle giornate uggiose, fastidiose, di un grigiore abbagliante; sentì un brivido di freddo attraversargli il corpo come una scossa. Si accorse che la sera prima aveva dimenticato la finestra aperta: la stanza era gelida e il vento aveva fatto volare dei fogli sul pavimento. Che strano – pensò – non avevo mai dimenticato di chiudere la finestra.

Viktor era solito considerare ogni cosa come un segno del destino: analizzava ogni fatto che gli capitava o che faceva capitare, ogni impressione o stato d’animo che ciò che vedeva gli suscitava. Ed evidentemente il destino quella mattina voleva dirgli che avrebbe fatto meglio a rinfilarsi nelle coperte ed evitare di sfidare la sorte, ché tanto quella giornata non gli avrebbe portato nulla di buono. Eppure la sera prima si era impegnato seriamente affinché il giorno dopo tutto fosse stato perfetto: aveva pensato a come vestirsi, a che scarpe indossare, aveva riposto sullo schienale della poltrona vicino l’ingresso la giacca e il cappello, il suo preferito; tutto era stato predisposto alla perfezione, perché nulla andasse storto.
Per sconfiggere l’ansia che gli procurava la sconcertante imprevedibilità del caso, Viktor passava la maggior parte delle sue giornate a tentare di prevedere l’imprevedibile, di calcolare l’incalcolabile, di concepire l’inconcepibile. Tutti i lunedì si sedeva al tavolo dello studio di suo padre e definiva il programma della settimana. Ogni singola ora era destinata a una ben precisa attività: lavoro, studio, pranzo, ginnastica, letture di piacere, pennichella pomeridiana, riposo davanti la tv, sonno; qualsiasi cosa dove essere decisa con largo anticipo e pedissequamente eseguita. Non era possibile alcun cambio di programma. Sapeva che nonostante tutto la sorte avrebbe sempre trovato il modo di giocargli qualche brutto scherzo, di questo ne era ben consapevole. Ma, per quanto possibile, doveva tentare di aggirarla, e non poteva sbagliare di un passo o le avrebbe fornito lui stesso la possibilità di distruggerlo. Aveva sempre immaginato la Sorte come una donna bellissima: nelle sue fantasie aveva dei lunghissimi capelli neri, come quelli di sua madre, e una lunga tunica rossa che disegnava con grazia le sue morbide forme. Lei, bellissima e tremendamente pericolosa. Non gli lasciava mai scampo.
Da quando era morto suo padre e sua madre era stata posteggiata in una casa di cura per anziani in preda ai deliri di una precoce demenza senile, Viktor aveva deciso di tornare a vivere nella casa dei suoi genitori. Tutto era rimasto esattamente per com’era; anzi, aveva fatto in modo che tutto tornasse esattamente com’era quando lui era un bambino. Si era dato un gran daffare, sfogliando gli album di famiglia e studiando con zelo le memorie di sua madre raccolte in un diario, al fine di riportare tutto alla disposizione originaria. Nel suo programma dedicava un’ora, dalle 14 alle 15 del mercoledì, per ispezionare la casa da cima a fondo e assicurarsi che tutto fosse a posto. Persino i grandi asfodeli bianchi nel vaso del soggiorno, che si intravedevano nello sfondo di una foto del suo settimo compleanno, erano sempre lì; ogni settimana si premurava di comprarli, sempre cinque, cinque grandi asfodeli, e li metteva nel solito vaso, nella stessa identica posizione che avevano in quella foto.
Viktor aveva trentacinque anni ma ne dimostrava il doppio; forse anche perché si ostinava a indossare gli abiti di suo padre che il sarto di fiducia gli rimetteva in sesto periodicamente. Aveva una folta barba che gli copriva gran parte del viso, l’aveva sempre tenuta così; per lui era come una maschera spessa che lo proteggeva dal mondo. Alla luce brillavano i peli argentati che cominciavano a spuntare qua e là sul viso. Persino i grandi occhiali dalla montatura spessa, anch’essi appartenuti al padre, avevano la funzione di creare una barriera tra lui e il mondo, e rendevano ancor più inquietanti e intellegibili i già piccoli occhietti neri, due angusti pozzi di cui non si riusciva a vedere il fondo. I capelli erano corti e neri e li pettinava ogni mattina con cura tenendoli sempre in perfetto ordine; l’accostamento improbabile dei capelli liscissimi e unti e della barba riccia e ispida gli donava un aspetto decisamente bizzarro, che destava spesso l’attenzione di chi gli passava accanto. Nondimeno contribuiva a tale eccentricità un bastone che portava sempre con sé nonostante non ne avesse alcun bisogno; era sinceramente convinto che questo gli desse piuttosto un’aria estremamente signorile.

Qualche settimana prima, mentre sistemava delle scartoffie nello studio, Viktor aveva sentito come un peso insostenibile nel petto, un peso che lo schiacciava. Il respiro aveva cominciato improvvisamente a farsi affannato, sentì il sudore freddo scivolargli lungo la schiena e, senza nessuna apparente ragione, ebbe come la certezza di stare per morire. Raccolse il portafogli e le chiavi cercando di mantenere la calma e si precipitò giù in preda a una terribile angoscia. Corse, corse senza fermarsi come se la morte lo stesse letteralmente inseguendo e lui tentasse di seminarla. Arrivò allo studio del medico di famiglia, un signorotto anziano dai lunghi baffi bianchissimi, che quando lo vide lo fece entrare senza una parola. Lo visitò. Non c’era nessun problema, fisicamente, il suo corpo era più che sano. Il medico lo guardò dritto negli occhi e gli disse: “Viktor, ti conosco da tanto tempo, da quando eri un bambino. Io credo che l’unica cosa che non vada in te, sia il fatto che non ti lasci mai andare, non fai nulla che non sia costantemente sotto il tuo controllo. L’unica cura che posso prescriverti è questa: va là fuori, non so.. fai un viaggio, iscriviti a un corso, fa qualcosa che non hai mai fatto prima. Qualcosa che sia ‘fuori programma’ ”.
Viktor non sapeva bene cosa pensare, era terribilmente confuso e spaventato da se stesso, da quella parte di se stesso che improvvisamente non era più in grado di controllare. Decise di seguire il consiglio del medico. D’altronde non sapeva che pesci prendere e del medico si era sempre fidato cecamente. Un viaggio, pensò, sarebbe troppo per me, non sono neanche mai stato fuori città. Ma un corso, un corso di cucina, o di bricolage magari… perché no?
Nonostante avesse trascorso la giornata prima dell’inizio a cercare di pianificare ogni cosa, quella mattina Viktor era decisamente agitato. Aveva fatto in modo di arrivare dieci minuti in anticipo, per paura di non trovare subito la strada. Finalmente era lì, e stava andando tutto per come l’aveva previsto. Si prese di coraggio e citofonò. Attese qualche istante, ma non rispose nessuno. Bussò di nuovo, sentì che il respiro stava ricominciando a farsi affannato, come quella volta quando era fuggito di casa in preda al panico. Ma si disse che doveva stare calmo, che tutto stava andando secondo i suoi programmi, che non c’era nulla di cui preoccuparsi. Sentì la porta del cancelletto aprirsi, come se si fosse aperta da sola. Entrò e cominciò a salire le scale, respirando forte e ripetendosi che non c’era nulla che non andava, non c’era nulla fuori posto, che stava andando tutto bene. C’era una porta aperta al secondo piano e s’intrufolò facendo meno rumore possibile. La casa era buia, c’era uno spiraglio di luce che s’insinuava da una finestrella sul lato destro della stanza. Controllò di nuovo l’orologio e vide che erano le nove e mezza. Era in ritardo di mezz’ora! Ma come era possibile? Proprio qualche istante prima, quando aveva citofonato, erano le nove meno dieci.. L’ansia divenne angoscia febbrile, l’angoscia divenne un’insostenibile vergogna; si sentiva mortificato per quell’inspiegabile ritardo. Avrebbe voluto andarsene, ma qualcosa lo trattenne. Aprì delicatamente la porta che aveva di fronte; era appena socchiusa. C’era una stanza molto grande quasi completamente al buio. Dalle finestre tralucevano sottili spiragli di luce che lasciavano intravedere una folla di persone, una ventina forse, tutte sedute e in perfetto silenzio, rivolte verso una cattedra vuota. Viktor li guardò senza capire e con voce rotta disse: “Scusatemi, sono in ritardo.. ma vedo che la lezione non è ancora cominciata..”. Non rispose nessuno. Sembravano come addormentati, una folla immobile in un silenzio mefitico. Viktor abbassò la testa e si tolse maldestramente il cappotto. Facendosi largo nell’oscurità con i suoi piccoli occhietti che si muovevano impazziti come comete buie in galassie lattiginose, scorse un posto libero dall’altro lato della stanza. Lo raggiunse con difficoltà cercando di fare meno rumore possibile e cercando di evitare il contatto con gli altri. Non appena si sedette, sentì le gote avvampare, e il sudore imperlargli il viso. Non riuscì a trattenersi e chiese con un filo di voce all’uomo che aveva accanto: “State aspettando l’insegnante? … O forse questo è un esercizio… il… il gioco del silenzio? Sì, è questo.. no?”. L’uomo non disse una parola e continuò a guardare fisso nell’oscurità davanti a sé.
Improvvisamente apparve un faro di luce che illuminava la cattedra. Si sentirono dei passi in corridoio, sempre più vicini, sempre più forti. Una porta si aprì ed entrò una donna. Con grazia e senza una parola si avvicinò verso la cattedra, lentamente. La luce raggiunse il suo viso. Una donna, con una lunga tunica rossa, i capelli lunghissimi e neri… era la Sorte! Era lei! L’aveva trovato! Viktor gridò, gridò con quanta voce aveva in corpo fino a far tremare le pareti, le pareti gli si chiusero addosso, lo avvolsero nell’oscurità, una gigantesca terrorizzante oscurità.. e poi il nulla.
Si risvegliò in una stanza di ospedale attaccato a delle flebo, disteso su un lettino, immerso nella luce grigia del mattino. Che cosa era successo? Dove diavolo si trovava? Dentro di sé sentiva soltanto quel grido, come un grido primordiale proveniente da un altro mondo che gli perforava le orecchie dall’interno, come fosse racchiuso dentro la sua testa, dietro gli occhi, negli abissi imperscrutabili della sua anima.

1 commento:

  1. Un racconto estremamente calibrato, misurato nella forma, stilisticamente ineccepibile. C'è anche il clima di trepidazione oscura di Kafka, anche se alcuni passaggi tra un fatto e l'altro sono forse un po' troppo repentini. E' efficace il senso di attesa e di inesorabilità Una prova matura e sorvegliata.

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