giovedì 14 aprile 2011

I boati

di Enzo Barone
II parte
I soldati intanto, dopo una scrupolosa perlustrazione dell’area considerata, che non aveva sortito alcun risultato, erano ritornati nei pressi della foresta, consultandosi con i carabinieri sul da farsi e attendendo ordini per il giorno dopo. Al capitano in comando a un certo punto venne anche in mente che da quelle parti, a una manciata di chilometri a nordovest in linea d’aria, si trovava un poligono di tiro dell’artiglieria da montagna e che poteva essere quella la causa di tutto, anzi senz’altro sarà stata quella, ma, ahimè, come si sa, tra i vari corpi dell’esercito si è gelosi di tutto e non ci si dice mai nulla ed è quindi, possibile, anzi possibilissimo, che quei mona degli artiglieri avessero fatto la settimana scorsa un chiasso strabiliante, con qualche colpo a carica maggiorata, senza avvisare né rendere conto a nessuno giù a valle.
Il sergente maggiore da parte sua, tra una boccata di sigaretta e l’altra, scusandosi se si permetteva di contraddire il superiore, obiettava che per lui, che in artiglieria era stato sette anni, non poteva essere quella roba là, che lui pensava invece alla polveriera NATO di Tai di Cadore e a certi cunicoli occulti lunghi tutto il Veneto ed oltre e a esperimenti, con esplosioni sotterranee segrete, di cui aveva sentito dire da un amico in servizio ad Aviano. Nessuno sapeva bene di che nuovo tipo di esplosivo dirompente si trattasse, ma non era nemmeno da escludere che potesse essere un ordigno nucleare a basso potenziale. Bisognava ascoltare lui. Era una perdita di tempo fare scampagnate per i boschi, l’era quello e basta, ma non dite che ve l’ho detto io, per carità di Dio. Era alterato, aveva un tono di voce e una cadenza nei gesti che non ammetteva repliche, al limite quasi dell’insolenza verso il superiore, che mentre quello pontificava lo fissava, passandolo da parte a parte con lo sguardo, con un‘espressione di interrogazione amara, di sorpresa.
E fu proprio in quella posa, alle sette meno un quarto di quella memorabile sera, che un quarto terrificante boato sorprese il mondo, lasciando tutti impietriti.
Stavolta il fragore si era udito distintamente non solo sull’altopiano, nella Val Belluna e in tutta la conca dell’Alpago, ma anche su per Longarone, fino allo zoldano, ad Erto, Casso, all’intero alto pordenonese persino.
Non macigno che rotola, frana che schianta o diga che rovina; più che un clamore di esplosione, più che il fragore che precede una eruzione vulcanica, più che uno sconquassarsi delle profondità della terra, al suo arrivo il rumore parse la materializzazione di una angoscia da tutti attesa, temuta: un incubo ineludibile fattosi suono. Prima ancora della sua manifestazione fu preparato da alcuni sussulti tremendi e maligni, che scossero l’essenza stessa degli esseri viventi, poi deflagrò pieno, sommo, nella solennità di un solo tuono portentoso, amplificato milioni di volte. Oscuro e tenebroso, come colosso immenso, né uomo né bestia, concepito nei recessi più bui di qualche inferno, per annientare ogni certezza, ogni bene, ogni protezione paterna, ogni riparo o ricettacolo di salvezza dell’umanità.
A più d’uno sembrò davvero il fatidico echeggiare delle trombe dell’arcangelo Gabriele nel Giorno del Giudizio, l’annuncio del Dies irae.
Nei paesi e nelle città, stavolta, tutti nello stesso momento inondarono le strade, come un dilagante tzunami: i bambini interruppero di giochi e corsero a nascondersi nel grembo delle madri; nelle osterie ci fu chi scagliò per terra il bicchiere di vino e chi scoppiò in un pianto pieno di colpa; qualcun altro invece attaccò ad imprecare e bestemmiare istericamente, per non essere stato avvisato per tempo da nessuno dell’imminenza della fine del mondo; in comune il Consiglio si interruppe e nessuno seppe più cosa fare, se non incollarsi al cellulare in preda all’angoscia e chiamare tutti quelli che aveva in memoria; i preti sudavano nelle loro canoniche, stringendo mani e nocche furiosamente, pronunziando stentati balbettii, giacché la preghiera non riusciva più a sgorgare dalle loro labbra; due vecchi innamorati, non più amanti da decenni, presi da improvvisa passione, presero ad amarsi come mai prima, soffocandosi quasi in un abbraccio senza pietà e mentre lo facevano piangevano di gioia e di rimpianto.  
Mentre tra quanti erano rimasti rintanati in casa continuarono a diffondersi senza più controllo  notizie sugli avvistamenti dell’assessore Bottacin, che, come le apparizioni della Vergine, avvenivano sempre nelle contingenze di un pericolo incombente per la salute dell’umanità: ci fu chi lo vide scappare a rotta di collo trafelato da una casa per appuntamenti fuori paese; chi uscire vestito da donna addirittura dalla casa della moglie del sindaco; chi lo avvistò persino con un soprabito nero, mentre correva per le vie del paese, agitando un fazzoletto e avvisando tutti a gran voce che era arrivata l’ora di pentirsi dei propri peccati, che lui lo aveva capito troppo tardi. Ma a tarda notte arrivò la rettifica che si trattava di De Profundis e che Bottacin, si sa, se non era in casa doveva essere a Venezia per colloqui politici di altissimo profilo.
Nel campo in riva al torrente, invece, dei due volontari della Protezione Civile che stavano da giorni ritti sul’attenti, uno prese a lanciare spasmodicamente con la radio ripetuti may day-may day alla centrale di Roma, l’altro rimase impassibile in posa, con una atarassia olimpica, favorita probabilmente anche dal fatto che era del tutto sordo da quindici anni. L’ingegnere, piuttosto, andando su e giù furiosamente come un leone in gabbia, attaccò a dare ordini, urlando di attivare i gruppi elettrogeni, di predisporre le cucine da campo, di tenere accesi i motori dei mezzi, di montare brandine e materassi gonfiabili per tutte le evenienze, come se stesse comandando una squadra di una ventina d’uomini e non di due soltanto.
Ad ogni buon conto, nemmeno adesso l’ombra di una spiegazione credibile si manifestava nelle menti degli esperti chiamati alla bisogna, men che meno la più plausibile, cioè quella del terremoto, poiché ancora una volta gli strumenti non avevano registrato fenomeni di rilievo. L’unica cosa che ci si risolse a fare fu convocare un summit nella sala consiliare del comune a Vittorio Veneto con tutti gli esperti e con la presenza del prefetto di Treviso, per fare il punto della situazione e approntare nuove ipotesi di lavoro.

Su in montagna, invece, davanti alle casere degli alpeggi più alti, il fragore, come tutto lassù, era giunto ammantato di toni maestosi, di riverberi solenni, quelli con cui forse gli dei dall’Olimpo scorgono di lontano gli affanni degli uomini.
Ciò nonostante gli animi erano oscurati e allora, come un tempo, si accesero grandi falò in tutta fretta per segnalare il pericolo di costa in costa; qualche mandriano, con la preveggenza antica di secoli, mandò precipitosamente fuori dalle stalle le bestie a furia di nerbate, pensando di salvarle così dalla catastrofe. Nella malga del Bastianazzo, poi, i manzi si abbandonarono ad un concerto di muggiti carichi di un’angoscia quasi umana, mentre la Corinna, che era prossima ormai a sgravare, presa dal delirio di un terrore ignoto, partorì, uno dopo l’altro, due vitelli già morti.
Erano questi ultimi i segni, erano questi gli accadimenti, e non altri prima di essi, che segnarono la gente delle montagne e più giù, fino a valle, battezzando il loro cuore con l’acqua dell’inquietudine e il fuoco della profezia temuta.
Nell’altopiano sopra Vittorio Veneto, nelle piccole case perse nella immensità del bosco e nei borghi ai suoi margini, c’era chi aveva sentito di quei segni e aveva tremato. Nel pittoresco villaggetto poco dentro il bosco di conifere i cimbri (1) non avevano manifestato le emozioni dettate dalla nevrosi parossistica dei valligiani; gli uomini della foresta guardavano le cime degli abeti pizzicati lievemente dal maestrale e tacevano.
Scrutavano l’arrossarsi del cielo, tacevano, pensavano e non erano pensieri allegri.
Oppure bevevano seduti davanti all’uscio di casa e straviando urlavano con voce distorta, mescolando insolenze a oscuri e bislacchi vaticini, con quel timbro vagamente metallico che sapeva di un remotissimo passato teutonico. Qualcuno ricordava antiche leggende germaniche, o meglio dire favole, benché assai contaminate e stabiliva astruse connessioni con quei fenomeni e con i segni che erano seguiti.
La domenica successiva era il 21 di giugno e nel grande pianoro davanti alla foresta, che dava verso l’Alpago, molti cimbri provenienti dai paesi di Vallorch, di Broz, di Fregona, di Farra d’Alpago si erano ritrovati per far festa. Era una festa semplice e gioiosa che facevano in quella data da parecchi anni, fin quando qualcuno, che aveva letto qualche libro di etnoantropologia sul proprio popolo, si era inventato di dare un significato nuovo alla festa, credendo di poter riesumare un supposto antico rito cimbro per il solstizio d’estate.
Al gruppo cimbro quell’anno si erano uniti, avendone fatto cortese richiesta, Gino De March, Paolo Saviane, Gelindo Bortoluzzi e l’avvocato Giorgio Girardi, insomma il gotha della rappresentanza della Lega, dei comuni della zona. Un professore, di quelli che stavano ai caffè di Piazza Fiume a Vittorio Veneto, aveva raccontato al Girardi e agli altri di un arcaico rito celtico del sole di grande importanza che si celebrava il 21 giugno e allora i leghisti avevano creduto che quel rito paleo celtico potesse essere assimilabile alla coeva festa celebrata in quella data dai Cimbri. E poi, con quello che era successo due sere prima, non si sa mai: chissà che non servisse anche quella roba lì.
La mattina c’era stata la classica gara del taglio del tronco col sergon (2), cui era seguita la recita, da parte di alcuni, di un inno d’invocazione al sole crescente e dopo tutti si erano presto tuffati in una ricca grigliata di costicine e salsicce. Il tutto accompagnato da torrenti di buon merlot e di prosecco. I bimbi si erano messi a giocare a palla tra gli alberi; gli uomini a finire il prosecco; i leghisti a glorificare gli antichi Celti e Alberto da Giussano.
Dopo il pranzo alcuni uomini, cui si era unito Giorgio Girardi, si erano appartati invece in un angolo di radura, a fumare seduti su dei tronchi, scambiandosi, in mezzo a qualche battuta greve o a qualche canzonatura, le loro impressioni e le malcelate preoccupazioni circa gli ultimi eventi. Alcuni di loro, figli di vecchi boscaioli, esperti cacciatori e bracconieri, uomini della foresta comunque, erano di quelli che vivevano ancora un pagano sentire panico della natura: lo avvertivano quando s’inoltravano nel fitto della foresta di una oscurità sacra, vasta di un mistero ancestrale. Essi sentivano il bosco, vivevano con lui, col vento, coi mormorii dei faggi e degli abeti, con le litanie dei cuculi e i presentimenti dei cervi, con il gorgogliare dei ruscelli.
Ad un certo punto uno di questi, Elvis, disse così, di botto: “ Si dovrebbe andare a parlare con Dino Svalduz, su per il Monte Cavallo: per me è l’unica”
Bastò una sola occhiata d’intesa e ci si alzò tutti insieme per mettersi in macchina e andare a far visita al vecchio Dino. Costui era un cimbro ossuto e dal naso affilato di circa sessantacinque anni. In passato aveva fatto l’usciere al comune di Fregona, ma, dopo che la moglie lo aveva piantato in asso di punto in bianco una ventina d’anni prima, non avendo prole, aveva preso la decisione di licenziarsi e di andare a vivere da solo nel bosco in una casera rimessa su alla buona, facendosi bastare i denari che poteva ricavare dai lavoretti saltuari di riparatore tuttofare al Park Hotel Montecavallo.
Era da anni considerato la coscienza storica di quella etnia e per qualcuno ancor di più, una specie di moderno santone, di sciamano animistico della spiritualità cimbra.
Lo trovarono seduto davanti alla porta che dava da mangiare a degli scoiattoli.
Ehi, vecio com’è che te stà? Che aria tira da ‘ste parti?” esordì Gigi Moret vedendolo.
Che aria po’, l’aria dei monti, mona!” rispose Dino senza sollevare lo sguardo.
E’ inutile girarci intorno, vecio, lo sai perché semo qua no?” aggiunse Elvis.
Gli scoiattoli erano scappati all’arrivo degli uomini, ma Svalduz continuava a sbriciolare pane per terra.
Guardi signor Svalduz non vogliamo farle perdere tempo, ma sa, dopo quello che è successo, tutto il casino giù a valle, ma anche qua su…insomma non si sa che pesci pigliare, nessuno, né militari né scienziati lo sa.” fece con una certa apprensione Girardi.
Lei...che so, i ragazzi qua mi hanno detto, mi hanno convinto…lei è un vecchio saggio, un uomo del bosco…insomma, si sarà fatto anche lei una qualche idea di quel che lè o non l’è ‘sta roba qua!”
Dino adesso si stava grattando la fronte, tenendo sollevato il consunto cappello piumato.
L’è una roba strana, strana davvero, una roba granda, de un certo rilievo direi…” fece il vecchio.
Dai Dino par mi l’è stada, una frana grandissima, immensa che però se ha ancora da trovar…” interruppe Michele Peralta, il postino.
Ma dai mò Michele, se l’esercito è là a cercare da una settimana da tutte le parti e no la gà trovà (3)! Deve da essere piuttosto, che so, qualche vulcano preistorico, che coi so rimbrotti e i so rigurgiti sotterranei, diremo, provoca quel trambusto che abbiamo sentito” fece di contro Piero Tonetto, che era considerato uomo di scienza.
Senti Dino - disse con un aria di gravità a quel punto l’Elvis -  qualcuno di noialtri, di noi che sta più tempo per i boschi che in letto con la moglie, qualcuno di noialtri ha una strana sensazione, un presentimento…oggi po’ è la festa del solstizio con tutte quelle stregonerie, con tutte le leggende le premonizioni antiche delle nonne e i segni…i segni che ci sono stati…che te disi ti, Dino, eh?”
“L’è una manifestazione, una espressione, ti te sa Elvis…” stava rispondendo il vecchio, ma Girardi lo interruppe con fare impaziente: “Macchè manifestazione e fenomeno! Stiamo perdendo tempo qua; mi sa che ho sbagliato a venire su. Questo è certamente un fenomeno di turbolenza, di sommovimento sonoro delle quote più profonde sotto il mantello terrestre, che non dà però segnali sismici rilevabili…come dire, le viscere della terra che si smuovono fortemente…”
Ecco, bravo, ti gà capì: le viscere de la Madre Terra coi soi sommovimenti” e mentre parlava Dino Svalduz aveva alzato la testa e aveva l’occhio perso delle sibille, invasate dal sacro furore del dio.
Girardi faceva cenno di voler andare via, ma Elvis lo trattenne per un braccio.
“Continua, Dino, che te disea (4) allora, le viscere? La Madre Terra…che fa sta Madre Terra coi soi sommovimenti?”
Tutti, compreso Girardi, erano rimasti a quel punto in religiosa attesa del responso oracolare.
“I sommovimenti de le viscere de ‘sta gran Madre Terra che la se gà smovù (5), dopo le sofferenze le ferite, le offese dell’uomo di questi anni, insomma dopo tutte le stratosferiche rotture de cojoni che la gà ciapà (6) da voialtri dei paesi e delle città , la gran Madre ha come sopportato, accettato, assorbito, digerito tutto e in fine, al final de ogni cosa, la fato(7), la gà espresso un grandissimo, solenne, maestoso, epico rutto de risposta, boce !(8) ”
Gavè capì (9)? E adess andè fora de bal, su !”

Carini 9/4/2011

NOTE DELL’AUTORE PER I NON-VENETI
(1) Da quelle parti, dentro al Cansiglio, immensa e meravigliosa foresta tra le province di Treviso, Belluno e Pordenone, vivevano e vivono ancora i discendenti - ma forse piuttosto sono sopravvissuti solo il nome e la memoria – di un’antichissima tribù germanica, i Cimbri, scesa minacciosa in Italia nel 100 avanti Cristo, ma inesorabilmente sconfitta e fermata dalle legioni del generale romano Mario. Mi piace pensare a quelli attuali come ai discendenti diretti di questi, ma storicamente i Cimbri attuali discendono probabilmente da tribù cui fu concesso di stanziarsi sull’altopiano di Asiago nel XIII secolo e da qui arrivarono sul Cansiglio nel XIX secolo. Oggi sono dei veneti come gli altri, ma coltivano fieramente il ricordo delle loro meravigliose origini, la lingua talvolta, il ricordo di una etnia che, come dinosauri risparmiati dall’estinzione, venendo dal cretaceo della storia, è miracolosamente sopravvissuta alla volgarità del trascorrere del tempo e all’obnubilamento delle generazioni, che hanno attraversato questa terra nei millenni.

(2) Il segone da boscaioli

(3) non l’ha trovata

(4) che dicevi

(5) si è smossa

(6) che ha preso

(7) ha fatto

(8) ragazzi

(9) avete capito?



3 commenti:

  1. Un racconto appassionante che ti prende dall'inizio alla fine con un epilogo paradossale ed esilarante.In un momento dai grandi sconvolgimenti naturali ed artificiali sembra giusto riflettere sul destino della terra anche attraverso un sorriso. Complimneti. Salvo Barone

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  2. Si legge con crescente curiosità.Molto pittoresco e interessante.Fa riflettere divertendo.Finale sorprendente e molto efficace. Bravo Enzo!!! Ina Granà

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  3. è forse un boato simile alla "grande esplosione che nessuno udrà" dello zeno sveviano??
    ennio

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