mercoledì 21 maggio 2014

L'uomo invisibile

di Francesco Scrima
“e dopo
dentro una polvere di archivi
nulla nessuno in nessun luogo mai”
(V.Sereni – Gli strumenti umani)

Uno
 

   Vivo nel mio corpo con un disperato bisogno di calore.
   A volte lo guardo, da fuori, e non so cosa dirgli di me, degli altri, di tutto quello che accade dove lui si aggira.
   Non parlo spesso. Mai se non ho niente da dire.
   Oggi mi sono svegliato con un fastidio al braccio destro. Tocco un punto, un piccolo punto dell’avambraccio, un minuscolo quadratino di pelle nuda. Mi gratto. Niente. Mi accarezzo quella parte con dolcezza. Il fastidio rimane.

   Mi alzo desideroso d’una linea verticale che stabilizzi un contatto più stretto fra questo corpo e la terra; cerco l’equilibrio definitivo nell’aria che mi circonda, e poi cerco di non abbandonarlo lungo i percorsi interni ed esterni che il nuovo giorno mi porrà davanti.
   È importante limitare le oscillazioni. Gli scompensi sulla cervicale prodotti dai movimenti ondulatori, dai sobbalzi, da qualsiasi incontrollata emozione sono pericolosi. Talvolta definitivi.

 
Due

 

   Scendo le scale un gradino alla volta.
   Un po’ di moto fa bene, - urla alle mie spalle, televisori accesi così presto al mattino, cosa pensa chi si riempie di rumori? – e non dimentico mai di coordinare il mio passo al respiro. C’è così poco nell’aria da respirare.
   L’urto del braccio sinistro contro il muro della portineria (pacchi enormi da evitare, lasciati chissà da chi e per chi) lo avverto appena. Non ho provato dolore.
   Mi tocco il braccio, teso lungo il fianco: no, nessun dolore. E’ da tempo che non provo più nessun dolore, tranne quel fastidio al braccio, meglio, all’avambraccio destro. Deve essere la stagione nuova che si fa strada attraverso la mia pelle.
   Ecco, credo proprio di esprimermi meglio con la pelle che con le parole.
   Caldo, freddo, umido, allegria, gelo, tristezza, sguardi cupi, e colori e odori e il giorno che si fa meno luminoso, e poi il buio della notte, tutta la vita mi passa nei pori aperti e l’assorbo, la trasformo. Forse la capisco, a volte, non sempre. I centri nervosi non rispondono agli stimoli quando lo vogliamo. Bisogna stabilire un contatto fra cuore e cervello. Forse. 

Tre

 

   Per strada mi piace guardare sempre davanti a me.
   Credo che le rotazioni del collo, come le divagazioni, disturbino il sistema visivo, menomando la possibilità di avere sempre a fuoco le pupille. Le alterazioni sono masse corporee incontrollabili, è impossibile ricondurle allo stato precedente.
   Non vado mai al lavoro in auto. Non mi piace girare la città in auto.
   Non possiedo un automobile.
   Il percorso da casa al luogo dove trascorro parte della mia giornata – a volte una piccola parte, altre una più grande, mai l’intera giornata -, lo faccio in meno di mezz’ora.
   Sono trenta minuti importanti.
   La gente che sfioro non mi guarda quasi mai. Credo che abbiano una folla di pensieri dentro, perché il loro sguardo è fisso su qualcosa che non vedo. Però vedo loro, e mi accorgo che loro non vedono me ogni volta che devo scansare qualche corpo. È un problema avere tante cose da tenere a mente. Esattamente come non averne alcuna.
   Certuni parlano da soli (come me? no, non come me: io penso da solo), certi altri ad un microfono nascosto da qualche parte attraverso un minuscolo auricolare. È divertente: ridono, si arrabbiano, sussurrano o gridano, e quasi mi verrebbe voglia di seguirli per immaginarmi chi c’è dall’altra parte di quel filo sottile. O rispondere io al posto loro.
   Non posso. I miei alunni mi stanno aspettando. Non mi piace farmi aspettare. È fondamentale rispettare gli orari, le consegne, le file, gli affanni del cuore. È fondamentale misurare se stessi nel tempo giusto, oltre il quale c’è spazio solo per la ridondanza dei gesti, delle parole, dei sentimenti.
   Io cerco di essere solo me stesso.

 

Quattro
 

   E poi arrivo.
   Mi guardo attorno, leggo i titoli di un giornale che probabilmente resterà nella mia borsa per il resto della giornata, bevo un caffè nero e bollente nel bar della scuola, deserto a quell’ora ed inverosimilmente silenzioso (arrivo sempre molto presto), salgo le scale sporche e senza vita con gesti meccanici – gli unici possibili, nella fissità che l’abitudine protegge, negandosi al pericolo dell’improvvisazione o alla banalità del caso.
   Mi sento protetto da tutto ciò?
   E ancora: sto bene in questo acquario gigante? cercherò mai un nuovo mare, più aperto, più insidioso?
   Ma soprattutto: che succederà quando mi chiederò “che ci faccio, io, qui?”. 

Cinque

 

   I colleghi hanno facce stanche.
   Arrivano nella sala dei professori ciascuno con la propria pena, o voglia di esprimersi, o di scrutare nell’altro il proprio abisso d’indomabile noia. Qualcuno sorride. Qualcun altro, distrattamente, saluta.
   Le parole sono un forcipe che ti strappa gli ultimi sogni. Sempre le stesse. Sempre gli stessi.
   Gioco con i capelli. Li porto lunghi solo per questo. Per distrarmi, oppure per concentrarmi sul trampolino dal quale mi lancerò, di lì a poco, per stupire i miei alunni. Non conosco altro modo per attirare la loro attenzione.
   Sono diligenti; sono educati; sono quanto di meglio potrei chiedere alla professione che non ho scelto. Hanno lo sguardo smarrito.
   E allora, io corro lungo il filo teso sul vuoto, senza rete sotto; faccio l’equilibrista o il giocoliere o il venditore di fumo.
   La cultura non la puoi regalare, né spacciare per quello che non è.
   La cultura è un dolore che ci portiamo dentro. 

Sei

 

   Oggi ho parlato del sonno e del sogno.
   Mi piace ascoltarmi. M’ipnotizzo da solo, forse perché in genere non parlo mai con nessuno.
   Le parole sono scivolose, musica e tormento, il senso del tempo che ci lascia, il vuoto del cielo quando vorresti toccarlo e non ce la fai perché è troppo lontano.
   Le parole sono un male necessario.
   Gigi, il più loquace dei miei alunni, vuole sapere se sogniamo tutte le notti.
   Gli dico che, per lo più, sogniamo di sognare, mentre altre volte ci aggiriamo sperduti come cani randagi, annusiamo gli odori che la vita c’impedisce di annusare, e ci sentiamo oppressi o liberi quanto meno o quanto più riusciamo ad allontanarci da essa e da noi stessi.
   Dopo, al risveglio, ci diciamo che è stato tutto un sogno. E riprendiamo a vivere.
   Gigi mi guarda perplesso. Poi si siede e guarda fuori dalle finestre dell’aula, appannate ed unte di mille antiche mani.
   Io sorrido e, quando “l’occhio di bue” si spegne su di me, vado via.
 

Sette

 

   Vivo ogni istante della giornata con scarsi fremiti.
   Poche palpitazioni si fanno strada in me, il freddo non mi fa rabbrividire.
   Il caldo, al contrario, mi spaventa. È falso, come ogni calore luminoso. Non puoi neanche cacciarlo, ti si attacca addosso, ed io non sopporto la calca, né gli spazi aperti, né i luoghi chiusi, l’altezza e la profondità, i colori troppo chiari ed il buio del mare al di sotto dei miei pensieri.
  Sento in me la follia degli eroi. Sono invisibile. Sì, sono invisibile perché non riesco ad essere da nessuna parte, e per nessuno, ed ho perduto la mia ombra quando ho cominciato a seguirla.
   Pensavo potesse condurmi da qualche parte, da qualcuno, magari dove ho vissuto la mia infanzia – la sogno spesso, ci vivo dentro, ma non mi riesce di viverla bambino, con il cuore di allora -; invece fuggiva da me, dal me di adesso, con il cuore pesante, e poi non l’ho più vista.
   Si può vivere senza un’ombra accanto?

Otto

 

   Perché non possiamo ricominciare tutte le volte che vogliamo?
   Ogni sguardo, ogni gesto, ogni sillaba scaturita dalle nostre labbra, sono persi per sempre. Finiti. Cancellati.
   Hanno inventato dei marchingegni per riprodurre tutto ciò che è appena trascorso. La tecnologia rifiuta l’unicità delle azioni umane, ma il passato non è mai presente: è solo storia che riempie scaffali vuoti, polverosi. Non serve a niente.
    Servirebbe se potesse riportare indietro ogni nostro sguardo, ed ogni gesto, ogni frase non raccolta da nessuno. Se potessimo ricominciare a raccontare daccapo la nostra storia, come la sposa  Shahrazàd : nessuno potrebbe più ucciderci.
   Invece moriamo ogni giorno, ci cancelliamo nel grigio guazzabuglio della banalità, e proiettiamo l’eternità in un cielo vuoto, nell’attesa che succeda qualcosa, che qualcuno ci corra in aiuto.
 

Nove

 

   Forse l’amore potrebbe salvarci.
   Forse l’amore potrebbe rompere la scorza dura, sciogliere il gelo dei mille ghiacciai che ci schiacciano, far rifluire il sangue vivo.
   Forse è solo questa l’unica illusione che ci spinge a vivere. Che un giorno qualcuno arriverà, e ci guarderà negli occhi, e parlerà dal profondo delle mille notti senza tempo.
   Forse non saremo sempre invisibili.
Dieci

 

   Il lento pomeriggio s’adagia sulla città e sembra un gatto sonnolento.
   È grigio, inutile, ma non dà fastidio. Trascolora pigramente.
   Non dormo mai, il pomeriggio.
   In verità, anche la notte la passo spesso insonne.
   Appena chiudo gli occhi, il respiro si accorcia, le tempie cominciano a pulsare e nelle orecchie rimbomba l’eco infinita di questo inflessibile silenzio che regna nelle stanze di casa mia.
   Oggi non ho compiti da correggere. Né lezioni da preparare. In genere, svolgo l’uno o l’altro dei miei doveri professionali – o entrambi – con la gioia voluttuosa di Narciso che si specchia sulle infide acque: godo nel sapere di essere bravo. Un attore senza pubblico.
  Esco per strada.

   Il quartiere in cui vivo è una salamandra che si nasconde appiattandosi. Si mimetizza nell’orrore umido di questa città asfittica, dove anche il sole ferisce le anime già ferite e la polvere si posa dappertutto – nelle menti e nel cuore.
   M’impongo come regola di non pensare troppo.
   Giro e rigiro le stesse strade, gli stessi malfermi marciapiedi, lo stesso cumulo di rifiuti, alto come gli alberi dell’infanzia che non rivivrò.
   Faccio mille soste e parlo con tutti i passanti: ad uno chiedo l’ora, ad un altro una via che conosco, ad un altro ancora cosa mangerà a cena e con chi, e se pensa di stare poi davanti la TV o di fare l’amore o di pregare per la fine di tutto questo dolore.
   Bene. Si è fatto tardi.

  Posso rientrare.

Undici

 

   È notte anche stanotte, ma non sono stanco né triste.
   Leggerei un libro se non fosse che li ho letti tutti e li conosco a memoria.
   Dicono che ci sono posti dove poter riprendere a sognare e a vivere e a riscrivere i libri già scritti.
   Un tempo, pensavo che anche loro – i miei libri – potessero salvarci dalla miseria, ma non ne sono più del tutto sicuro.
    Numeri su numeri governano il mondo, e devi ricordarli tutti, e nell’ordine giusto, se non vuoi rimanere fuori da ogni luogo.
   Io li ho cancellati, uno dopo l’altro.
   Resto fuori, in attesa.

 
Dodici

 

   Vivo nel mio corpo con un disperato bisogno di…
   Non ricordo più di cosa ho bisogno.
   (Che notte, stanotte. Le stelle mi guardano allegre. Dalla finestra, se allungassi una mano, potrei toccarle).
   Non ricordo niente di questa giornata.
   Non ricordo niente.
   (Salirò sulla stella più vicina. È Venere, la più luminosa. Mi porterà via con sé).
   Non ricordo.
   Ho bisogno.
   (Che bello vedere tutto da quassù).
   Vivo nel mio corpo.
 
   Vivo.

 

 

 

 

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