venerdì 29 luglio 2011

Il titolo?...alla fine



di Enzo Barone

Un racconto si può far partire in cento modi. Il più delle volte hai in testa una storia, una storia che ti cattura e ti convince per la sua bontà, perché la costruzione della trama del racconto che hai in mente regge, sta in piedi bene: è l’intreccio che ti affascina di per se stesso, al di là dei fatti veri e propri che racconterai.
A volte invece è la densità umana, la forza del nucleo, di contenuto sociale, psicologico o drammatico che ti prende per la sua intensità, per l’urgenza dei contenuti. Altre volte sarà un episodio realmente accaduto, quasi bell’e pronto, che devi solo trasferire sul foglio o magari in qualche caso sarà una emozione, un sogno e via così.

Ma i racconti che più mi affascinano sono quelli che nascono solo e unicamente dalla potenza dell’idea di un titolo, superbo, autosufficiente nella sua orgogliosa autorità, che senza mezzi termini si impone lapidario, come fulcro generatore di tutta la narrazione.
E così è accaduto per il racconto che sto per narrare; per questa ragione, proprio perché il titolo per me è davvero buono non l’ho voluto spendere così, buttarlo lì dapprincipio, rovinando quindi il gusto dello scioglimento del racconto, che è tutto nel titolo, per l’appunto.

La storia potrebbe principiare in un appartamento di un condominio, in una anonima periferia dormitorio di una grande città del sud. Potrebbe essere un parallelepipedo di sette piani informe e senza nessun tipo di ornamento architettonico. I cornicioni e i bordi dei terrazzini sono sbrecciati per la più parte. L’intonaco della facciata stinto, guasto. Si entra e si esce dalla palazzina per lo più silenziosi, assorti ciascuno nel pensiero delle proprie occupazioni future, le quali avranno il loro svolgimento lontane da quel posto.
In un appartamentino al quarto piano la sveglia sul comodino suona come ogni giorno alle cinque e mezza in punto. Invano, come ogni mattina, perché Giorgio da una venti minuti buoni ha già comodamente preso posto sul WC del suo bagno. La sente trillare da quindici minuti ad intervalli di tre, ma non si scompone, come sempre: nessuno né in cielo né in terra lo potrebbe distogliere dalla sua postazione per almeno altri venti minuti.
D'altronde tutto il primo mattino risponde ad una organizzazione dei tempi estremamente meticolosa.
Quaranta minuti per la seduta sul WC; venticinque minuti per la toilette; quindici per la colazione; cinque per mettersi in attesa del bus alla fermata due isolati più avanti.
Tutto di prima mattina va programmato e messo in pratica con rigore scientifico. E’ questo da alcuni anni un preciso modus vivendi, quasi una razionale e inflessibile pratica ascetica.
Prima di uscire di casa il segno della croce e poi, come un cavaliere alla sua investitura, la genuflessione su un solo ginocchio, per ricevere dalla madre il rituale bacio sulla fronte, poiché è alto uno e novanta e la mamma, molto più bassa, diversamente non potrebbe raggiungere la fronte di lui.
In questo appartamento di quattro stanzette Giorgio ci vive con la madre e una sorella; il padre se è andato via sei anni prima, così da un giorno all’altro: un bel pomeriggio ha semplicemente detto alla moglie che scendeva un attimo per andare a giocare un gratta e vinci al bar sotto casa e non si è più fatto vivo, se non il mattino dopo per annunciarle con l’ordinarietà più comune del mondo che a casa non ci tornava, perché era andato a vivere fuori città con un'altra donna. Giorgio non ama molto vederlo né sentirne parlare: un paio di volte all’anno per poche ore gli va benissimo. Bene, mentre lo vediamo scendere le scale del caseggiato, mi pare che sia giunto il momento di dare un’occhiata più da vicino al nostro soggetto.
Dicevamo che è alto, ma anche robusto, con un accenno di pinguedine; nella testa ben piantata sul collo spicca il viso largo, con le gote rubiconde e i riccioli neri, fittissimi, con quell’espressione sempre tra il serio e l’annoiato che trasmette una vaga aria di mestizia. Non si separa mai, ma proprio mai da una piccola tracolla di tela beige. Gli serve per contenere i libri, il cellulare, i fazzoletti e i due rotoli di carta igienica e rimane invariabilmente piena di tutte queste cose, anche quando Giorgio è in libera uscita.
Seguiamolo adesso mentre si avvia alla pensilina del bus 105: è quasi sempre il primo ad arrivare alle sei e mezzo in punto, il primo con Karim, l’ambulante tunisino di giocattoli, per prendere il primo bus della mattina mezzo vuoto, che a quell’ora arriva a scuola in appena un quarto d’ora.
Spesso Giorgio arriva così presto che deve aspettare davanti ai cancelli che il signor Mariani, il guardiano, talvolta contrariato dalla solerzia del ragazzo, arrivi e li apra. Ma da un mese a questa parte ogni giorno, una volta varcato l’uscio, a Giorgio capita però di voler rimanere per un po’ immobile al centro del cortile della scuola, fermo come una statua, irresoluto. E a volte, alle sette e un quarto, dopo dieci minuti di meditazione, gli capita pure di risolversi a girare i tacchi di scatto e tornare sui propri passi, incrociando gli studenti più mattinieri che proprio in quel momento cominciano a raccogliersi dentro il grande cortile nei primi sparuti capannelli.
Perché arrivare tanto precocemente a scuola per poi decidere di andare via? potrebbe pensare ad esempio quel mingherlino appollaiato a fumare sul suo cinquantino, anzi lo starà pensando di certo.
Giorgio però serba in cuore il suo segreto gelosamente.ggi però ha deciso di entrare. Così, arrivato davanti ai cancelli già aperti, tira un po’ più su la tracolla, si soffia il nasone, si ravviva i riccioli e si rassegna a salire i primi gradini. Si vede che ha vinto una battaglia interiore, aspra, difficile.
Fa poi le scale svogliatamente, trascinando lentamente i piedi e si comporta a questo modo non perché sia un pigro o uno scansafatiche - lo sappiamo bene noi che non è di questa risma - ma al contrario per non dare a vedere alla classe, arrivando tra i primi, di essere un bacchettone-tiradritto. Nonostante ciò è in classe tra i primi.

Alla prima ora c’è ragioneria e con quella prof là non si sa mai quale sarà il programma della giornata. Ci sono delle volte che la si vede arrivare a falcate ampie, col passo dell’oca, quasi a voler misurare il globo terrestre con un infallibile compasso, facendo ondeggiare con noncuranza il borsone di paglia e allora vuol dire che è in si, che è una giornata dalle prospettive rosee.
Altre volte la scorgono venire avanti dal corridoio a passetti stretti e rapidi, mentre tiene il borsone stretto, attaccato alla vita e allora sono guai. Può pure capitare in quelle occasioni che, appena finito di firmare sul registro, lei sollevi appena il capo e di sottecchi tagli con un fendente spietato la classe dicendo a sorpresa ”Bene, fuori penna e foglio a quadretti: oggi compito in classe!”
Ma tutto questo, l’inamovibile timore che turba quasi tutti i ragazzi mentre attendono l’arrivo della prof, non sfiora minimamente Giorgio.
Egli sta sì da quindici minuti piegato sul banco, rosso in viso e con le mani che comprimono il basso ventre, ma per ragioni tutte sue, che non riguardano affatto le vicende che si svolgeranno durante quella prima ora di lezione.
Ecco, la prof è sbucata dall’uscio all’improvviso come in una mistica apparizione e gli alunni dallo stile della sua andatura non hanno avuto il tempo di emanare vaticini.
Giorgio tiene la testa china ancora qualche istante, mentre la prof indugia nella redazione del registro giornaliero.
Poi di scatto toglie le mani dal ventre, solleva lentamente il volto arrossato e chiede perentorio, con la voce stentorea che non ammette rifiuti: “Prof, devo uscire. Urgentemente!”
Nessuno in classe, nemmeno i ragazzetti nuovi, quei due bulletti oriundi da un quartiere difficile con i capelli a cresta di picchio all’ultimo banco, osa fare alcuna ironia su una richiesta giunta con tanto tempismo: nessuno conosce esattamente il motivo di tanta urgenza, ma essa sembra perfettamente giustificarsi da sola,  per la decisione e la inappellabilità del tono che l’ha espressa e poi, per quanto Giorgio abbia un’aria mite, la sua stazza a scuola è pur sempre quella di un marcantonio con pochi pari.
La prof sul punto di formulare una rosa di candidati all’interrogazione, nasconde forzatamente un certo livore e dopo pochi istanti acconsente alla richiesta.
“Vai, Di Lorenzo, se devi vai, presto su, senza esitare!” fa con una vocina stridente, che non si sforza di nascondere fastidio e sarcasmo.
In aula Giorgio ci torna venti buoni minuti dopo, trafelato e col viso mezzo bagnato. Anche stavolta nessuno sembra fare all’assenza prolungata e la lezione di ragioneria corre via come nulla fosse.

E’ l’inizio della terza ora: in classe c’è adesso un gran baraonda. Si aspetta la supplente della prof di religione, che tarda ad arrivare.
Il manipolo dei peggiori, i due dell’ultima fila e quelli vicini alla finestra si danno un mucchio da fare per preparare una degna accoglienza alla nuova arrivata, vorticando astucci di colori, schizzandosi con spruzzi d’acqua, solcando l’aria con i traccianti bianchissimi dei gessetti, improvvisando prese da catch o gragnole di busse sulle spalle della vittima di turno, urlando i versi di una rumorosissima canzone rap trasmessa da un piccolo stereo portatile.
E finalmente si affaccia timorosamente alla soglia una ragazza coi lunghi capelli neri lisci, minuta, pallidissima: si vede che si dà un tono di sicurezza quando si presenta con voce che vorrebbe essere sapida nel timbro, ma incerta nel suo riverbero finale. Davanti a quel gran chiasso vorrebbe paventare vaghe minacce di oscure, terribili punizioni, ma dentro trema come una foglia. Passa allora presto al tentativo di carpire la simpatia degli alunni. Ma il sabba è già iniziato, il martirio rituale e cruento della povera supplente è nel suo pieno, inarrestabile sviluppo.
Giorgio però come sempre ne sta fuori. Suda ed è ancora una volta rosso in viso come un peperone, mentre guarda al di là della finestra preoccupato. E’ un brutto segno quello.
Poi, di botto, nel mezzo della battaglia tra le orde barbariche e la prof stretta in un disperato assedio,  Giorgio alza la manona, vibra un gran colpo sul banco e fa serio serio: “Aho! Ora basta casino ragazzi. Sto parlando con la prof!” E con un vocione più grosso del solito aggiunge: “Prooof: devo andare in bagno, ora! Bisogno grosso, subito!” e tutti giù a ridere più che per Giorgio, per l’effetto di quelle parole provocheranno sulla docente.
E la povera creatura senza neanche proferire parola si alza in piedi e addirittura gli apre rispettosamente la porta per favorirne nel migliore dei modi l’esito.
A metà dell’ora, la masnada si è pressoché placata, però la supplentina è ancora turbata e di brutto; tenta di imbastire con forzata disinvoltura un qualche straccio di lezione, ma rimane l’avvilimento per l’esigenza implacabile della richiesta di Giorgio e per la figura da debole fatta davanti alla classe. In più adesso sono venti minuti buoni che il ragazzo è alla toilette.
Ad un certo punto la donna decide di prendere il coraggio a due mani, si dà il contegno di cui si ammanta l’autorità e sbotta ”di essere presa per i fondelli a me non va proprio. Adesso andate a chiamare immediatamente Di Lorenzo, “dal bagno” diciamo ehm, sennò si becca una bella nota e poi…”
“Prof” fa Peppe, uno dei peggio “lei qua è nuova e la situazione non la conosce. Di Lorenzo in bagno la mattina ci va anche sei sette volte. Io se vuole vado a chiamarlo, ma questa è cosa di ogni giorno; è una storia incasinata questa… lasci stare, ascolti me.”
Ma la docente ha necessità, come si ha dell’aria, di recuperare la dignità intaccata. Manda Peppe a quella ambasciata e in men che non si dica viene fuori un gran bailamme, quasi la scena madre di una commedia dell’arte. Giorgio che torna infuriato dalla toilette e lei mi ha mancato di rispetto e ora ci penso io, la prof che non ho mai udito cose simili e ti metto io al tuo posto, non credere e vuole chiamare il preside, ma ci vado io dal preside prima di lei e i ragazzi della classe e anche delle altre che andiamo a vedere che succede dai, dai e nel frattempo il preside che arriva provvidenziale, chiamato dal bidello, che ho sentito quel gran macello signor preside, manco fossimo a Ballarò, dico io.
Signorina, guardi si calmi, per piacere si calmi e mi stia a sentire…ristabiliamo l’ordine in classe intanto..si,si, il ragazzo avrà sbagliato i toni, ma c’è dell’altro che di cui deve essere informata…no, no, non è questa la sede più opportuna…da me in presidenza, non si preoccupi, si, alla classe pensa per un po’ il signor Provenza…si mi segua la prego. Vedrà che in presidenza si calmerà, venga.”
La quiete solenne della presidenza che odora del cuoio del salottino di ricevimento e il refrigerio dell’aria condizionata nel maggio inoltrato in effetti placano i livori della supplentina.
E allora il preside coglie il momento per incalzarla.
Si accomodi la prego e si rassereni, la prego. Le faccio portare un bicchiere d’acqua fresca magari, che dice?
Comunque, senta, tornando a quello che è successo prima…guardi in circostanze normali ne avrebbe ragioni e da vendere…ci sarebbero gli estremi per uno di quei provvedimenti disciplinari, di quelli che lasciano il segno…ma lei non sa, non conosce il caso del Di Lorenzo. La sua è una situazione psichica, psicosomatica, anzi forse sarebbe meglio chiamarla esistenziale, complessa, spinosa, angosciante direi.”
E mentre lo diceva si grattava con sempre maggiore insistenza un angoletto in alto a destra della fronte, lasciando cadere sulla scrivania come conseguenza tangibile della sua preoccupazione una cospicua nevicata di forfora.
Io dovrei spiegarle tante cose sul ragazzo che giustificherebbero in parte quello che fa, si certo, certo solo in parte le do ragione, ma lei vedrebbe le cose da un’altra prospettiva. Però sa il fatto è che in verità il preside è un po’ come il medico tenuto al segreto su alcune questioni…di estrema riservatezza direi…le posso solo dire che, vede, il comportamento del ragazzo ha motivazioni in un disagio interiore così estremo da dover essere compreso, accettato, aiutato al di là dei comuni parametri comportamental,. Non le dico di più per adesso; soprattutto però una ultima, somma indicazione: quando il Di Lorenzo chiede di andare ai servizi, in qualunque momento o circostanza, lo lasci uscire e subito!” 

Marianna ha appena quindici anni. Fa la stessa scuola di Giorgio, indietro di due anni però. Ha un bel visino, tondo, delicato: alla luce del lampione brilla di un biancore tenue ed argentato, come la luna. Sorride di rado, ma quando accade lo fa con discrezione, con un pudore tutto suo, come se volesse allontanare da sé un’imprevista variazione che incrini per un istante l’andamento di quieta dolcezza del suo essere di sempre. Giorgio adora quei rari istanti nei quali è quasi come se il mondo stesso per un attimo gli chiedesse scusa per tutte le sofferenze che gli fa patire.
Le dà appuntamento quasi tutte le sere verso le sette e lei lo aspetta un po’ in anticipo sulla panchina dello spelacchiato giardinetto vicino casa.
E’ già la seconda sera che ha preso il coraggio di tenerle la piccola mano pallida e carezzarne delicatamente il dorso.
Questo è il momento che le conversazioni sulla scuola, sui programmi della tv, sui dischi usciti da poco, sugli amici della cricca o sui genitori che rompono si interrompono.
Le parole in fondo sono nemiche dei sentimenti, almeno di quelli che stanno per nascere.
Giorgio poi non è un vile, ce ne siamo accorti: sa perfettamente cosa deve fare. Dopo le prime carezze ora ha percepito chiaramente il trasalimento di Marianna: come nulla fosse farà salire il braccio destro sulla spalla di lei e la tirerà a sé…e poi, tutto verrà da solo.
Il cuore batte a mille, ma Giorgio sa ancora dominar le emozioni con volontà ferrea: spasima, ma agisce.
Ecco però che senza preavviso alcuno la oscura maledizione si scatena brutale e improvvisa.
“Mari, perdonami ho un problema, scusami davvero…io devo scappare, andare via di corsa, a casa” e tutto paonazzo, come di consueto, si porta con preoccupazione entrambe le mani al ventre.
Marianna rimane sulla panchina, così, offesa quasi per la violazione dell’aura del suo pudore fin allora intangibile e annichilita per l’incantesimo volgarmente interrotto.
Resta lì sola, desolata. Ed è forse in quel preciso istante e per quelle stesse ragioni che decide che potrebbe amarlo. 

I mercoledì pomeriggio all’ippodromo comunale c’è sempre una gran folla.
Dalle 16,00 in poi si corrono le varie batterie di trotto e la gente, scioperati e sfaccendati d’ordinanza per lo più, accorre a frotte per le scommesse sulle corse.
Su una delle file più alte degli spalti c’è anche Giorgio. Indossa un cappellino con la visiera arricciata e la immancabile tracolla piena di tutto il corredo di ordinanza.
Con lui ci sono anche il compagno Peppe ed un paio di amici della borgata.
Tutti e tre rispettano Giorgio un po’ per le sentenze laconiche e acute con cui risolve ogni questione, un po’ soprattutto perché nelle controversie ha perennemente l’aria di quello che non ha bisogno di urlare o dimenarsi più forte degli altri per far prevalere il suo punto di vista, avendo dalla sua un carisma da leader, costruito forse inconsapevolmente con i suoi significativi silenzi e uno sguardo profondo che si impone su tutti. E poi, nessuno di quei teppistelli di cartapesta lo ammetterebbe, temono le risorse quiescenti di quel fisico colossale.
Giorgio nella terza batteria ha appena deciso di puntare venti euro su Principe Alberto vincente. E’ sicuro della sua vittoria, perché ha avuto una dritta da un vecchio amico allibratore.
Ne è talmente sicuro che cerca in tutti i modi di convincere gli amici a puntare anche loro sul cavallo: nonostante la soffiata rimane pur sempre un piccolo azzardo, ma è meno aleatorio se condiviso con altri.
I compagni di Giorgio veramente sono là solo per occupare un pomeriggio di noia e non hanno ne voglia ne denaro per scommettere. Sono molto riluttanti a puntare il loro scarso denaro; alla fine però l’insistenza di Giorgio ha la meglio e con una certa fatica racimolano venticinque euro in tre da puntare sul suo favorito.
Manca ancora un’ora circa alla corsa, ma il nostro protagonista, lo sappiamo, non è un approssimativo.
Vuole fare le cose per bene. Quindi prima della partenza paga con largo anticipo al botteghino le sua quota e quella degli amici per la scommessa, quindi scende cogli amici al bar a prendere una birra e un pacchetto di sigarette. Ad un quarto d’ora dalla partenza Giorgio comincia a sentire la tensione dell’imminenza della gara, perché mentre sorseggia la birra lo sguardo è nervosamente obliquo e perso, non sembra ascoltare le conversazioni dei ragazzi. La fronte suda copiosamente: sembra un po’ una mosca prigioniera in un bicchiere capovolto.
Poi ad un certo punto di colpo, come al solito, dice loro di aspettarlo in tribuna che lui arriva subito.
I ragazzi tornano ai loro posti ridacchiando, scambiandosi colpi di gomito e cenni d’intesa.
Sanno che il loro amico sarà andato a fare un ultimo pellegrinaggio al luogo che placa le sue ansie, la  sua infallibile taumaturgia.
Torna su che i sulky con i fantini sono già allineati davanti alla macchina con la rastrelliera della partenza.
Il tempo di sedersi e lo sparo dello starter dà la partenza. Principe Alberto parte bene e all’uscita della curva mette la testa davanti agli avversari. Inizia il secondo giro, staccandosi deciso dagli inseguitori. Giorgio segue il trotto del cavallo seduto, in silenzio, lo sguardo fisso, gli avambracci distesi sulle gambe, i pugni vigorosamente serrati.
I ragazzi della cricca invece si sono fatti prendere dall’emozione della corsa. Non la smettono di urlare a squarciagola indecenze, di saltare, di incitare Principe Alberto con l’eccitazione di un parossismo che cresce all’approssimarsi dell’arrivo.
Poi a metà del rettilineo opposto a quello d’arrivo, come un fulmine a ciel sereno, il cavallo rompe l’andatura, venendo immediatamente squalificato dal giudice di gara. Il fantino frena la corsa ormai inutile e l’animale è mestamente superato da tutti gli altri concorrenti.
Giorgio chiude gli occhi, rimanendo immobile come di pietra. Gli amici invece, dopo un primo brevissimo momento di sbalordito inebetimento, esplodono in un’ira incontrollabile.
E io non dovevo nemmeno venirci qua, porca***, che c’ho pure interrogazione di inglese domani; ma vaffa***; tre giorni, tre giorni di ricreazione mi facevo con quei soldi, mannaggia al ***; belli ‘sti consigli Giorgio: chi te li ha dati il mago Silvan? ‘sto allibratore del c*** ; era meglio, se li 
dovevo buttare, che i soldi li buttavo a mign***; ma zitti, zittitevi tutti, - interrompe tutti Peppe allargando le braccia davanti a sé - fate posto, che ora Giorgietto si alza e se ne va dritto, dritto a cag*** e tutto è risolto!
Neanche il tempo di finire la frase che la vittima degli sfottò si mette in piedi e molla sulla guancia sinistra di Peppe un ceffone pieno e sonoro che lo fa precipitare sulla schiena dello spettatore della fila sotto.
Il ragazzo, appena riavutosi dal colpo, si rialza dolorante con una mano sulla guancia in fiamme: non fiata neanche né accenna ad alcuna reazione, si rialza e se la batte via a casa e di corsa.

La notte è fitta e buia e senza rimedio per Giorgio.
Va a letto presto indicibilmente fiaccato dalle vicende del pomeriggio. Vuole ferocemente prendere sonno, ma smania, rigirandosi nelle lenzuola e quando gli riesce di addormentarsi è una specie di delirio febbrile, nevrotico. Sogna o immagina (che è lo steso perché neanche lui sa bene se dorme o no) di professori lividi; di bidelli scabrosi davanti che ostacolano col loro corpo l’uscita dalla classe; di decine di sveglie dal quadrante gigantesco, ma con le lancette tutte ferme; di padri seduti al suo capezzale ostinatamente muti; di ragazzine minute e piangenti che si allontanano da lui, diventando sempre più minuscole; di sberle, pugni, zuffe e poi, soprattutto, di fitte dolorose al basso ventre e di fughe disperate verso la porta del WC, per la quale vede entrare frotte di ragazzi, ma che si chiudeinspiegabilmente all’ultimo istante al suo arrivo. 
Il mattino dopo è sabato: a scuola si fa orario breve, così ha la possibilità di fermare Marianna e chiederle di fare un giro al centro commerciale accanto alla scuola.
Giorgio sente che questa è una giornata decisiva per mettere ordine alla sua vita, per la sua esistenza stessa.
La ragazza accetta più per educazione, che perché ne abbia voglia davvero. Giorgio la porta su una panchina appena fuori del fabbricato.
L’altra volta sai, io sto bene con te, volevo dirti e allora è pazzesco che quando sto bene con una ragazza và a finire così…cioè mi pareva che eravamo sul punto di…insomma mi sembrava che anche tu fossi proprio sul punto di… e, come ti dicevo, quando è che mi piace qualcuno, – una per esempio – quand’è che mi emoziono, è allora che capita che sto male,… perché non so come dire, tu sei una di quelle che mi fa smuovere tutto qua sotto: ecco te l’ho detto!
La ragazza è perplessa, frastornata: a parte il ricordo del turbamento dell’altro pomeriggio, non sa se essere lusingata oppure offesa da quello che ha appena sentito. Che razza di complimento è che un ragazzo ti dica che gli fai male alla pancia, che gli smuovi qualcosa giù in basso: più o meno come una purga o un’indigestione di patatine fritte! E poi in basso dove, fino a quale punto del corpo in basso? Marianna non capisce bene: ha sentito parlare talvolta in tv di amore carnale, somatizzato, viscerale. Ma anche di lotte intestine, di decisioni prese di pancia. Cosa intendeva Giorgio: quella che ha detto era una cosa buona o volgare, di cattivo gusto? Che il suo sia invece amore, ma un amore di siffatta specie, corporea cioè? D’istinto vorrebbe andare via di corsa, ma c’è qualcosa in fondo al suo animo che la frena ancora per qualche attimo.
Tiene il capo chino e con la sinistra continua a grattarsi nervosamente il dorso della mano destra.
Poi con la coda dell’occhio percepisce qualcosa, un morbido movimento della mano di Giorgio in senso rotatorio sul proprio addome.
E’ una azione discreta, ma decisa, piena, voluttuosa quasi. Il bell’ovale di Marianna, senza che lei stessa se ne possa subito rendere conto, si riga di due grosse lacrime. Proprio in quel momento si sente in lontananza un rombo di un grosso motore: è la familiare accelerazione del 104 giunto all’inizio del viale della scuola.
Marianna afferra uno spallaccio dello zainetto, scatta in piedi e fa a Giorgio, senza neanche guardarlo in faccia: “fammi capire: tieni più a me o alla tua pancia?” e senza aspettare la risposta fugge a rotta di collo a prendere al volo il bus. 

Sono le otto del 22 giugno, la fatale data dell’inizio degli scritti degli esami di Stato. Giorgio ha fatto intendere ai compagni giù in cortile con la consueta intransigente sicurezza che salendo su in classe non si azzardassero a precederlo nella scelta dei posti per lo scritto di italiano, che lui è lì dalle sei e mezza del mattino e che a lui nessuno deve toccare il posto in prima fila vicino alla porta, a cui d’altra parte nessuno neppure ambisce.
Alle nove e dieci l’intera commissione è schierata al di là della lunga trincea dei banchi uniti in una lunga fila orizzontale. Il presidente dà lettura delle tracce appena estratte dalle buste sigillate. Il nostro protagonista non ascolta neanche. Piuttosto continua a scrutare con fare ipnotico e a carezzare freneticamente la santina di San Domenico Savio adagiata sul banco. E’ più un rituale feticistico che preghiera o altro.
Sono le dieci e un quarto: Giorgio, già da mezz’ora è rubizzo e sudato in viso. La prof di italiano, uno dei membri interni e donna sensibile ai problemi e ai disagi dei più fragili dei suoi ragazzi, capisce il momento di Giorgio.
“Ehi, Giorgio, che succede, come va col compito: hai qualche problema con le tracce?”
“Prof, lei lo sa; a me capita ogni tanto di entrare in panico, di confondermi, di agitarmi.”
“Sai che non posso fare niente: il tema te lo devi fare da solo, ma se hai bisogno di sostegno, di incoraggiamento… sono qua”
“Senta prof devo uscire, ora, per forza…subito”
“Presidente senta: Di Lorenzo vorrebbe, avrebbe necessità di andare ai servizi…le avevo spiegato del suo caso”
“Professoressa, lei è una veterana degli esami di maturità e sa che prima che siano trascorse due ore nessuno per nessuna ragione può lasciare l’aula”
“Sono perfettamente al corrente della normativa…ma il suo è un caso speciale, straordinario. C’è anche tanto di certificato medico specialistico e di lettera di accompagnamento firmata da tutto il consiglio di classe e perfino dal preside tra la documentazione. Poi sa ci mettiamo noi in una condizione, come dire, di irregolarità, di violazione dei diritto alla salute dei ragazzi…”
“Beh, senta, facciamo così. Vado io ad accompagnarlo ai servizi. E che sia chiaro ragazzi che si tratta di una eccezione fatta in via del tutto straordinaria: è chiaro?”
Giorgio, sollevato da quella concessione, consegna la minuta e guadagna l’uscita, seguito da un occhiuto e sospettoso presidente.
Il commissario di educazione fisica, professor Salnitro, un altro dei membri interni, un giovane pieno di salute e dalla battuta fulminea e salace commenta: “Meno male, il signor Di Bella la aveva lustrata come una tazza d’argento proprio per lui stamattina,!”
Trascorrono - ma per noi non è certo un evento nuovo - dieci e poi quindici, venti minuti da che la porta del wc si è chiusa. Il viso del presidente accompagna questo trascorrere del tempo con mutamenti graduali della sua espressione da indispettita, a contrariata e poi sinistra, imbestialita, come le transizioni del cielo estivo in montagna, quando a volte vira rapidissimo in pochi minuti dal sereno ad una improvvisa scrosciante burrasca.
Prende allora a bussare furiosamente all’uscio della toilette urlando: ”Di Lorenzo, esca immediatamente dai servizi, che sono passati almeno una ventina di minuti da quando è entrato. Esca subito o sarò costretto a prendere decisioni drastiche.”
Passa un minuto, forse due e si sente dal bagno lo scrosciare della cascata dello sciacquone.
Giorgio viene fuori, trafelato come sempre. Con la destra impugna della carta stropicciata, che, alla vista inaspettata del presidente ancora dietro l’uscio, cerca con un senso di pudore di infilare frettolosamente in tasca.
Il presidente è fuori di sé dalla rabbia.
 Cos’è questa carta che ha nascosto? Foglietti, bigliettini che qualcuno le ha passato, di certo sarà così. Ecco perché tutto questo tempo in bagno e prima che fossero passate le due ore regolamentari. E io che ci sono cascato come un fesso: bravi, bravi , lei e la professoressa Cerami pure. Ma io la rovino, Di Lorenzo, glielo garantisco”
E il ragazzo con voce lacrimosa, disperata: “No, no, non è come pensa lei, la prego: questa che ho messo in tasca è carta…carta ehm…”
“La smetta di fare l'idiota. Me la mostri: le ordino di mostrarmela, immediatamente.”
Ecco, in questo momento Giorgio stranamente vive un momento di sospensione temporale, di distacco della coscienza dal presente, di deja vu indiretto, probabilmente. Gli torna lucidissimamente in mente la lettura, tre anni prima, dei Promessi Sposi e di frà Cristofaro. Di quando il frate giunto per chiedere a Don Rodrigo di non frapporsi alle nozze dei due giovani, era rimasto inaspettatamente confuso, intimidito di fronte alla violenza verbale, alle minacce, alle provocazioni del signorotto. Fin quando il tirannello non aveva insinuato che il religioso potesse avere un qualche laido interesse nei riguardi di Lucia e allora aveva superato il segno e la misura era diventata colma.
E allora frà Cristoforo ruppe i freni e tornò libero, libero di dire con coraggio tutto quello che quel farabutto meritava, libero di intimorirlo a sua volta, come l’amore della giustizia e della verità esigevano.
“Io non le mostro un cavolo di niente, presidente dei miei stivali.” disse Giorgio “La carta che ho messo in tasca non era di quel genere che pensa lei. E ora faccia quello che le pare, ma si tolga dai piedi!”
Il parapiglia che ne seguì fu memorabile, paragonabile soltanto a quello capitato con la supplente di religione.
La Cerami che gridava al diritto violato, il presidente che urlando continuava a battere la sua strada, il prof di educazione fisica che in disparte se la rideva di gusto, i ragazzi che sbalorditi e preoccupati non sapevano che pesci pigliare.
Dopo alcuni minuti di vera baraonda infine il presidente, appellandosi ai privilegi che la sua carica gli concedeva, decretò l’inappellabile esclusione di Giorgio dagli esami di Stato.
Fu proprio allora, un attimo dopo che il presidente aveva emanato la formula solenne di tale sanzione, che il Salnitro, dando un’occhiata divertita a Giorgio che intanto stava raccogliendo le sue cose, scoccò una formidabile saetta delle sue: ”Finalmente! Ora ho visto per la prima volta uno che veramente si è mandato a cagare da solo!” 

Quindi, per chi si aspetti che l’autore debba mantenere quanto promesso nel prologo, direi che il titolo del racconto potrebbe recitare proprio così: “L’uomo che si mandò a cagare da solo.” 

Carini 19 luglio 2011














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