di Francesca Saieva
Alce Nero, guerriero Sioux, un giorno dice: “ogni luogo può essere il centro del mondo” (C. Magris in Corriere della sera, 2009). Ma Alce Nero è un saggio come soltanto “un grande scrittore analfabeta” (ivi) può essere. Perché l’idea di un ombelico del mondo è di certo impregnata di universalismo etico. Peccato che da Amnesty International Italia, pochi giorni fa, siano arrivate notizie di tutt’altra entità. In merito alla questione immigrati Amnesty ha infatti parlato di “condizioni al di sotto degli standard internazionali dei diritti umani, diritti non dei migranti, ma della persona” (Il paese nuovo.it 1 aprile 2011). Atrocemente sconfortanti del resto le recentissime notizie sulla tragedia, a largo di Lampedusa, del barcone con 300 somali ed eritrei in fuga dalla Libia. È dalla Capitaneria di porto di Lampedusa che giunge voce, del resto, di uomini in balia di trafficanti che imbarcano i nordafricani in fuga su una carretta del mare, lasciando che se la cavino da soli, senza scafisti, senza nessuno che abbia esperienza di mare (Repubblica, 2011).
Tra campanilismi nazionali e locali si consuma quindi “il dramma delle nostre coste” che, come osserva Guido Monte, è “espressione della miseria del nostro tempo” un tempo in cui, mentre si parla delle nostre radici cristiane europee, avvengono “migrazioni bibliche di nostri fratelli, rinnegati cristianamente nel loro essere umani”. Processi involutivi della e nella storia per quest’impasse mondiale.
Già nel 1968 Powell considerava l’immigrazione asiatica e africana una minaccia per il futuro della Gran Bretagna. Da quel lontano ‘episodio’(non di certo il primo) a oggi l’intolleranza si è prolificata e non c’è paese che tra i conservatori non ne abbia trovato degli adepti. Siamo ancora così lontani e ‘antiquati’ al cospetto della modernità di Tacito quando dice, attraverso le parole dell’imperatore Claudio, che “se Atene e Sparta decaddero, ciò derivò dall’uso geloso e miope che esse fecero della cittadinanza. Romolo sin dalle origini aprì agli stranieri la città appena sorta e li fece cittadini optimo iure” (Luciano Canfora in Corriere della sera, 2007).
La gestione della cittadinanza è uno dei doveri-diritto primari della Mitteleuropa nonché del mondo intero, nei termini di un’identità autentica che, scrive Claudio Magris, “assomiglia alle Matrioske, ognuna delle quali contiene un’altra e s’inserisce a sua volta in un’altra più grande” (Corriere della Sera, 2009). Nella metafora della matrioska il piccolo e il grande convivono sul liminare della soglia. Perché i vessilli (di qualunque natura) non siano occultamento di un pensiero-identità ‘debole’ a favore di identità forti e accentratrici, piuttosto una “finestra aperta sul mondo, un cortile di casa in cui i bambini giocando si aprono alla vita e all’avventura di tutti”, uno scambio di colori, di lingue, uno specchio d’acqua per riflessi d’immagine, per un universale patrimonio culturale. Perché nel viaggio nei confini della storia ogni parte sia un dove, un ovunque, un altrove etico-sociale fuori d’appannaggi di democrazie a-democratiche. Perché sarebbe inoltre da sperare un differente criterio di attribuzione della nazionalità, una sorta di nuova teoria dell’identità nazionale che Gustave Flaubert, al rientro dal suo viaggio in Egitto, sintetizza così a Louise Colet: “la mia patria è per me il paese che amo, cioè quello che sogno, quello in cui sto bene” (Gustave Flaubert in A. De Botton, L’arte di viaggiare, Guanda, 2002). D’altronde lo stesso Socrate a chi glielo chiedesse non diceva mai di provenire da Atene, ma dal mondo.
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