di Daniela Palumbo
La scrittura migliore disconosce l'animo sereno.
Che significa? Vuole forse dire che scrivere, e scrivere bene, in modo da sedurre la mente ed entrare direttamente nel cuore di chi legge, magari lasciandovi una traccia indelebile, presuppone il germe di una sofferenza consumata in solitudine? Scrivere una "buona pagina" è forse cercare di sovrapporre significati intrisi di drammatica e singolare umanità a significanti logori e usurati, applicandovi bende pulite, nuove medicazioni?
E soprattutto, sarà vero che colui (o colei) che scrive mira a proiettare verso l'esterno il pensiero "malato", che lo ossessiona e lo affligge nel corpo e nello spirito, dando sfogo a un impulso (tanto maligno quanto liberatorio) di guarigione attraverso la condivisione e il "contagio"?
Chi potrebbe affermarlo con certezza... Forse il bisogno di tradurre in segni e trasmettere ad altri quanto ci abita dentro, nei momenti della prova, non necessariamente traduce l'ansia, il bisogno più o meno impellente, di trovare una cura; forse non è altro che il desiderio di occupare il tempo che ci separa dal traguardo (sarà il traguardo che davvero cerchiamo?), mentre partecipiamo al nostro prossimo, una per una, le vicende del nostro male. Così facendo, vengono scanditi, e insieme si accorciano, i giorni e le ore del ricovero. Così facendo si abbrevia il viaggio, e moltiplicando le soste si avverte più vicino il raggiungimento della meta.
E quando si recupera la casa, e finalmente l'animo si rasserena, come uno sfondo che non abbia più ombre da svelare, forse ci si accorge con rammarico di non avere da dire molto altro.
Così anch'io?
lo starec dei fratelli karamazov diceva di guardare gli altri come bambini, o come malati d’ospedale...
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