di Francesco Scrima
“e dopo
dentro una
polvere di archivi
nulla
nessuno in nessun luogo mai”
(V.Sereni
– Gli strumenti umani)
Uno
Vivo
nel mio corpo con un disperato bisogno di calore.
A volte
lo guardo, da fuori, e non so cosa dirgli di me, degli altri, di tutto quello
che accade dove lui si aggira.
Non
parlo spesso. Mai se non ho niente da dire.
Oggi mi
sono svegliato con un fastidio al braccio destro. Tocco un punto, un piccolo
punto dell’avambraccio, un minuscolo quadratino di pelle nuda. Mi gratto.
Niente. Mi accarezzo quella parte con dolcezza. Il fastidio rimane.
Servirebbe se potesse riportare indietro ogni nostro sguardo, ed ogni gesto, ogni frase non raccolta da nessuno. Se potessimo ricominciare a raccontare daccapo la nostra storia, come la sposa Shahrazàd : nessuno potrebbe più ucciderci.
Bene. Si è fatto tardi.
Posso rientrare.
Mi alzo
desideroso d’una linea verticale che stabilizzi un contatto più stretto fra
questo corpo e la terra; cerco l’equilibrio definitivo nell’aria che mi
circonda, e poi cerco di non abbandonarlo lungo i percorsi interni ed esterni
che il nuovo giorno mi porrà davanti.
È
importante limitare le oscillazioni. Gli scompensi sulla cervicale prodotti dai
movimenti ondulatori, dai sobbalzi, da qualsiasi
incontrollata emozione sono pericolosi. Talvolta definitivi.
Due
Scendo
le scale un gradino alla volta.
Un po’
di moto fa bene, - urla alle mie spalle, televisori accesi così presto al
mattino, cosa pensa chi si riempie di rumori? – e non dimentico mai di
coordinare il mio passo al respiro. C’è così poco nell’aria da respirare.
L’urto
del braccio sinistro contro il muro della portineria (pacchi enormi da evitare,
lasciati chissà da chi e per chi) lo avverto appena. Non ho provato dolore.
Mi
tocco il braccio, teso lungo il fianco: no, nessun dolore. E’ da tempo che non
provo più nessun dolore, tranne quel fastidio al braccio, meglio, all’avambraccio
destro. Deve essere la stagione nuova che si fa strada attraverso la mia pelle.
Ecco,
credo proprio di esprimermi meglio con la pelle che con le parole.
Caldo,
freddo, umido, allegria, gelo, tristezza, sguardi cupi, e colori e odori e il
giorno che si fa meno luminoso, e poi il buio della notte, tutta la vita mi
passa nei pori aperti e l’assorbo, la trasformo. Forse la capisco, a volte, non
sempre. I centri nervosi non rispondono agli stimoli quando lo vogliamo.
Bisogna stabilire un contatto fra cuore e cervello. Forse.
Tre
Per
strada mi piace guardare sempre davanti a me.
Credo
che le rotazioni del collo, come le divagazioni, disturbino il sistema visivo,
menomando la possibilità di avere sempre a fuoco le pupille. Le alterazioni
sono masse corporee incontrollabili, è impossibile ricondurle allo stato
precedente.
Non
vado mai al lavoro in auto. Non mi piace girare la città in auto.
Non possiedo
un automobile.
Il
percorso da casa al luogo dove trascorro parte della mia giornata – a volte una
piccola parte, altre una più grande, mai l’intera giornata -, lo faccio in meno
di mezz’ora.
Sono
trenta minuti importanti.
La
gente che sfioro non mi guarda quasi mai. Credo che abbiano una folla di
pensieri dentro, perché il loro sguardo è fisso su qualcosa che non vedo. Però
vedo loro, e mi accorgo che loro non vedono me ogni volta che devo scansare
qualche corpo. È un problema avere tante cose da tenere a mente. Esattamente
come non averne alcuna.
Certuni
parlano da soli (come me? no, non come me: io penso da solo), certi altri ad un microfono nascosto da qualche
parte attraverso un minuscolo auricolare. È divertente: ridono, si arrabbiano,
sussurrano o gridano, e quasi mi verrebbe voglia di seguirli per immaginarmi
chi c’è dall’altra parte di quel filo sottile. O rispondere io al posto loro.
Non
posso. I miei alunni mi stanno aspettando. Non mi piace farmi aspettare. È
fondamentale rispettare gli orari, le consegne, le file, gli affanni del cuore.
È fondamentale misurare se stessi nel tempo giusto, oltre il quale c’è spazio
solo per la ridondanza dei gesti, delle parole, dei sentimenti.
Io
cerco di essere solo me stesso.
Quattro
E poi
arrivo.
Mi
guardo attorno, leggo i titoli di un giornale che probabilmente resterà nella
mia borsa per il resto della giornata, bevo un caffè nero e bollente nel bar
della scuola, deserto a quell’ora ed inverosimilmente silenzioso (arrivo sempre
molto presto), salgo le scale sporche e senza vita con gesti meccanici – gli
unici possibili, nella fissità che l’abitudine protegge, negandosi al pericolo
dell’improvvisazione o alla banalità del caso.
Mi
sento protetto da tutto ciò?
E
ancora: sto bene in questo acquario gigante? cercherò mai un nuovo mare, più
aperto, più insidioso?
Ma
soprattutto: che succederà quando mi chiederò “che ci faccio, io, qui?”.
Cinque
I
colleghi hanno facce stanche.
Arrivano nella sala dei professori ciascuno con la propria pena, o
voglia di esprimersi, o di scrutare nell’altro il proprio abisso d’indomabile
noia. Qualcuno sorride. Qualcun altro, distrattamente, saluta.
Le
parole sono un forcipe che ti strappa gli ultimi sogni. Sempre le stesse.
Sempre gli stessi.
Gioco
con i capelli. Li porto lunghi solo per questo. Per distrarmi, oppure per
concentrarmi sul trampolino dal quale mi lancerò, di lì a poco, per stupire i
miei alunni. Non conosco altro modo per attirare la loro attenzione.
Sono
diligenti; sono educati; sono quanto di meglio potrei chiedere alla professione
che non ho scelto. Hanno lo sguardo smarrito.
E
allora, io corro lungo il filo teso sul vuoto, senza rete sotto; faccio
l’equilibrista o il giocoliere o il venditore di fumo.
La
cultura non la puoi regalare, né spacciare per quello che non è.
La
cultura è un dolore che ci portiamo dentro.
Sei
Oggi ho
parlato del sonno e del sogno.
Mi
piace ascoltarmi. M’ipnotizzo da solo, forse perché in genere non parlo mai con
nessuno.
Le
parole sono scivolose, musica e tormento, il senso del tempo che ci lascia, il
vuoto del cielo quando vorresti toccarlo e non ce la fai perché è troppo
lontano.
Le
parole sono un male necessario.
Gigi,
il più loquace dei miei alunni, vuole sapere se sogniamo tutte le notti.
Gli
dico che, per lo più, sogniamo di sognare, mentre altre volte ci aggiriamo
sperduti come cani randagi, annusiamo gli odori che la vita c’impedisce di
annusare, e ci sentiamo oppressi o liberi quanto meno o quanto più riusciamo ad
allontanarci da essa e da noi stessi.
Dopo,
al risveglio, ci diciamo che è stato tutto un sogno. E riprendiamo a vivere.
Gigi mi
guarda perplesso. Poi si siede e guarda fuori dalle finestre dell’aula,
appannate ed unte di mille antiche mani.
Io
sorrido e, quando “l’occhio di bue” si spegne su di me, vado via.
Sette
Vivo
ogni istante della giornata con scarsi fremiti.
Poche
palpitazioni si fanno strada in me, il freddo non mi fa rabbrividire.
Il
caldo, al contrario, mi spaventa. È falso, come ogni calore luminoso. Non puoi
neanche cacciarlo, ti si attacca addosso, ed io non sopporto la calca, né gli
spazi aperti, né i luoghi chiusi, l’altezza e la profondità, i colori troppo
chiari ed il buio del mare al di sotto dei miei pensieri.
Sento in
me la follia degli eroi. Sono invisibile. Sì, sono invisibile perché non riesco
ad essere da nessuna parte, e per nessuno, ed ho perduto la mia ombra quando ho
cominciato a seguirla.
Pensavo
potesse condurmi da qualche parte, da qualcuno, magari dove ho vissuto la mia
infanzia – la sogno spesso, ci vivo dentro, ma non mi riesce di viverla
bambino, con il cuore di allora -; invece fuggiva da me, dal me di adesso, con
il cuore pesante, e poi non l’ho più vista.
Si può
vivere senza un’ombra accanto?
Otto
Perché
non possiamo ricominciare tutte le volte che vogliamo?
Ogni
sguardo, ogni gesto, ogni sillaba scaturita dalle nostre labbra, sono persi per
sempre. Finiti. Cancellati.
Hanno
inventato dei marchingegni per riprodurre tutto ciò che è appena trascorso. La
tecnologia rifiuta l’unicità delle azioni umane, ma il passato non è mai
presente: è solo storia che riempie scaffali vuoti, polverosi. Non serve a
niente.Servirebbe se potesse riportare indietro ogni nostro sguardo, ed ogni gesto, ogni frase non raccolta da nessuno. Se potessimo ricominciare a raccontare daccapo la nostra storia, come la sposa Shahrazàd : nessuno potrebbe più ucciderci.
Invece
moriamo ogni giorno, ci cancelliamo nel grigio guazzabuglio della banalità, e
proiettiamo l’eternità in un cielo vuoto, nell’attesa che succeda qualcosa, che
qualcuno ci corra in aiuto.
Nove
Forse
l’amore potrebbe salvarci.
Forse
l’amore potrebbe rompere la scorza dura, sciogliere il gelo dei mille ghiacciai
che ci schiacciano, far rifluire il sangue vivo.
Forse è
solo questa l’unica illusione che ci spinge a vivere. Che un giorno qualcuno
arriverà, e ci guarderà negli occhi, e parlerà dal profondo delle mille notti
senza tempo.
Forse
non saremo sempre invisibili.
Dieci
Il
lento pomeriggio s’adagia sulla città e sembra un gatto sonnolento.
È
grigio, inutile, ma non dà fastidio. Trascolora pigramente.
Non
dormo mai, il pomeriggio.
In
verità, anche la notte la passo spesso insonne.
Appena
chiudo gli occhi, il respiro si accorcia, le tempie cominciano a pulsare e
nelle orecchie rimbomba l’eco infinita di questo inflessibile silenzio che
regna nelle stanze di casa mia.
Oggi non
ho compiti da correggere. Né lezioni da preparare. In genere, svolgo l’uno o
l’altro dei miei doveri professionali – o entrambi – con la gioia voluttuosa di
Narciso che si specchia sulle infide acque: godo nel sapere di essere bravo. Un
attore senza pubblico.
Esco
per strada.
Il
quartiere in cui vivo è una salamandra che si nasconde appiattandosi. Si
mimetizza nell’orrore umido di questa città asfittica, dove anche il sole
ferisce le anime già ferite e la polvere si posa dappertutto – nelle menti e nel
cuore.
M’impongo come regola di non pensare troppo.
Giro e
rigiro le stesse strade, gli stessi malfermi marciapiedi, lo stesso cumulo di
rifiuti, alto come gli alberi dell’infanzia che non rivivrò.
Faccio
mille soste e parlo con tutti i passanti: ad uno chiedo l’ora, ad un altro una
via che conosco, ad un altro ancora cosa mangerà a cena e con chi, e se pensa
di stare poi davanti la TV o di fare l’amore o di pregare per la fine di tutto
questo dolore.Bene. Si è fatto tardi.
Posso rientrare.
Undici
È notte
anche stanotte, ma non sono stanco né triste.
Leggerei un libro se non fosse che li ho letti tutti e li conosco a
memoria.
Dicono
che ci sono posti dove poter riprendere a sognare e a vivere e a riscrivere i
libri già scritti.
Un
tempo, pensavo che anche loro – i miei libri – potessero salvarci dalla
miseria, ma non ne sono più del tutto sicuro.
Numeri
su numeri governano il mondo, e devi ricordarli tutti, e nell’ordine giusto, se
non vuoi rimanere fuori da ogni luogo.
Io li
ho cancellati, uno dopo l’altro.
Resto
fuori, in attesa.
Dodici
Vivo
nel mio corpo con un disperato bisogno di…
Non
ricordo più di cosa ho bisogno.
(Che
notte, stanotte. Le stelle mi guardano allegre. Dalla finestra, se allungassi
una mano, potrei toccarle).
Non
ricordo niente di questa giornata.
Non
ricordo niente.
(Salirò
sulla stella più vicina. È Venere, la più luminosa. Mi porterà via con sé).
Non
ricordo.
Ho
bisogno.
(Che
bello vedere tutto da quassù).
Vivo
nel mio corpo.
Vivo.
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