di Enzo Barone
Morire per Kobani? E soprattutto morire per Kobani potrebbe
servire a salvare l’umanità dalla barbarie del XXI secolo? Questo potrebbe
essere il nuovo interrogativo epocale che si pone dopo 60 anni - in modo certo infinitamente
più fiacco e senza alcuna aura di romanticismo - ai potentati occidentali di
fronte all’avanzata apparentemente inarrestabile dell’Isis in medio oriente.
Yilmaz Orkan dell’UIKI-ONLUS, Ufficio informazione del Kurdistan
in Italia, è una giovane curda dai lineamenti forti e l’incarnato
bruno dei mediorientali dell’interno, potrebbe anche essere facilmente una
delle nostre donne dalla lontana ascendenza berbera.
Quando parla sembra sempre sul punto di inciampare ed essere
fermata dalla sua stessa emotività. Ci dice in un italiano instabile, ma che
vibra di forza che è come alla vigilia della seconda guerra mondiale. “Allora
una coalizione internazionale sembrava coesa per fermare la follia nazista, ma
fu incerta e si mosse tardi e allora si diede ad Hitler un vantaggio che costò
sofferenze infinite e un numero impressionante di morti. Noi curdi non staremo
zitti davanti a tutto ciò, davanti a questo genocidio.”
L’abbiamo incontrata insieme a Harvin Guneser, un’altra
attivista curda, qualche giorno fa alla facoltà di scienze politiche di Palermo,
invitate dai Comitati di Base No-Muos Palermo per parlare della situazione attuale
in medio oriente e della questione curda.
Yilmaz ha proprio
l’aria di chi sa di cosa sta parlando. “Da mesi i curdi hanno imparato a difendersi
da soli. Noi adesso non combattiamo solo per noi stessi, abbiamo anche il
dovere di combattere per l’umanità, ma abbiamo bisogno dell’umanità. Non
vogliamo nessun intervento militare esterno, non vogliamo nessuno nei nostri
territori. Chi arriva con il pretesto del sostegno militare poi rimane per
controllarli. Non abbiamo necessità delle potenze occidentali, ma aiuti
umanitari, armi, sostegno politico.” E d’altra parte non pare, almeno per il
momento, che nessun paese dell’area NATO si sogni di arrischiare preziose vite americane
o europee per cacciare i tagliagole islamisti, nonostante le isolate dichiarazioni
di qualche sagoma con le stellette del pentagono.
Pare piuttosto che davanti all’orrore fin troppo
scopertamente plateale, davanti alle brutalità da male assoluto dell’ISIS che
quotidianamente ci propongono i media in una gigantesca pulp fiction a consumo familiare
i quadri dirigenti dell’occidente e persino l’opinione pubblica siano tiepidi
per non dire distratti o disinteressati. Per cui rispetto al contrasto
all’avanzata del califfato sarebbe d’obbligo un’altra citazione storica: cui prodest?
E cioè, se agli americani sono occorsi 40 giorni nel 2001
per far cadere il regime talebano in Afghanistan e un mese e mezzo nel 2003 per
quello di Saddam Hussein, come mai in sette mesi di continui appelli strazianti
da mamma li turchi dei TG e i diluvi di sangue gli occidentali si sono limitati
in un mese ad poche migliaia di incursioni aeree, contro le 38.000 effettuate in
due mesi nei confronti della Serbia nel 1999 (fonte Panorama del 2 ottobre)?
Lasciando per l’appunto in molti settori, soprattutto in quello
nord-occidentale del fronte, i soli curdi ad opporsi all’avanzata islamista.
Già si diceva dei Curdi. La più grande nazione (circa 50
milioni di persone) senza Stato. Di loro l’opinione pubblica occidentale si
ricorda ogni tanto, magari solo per una catartica commiserazione davanti alle
persecuzioni e ai massacri operati da qualcuno degli stati “ospitanti” o perché
sfiorati marginalmente da episodi di maggiore portata mediatica.
Harvin Guneser, dell’International Initiative freedom for
Abdullah Ocalan, con toni garbati, il tono pacato e rassicurante di chi è
abituato a parlare nel politically correct dei media occidentali ha tracciato
un quadro della situazione storico-politica della regione e della storia della questione
curda. La sua visione della situazione politica nel medio oriente è certamente ideologicamente
orientata, ma è assolutamente obiettiva nella trattazione dei fatti, onesta e
condivisibile nell’analisi storica, soprattutto nelle valutazioni etiche sulle
responsabilità che gravano sui protagonisti delle vicende regionali nell’ultimo
secolo.
“Le potenze, occidentali dopo La Prima Guerra mondiale hanno
deciso di spartirsi l’impero ottomano non rispettando in nessun modo le volontà
dei popoli, i diritti delle nazioni, soprattutto di quella curda. In tempi più
recenti poi gli Stati Uniti e gli altri paesi occidentali, in testa, hanno cercato
dalla Prima Guerra del Golfo in poi di destabilizzare il Medio Oriente per i
loro interessi. Un medio oriente destabilizzato, diviso è più facilmente
manovrabile e sfruttabile dai paesi egemoni. Destabilizzazione che da qualche
anno si è anche allargata al nord africa. Qualche volta però, come in Egitto o in
Siria, le cose non vanno alla fine esattamente così come le intelligence
avrebbero voluto. Ma certamente dal caos, dal disordine politico e sociale
l’Occidente ha avuto finora tutto da guadagnare.
L’Isis appunto è una creatura dei servizi segreti americani,
sostenuto da Germania, Qatar, Arabia Saudita, Inghilterra. E’nato per
destabilizzare un regime, quello di Bashar el Assad che pareva granitico.”
-
Un mostro che si pensava di controllare e che è sfuggito di mano…
“No guardi, non c’è nessun mostro senza controllo. Certo
Obama e i suoi consiglieri della CIA in medio oriente hanno fatto degli errori
ed hanno dovuto ripensare in varie occasioni la loro strategia, ma l’ISIS di
sicuro non è un mostro fuori controllo. Quello che succede in ultima analisi
rientra nei disegni degli USA. La rappresentazione fatta in questo ultimo mese dei
Curdi, ad esempio, come degli eroici, estremi, disperati difensori di Kobani è
un’immagine affascinante, che fa comodo a tutto l’Occidente. Ma i curdi in
realtà sono stati lasciati soli, soli a resistere a farsi ammazzare con pochi
soldi e armi. Dove sono gli interventi militari a sostegno dei curdi? Dove sono
i bombardamenti a tappeto promessi contro l’ISIS? ” (Nei giorni successivi
all’intervista la situazione è mutata: unità dell’esercito libero siriano e
Peshmerga curdi stanno rimpolpando la forze della resistenza a Kobani
attraverso la creazione di un corridoio di passaggio N.D.R.) Harvin
sembra adesso perdere l’aplomb europeo per farsi invadere da una sincera
passione orientale.
“Parlando della Turchia poi, anch’essa apparentemente assai
preoccupata dall’ISIS tanto da schierare
le truppe sulla frontiera dietro a Kobani e fornire basi per i raid aerei
americani, essa ha in realtà tutto l’interesse a veder avanzare le forze del
califfo. Perché da un rimescolamento geopolitico della regione può avere da
guadagnare. Perché i turchi sognano il ritorno dell’impero ottomano. La Turchia
in realtà è per l’ISIS, sta dalla parte dell’ISIS, ma ufficialmente deve riprovare
le sue azioni e così altri stati dell’area e non”
Insomma, se abbiamo capito bene, la Turchia vorrebbe
lasciare che il Califfato islamico faccia il lavoro sporco, progettando di
subentrargli poi nell’acquisizione dei territori che stanno cadendo sotto il
suo controllo. E certamente non abbiamo capito male quando la nostra
intervistata ci ha lasciato intendere che il ruolo di quel paese nella vicenda
ISIS non è solo quello di chi approfitta cinicamente di una situazione di fatto,
ma forse anche quello di sostenitore e finanziatore occulto.
-
Signora Guneser indossiamo l’abito candide delle anime buone, di chi
crede nella buona fede dell’Occidente nei confronti del medio oriente: cosa dovrebbe
fare politicamente e militarmente una coalizione internazionale, che volesse
fare il bene del popolo curdo e portare la pace nella regione?
“Dalle parti nostre
c’è un proverbio che dice: non fare ombra al tuo vicino. Cioè fatti gli affari
tuoi e non ti intromettere negli affari degli altri.” Che è poi quello che in altri termini aveva già
sostenuto Yilmaz.
Viene allora da chiedersi di cosa diavolo mai abbiano
bisogno questi incontentabili curdi.
“Di armi, di denaro certo,
ma soprattutto di solidarietà, abbiamo bisogno di sentire il mondo vicino alla
nostra lotta. Lasciateci fare da soli; militarmente vogliamo semmai l’apertura
di un corridoio che ci ricolleghi alle altre forze curde del nord del Kurdistan
siriano per sfuggire al rischio di un accerchiamento (cosa in parte avvenuta,
come detto sopra N.D.R.).”
Durante conferenza delle due attiviste c'è però qualcos'altro che ci incuriosisce e ci seduce. E' il racconto che fanno dell’esperienza
di autodeterminazione che parte dal basso nella regione di Rojava, nel nord
ovest della Siria curda Chiediamo alle due donne, militanti del PKK, se
ritengono riuscito il tentativo di partecipazione comunitaria e democratica al
potere nel governatorato di fatto autonomo di Rojava.
“Nel Rojava, - spiega Harvin - il governatorato divenuto di
fatto autonomo dopo lo scoppio della guerra civile siriana, stiamo attuando
felicemente il progetto di amministrazione collettivistica anticapitalista
ipotizzato dal nostro leader Öcalan. La democrazia partecipativa che si sta
realizzando presuppone due momenti: da un lato l’esistenza delle municipalità
libertarie e poi le organizzazioni partecipative a vari livelli nelle città e
villaggi ( di lavoratori, donne, giovani, di quartieri, le categorie di
lavoratori etc.) che inviano a livelli di rappresentanza via via sempre più
alti le esigenze e le istanze che vengono dal basso.”
Insomma un laboratorio di egualitaritarismo, dove le
ricchezze sono ridistribuite e il popolo governa attraverso le Comuni i centri
del potere superiori. Le donne hanno un ruolo di primissimo piano e le vecchie
strutture tribali di minorità femminile sono state ampiamente superate. Sembrava
un'utopia fallita nel corso della storia,ma noi ci stiamo riuscendo.
“Noi vogliamo semplicemente affermare pacificamente – spiega
la Orkan - che esiste un altro modo di
gestire la società, di vivere oltre a quello capitalistico di sfruttare i popoli.
Per essere anticapitalisti però bisogna innanzi tutto iniziare a comportarsi, a
praticare comportamenti anticapitalisti. Sappiamo che non è possibile eliminare
lo Stato, allora bisogna iniziare ad autodeterminare comportamenti
anticapitalisti. In Italia ho conosciuto molte persone che hanno una capacità
intellettuale molto forte per lottare contro il sistema capitalistico, ma poi
nella prassi non fanno nulla per cambiare le cose. Senza responsabilizzazione non
ci può essere nessuna forma di socialismo, egualitarismo.”
“ Per moltissimo tempo – interviene la Guneser - si è ritenuto un grosso problema il fatto che
il Kurdistan non fosse uno Stato e che difficilmente possa esserlo a breve.
Ultimamente però il nostro Öcalan, ritiene che il capitalismo sfrutti la forma
Stato come mezzo. Öcalan oggi non è contro Siria, Iraq, Iran e Turchia, non
desidera che questi Stati cedano necessariamente i territori curdi per la
creazione finalmente del Kurdistan. Vuole lottare piuttosto affinché questi
paesi divengano più democratici, perché concedano ampie forme di autonomia ai
territori curdi.”
E’ questo in definitiva secondo le rappresentanti della
resistenza curda che probabilmente fa più paura alla vicina Turchia e a molti
stati occidentali. Che questo modello di egualitarismo possa propagarsi e
diffondersi. La Turchia e molti altri in realtà vedrebbero come una benedizione
un ridimensionamento delle aspirazioni autonomistiche curde. E per un altro
verso sarebbero felici di vedere i “comunisti” del PKK fiaccati dai colpi
dell’ISIS.
D’altra parte proprio la Kobani assediata è cuore pulsante
della «libertà democratica, ecologica e di genere» di Öcalan; ci sono Case
delle donne, centri culturali e artistici, associazioni di assistenza alle
famiglie. Le nuove attività economiche sono regolate come cooperative: gli
utili garantiscono il mantenimento di numerose famiglie. Il sistema
anti-capitalistico di base ha bloccato, per esempio, l'aumento dei prezzi di
beni essenziali per il vuoto di controlli statali (fonte “Lettera 43” di venerdì 7 novembre).
Per cui ritornando al cui prodest di prima, chiediamoci ancora a chi giovi fermare
sul serio e per sempre le orde nere
islamiste.
La risposta è a non molti in realtà.
Ai curdi certamente, e a chi altro?
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