lunedì 24 giugno 2019

Assonanze storiche. Il diciannovismo




di Gero Gaetani


I primi anni del XXI secolo sono stati spesso confrontati con i loro corrispettivi novecenteschi. Ogni ricorrenza centenaria ha dato la stura a dibattiti storici, politici o giornalistici. L’occupazione della Libia (1911), l’inizio della Grande guerra (1914) e la sua fine (1918), la Rivoluzione d’ottobre (1917), solo per citare le occasioni che oltre a mobilitare la memoria hanno anche generato, anzi riacceso antiche dispute storiografiche. Se il dibattito, la comparsa e lo studio di nuovi elementi arricchiscono la costruzione di quel complesso edificio, sempre in cantiere, che è la Storia, altrettanto non può dirsi per la quasi connaturata ed inevitabile strumentalizzazione politica che vi si accompagna, che svilisce e tutto piega alle ragioni del presente.

Fino ad ieri, rievocare e ricordare equivaleva nel discorso pubblico ad una sorta di esorcismo collettivo contro gli orrori del secolo breve. Oggi e soprattutto con l’arrivo del 2019 il quotidiano ci ha scaraventati a quel terribile 1919, alle sue inquietudini, alle sue incertezze e forse a quel suo lacerante risentimento che permeò diffusamente e per ragioni opposte diversi strati della popolazione nel Primo dopoguerra europeo.
Forse non è corretto attribuire all’anno in corso sintomi di un processo che ha segnato alcune delle sue tappe importanti già negli anni precedenti, solo giungendo a maturazione in alcune sue manifestazioni più preoccupanti a ridosso di quest’ultimo periodo.
Pare che l’esorcismo non funzioni più, anzi sembra che rozzi figuri seguano passo passo le indicazioni dei trattati di demonologia per richiamare spettri dal profondo Novecento. Del resto, accaniti fiancheggiatori si affannano a spiegare che siamo in buone mani e che alcuni strappi sono necessari.
Facciamo un passo indietro. Pietro Nenni nel 1962 ripubblica un suo saggio del ’27, “La crisi socialista dal 1919 al 1922”, sotto il nome di Diciannovismo. Il termine mutuato dalla situazione storica di quegli anni vuole essere rappresentativo di quelle forti contrapposizioni ideologiche, lacerazioni sociali, violenze generalizzate nella lotta politica che accompagnano l’eclissi dello Stato liberale. Nenni, in procinto di dare vita ai governi di Centrosinistra tra Democristiani e Socialisti, evidentemente battezza l’operazione politica attualizzando e servendosi della crisi del ’19 per legittimare come necessità storica l’unione di tutti i Socialisti, la collaborazione con la Democrazia Cristiana di Moro e il conseguente isolamento del PCI. Altre volte s’è tornato a parlare di diciannovismo nell’Italia repubblicana, si pensi al ’68 o al ’92.
Tali accostamenti, però, tanto sommari quanto improvvisati, mostrano diffusa incapacità di comprensione storica e malcelati tentativi di approntare strumenti fortemente evocativi nella lotta politica. Il mestiere dello storico è scientifico, non si preclude alla divulgazione, ma non per questo deve anteporre a questa un lavoro complesso e certosino sempre in fieri, proprio perché fatto umano. Come in tutti i paradigmi scientifici della postmodernità anche la scienza storica si adegua alla complessità. Nella fisica classica, punto di riferimento di tutte le scienze sociali positiviste, era sufficiente individuare le cause di un fenomeno perché si determinassero univocamente gli effetti. Dopo la crisi di questo modello avvenuta nel Novecento, i sistemi sociali e le congerie storiche vengono assimilati a veri e propri sistemi complessi indeterminati, dove l’azione di singoli fattori non produce conseguenze certe e risultati attesi. Non si parla più di cause ma di fattori, non semplici relazioni di causa effetto ma correlazioni e interdipendenza complessa. Si potrebbe a questo punto pensare che lo studio della storia non garantisce comprensione, al massimo conoscenza di comportamenti umani, individuali e collettivi, determinati da una molteplicità di fattori. E soprattutto dopo che questi si siano concretamente manifestati nell’agire storico. Tuttavia, nella convinzione che la scienza storica inglobi tutto il <<fatto>> vichiano e debba pertanto comprendere le importanti acquisizioni di tutte le scienze umane, dalla sociologia all’antropologia, dobbiamo accettare la sfida della complessità e la fatica della elaborazione concettuale. Soprattutto, mettere da parte vecchie concezioni che attribuivano allo svolgimento storico una teleologia immanente (lotta di classe) o trascendente (Spirito, Dio) e guardare loro non più assecondando le loro pretese di esclusività ed esaustività ma cogliendone l’importante contributo che esse possono dare all’interno di modelli aperti alla molteplicità fattoriale. In tal senso, uno dei maggiori contributi agli studi storici rimane il lavoro della scuola degli Annales in Francia.
Dopo queste, forse non scontate, premesse è possibile tentare un’analisi del contesto del 1919, e solo successivamente provare a capire se e quanto sia lecito, instaurare similitudini con i nostri giorni.
Per una trattazione ricca e competente del periodo si può ricorrere ai lavori di uno dei massimi studiosi della nascita del Fascismo come Emilio Gentile, di cui siamo debitori nell’interpretazione storiografica del fenomeno.
In questa sede si propongono delle riflessioni orientate dalla lente del presente.
Come è noto, la Grande guerra conclusasi l’anno precedente aveva visto per la prima volta la partecipazione non solo di buona parte degli stati del globo ma aveva interessato e coinvolto le masse europee e nordamericane in modo totale. Queste erano entrate nella storia, si erano nazionalizzate, avevano combattuto al fronte, divenuto anche occasione di socializzazione e scambio fra uomini provenienti dalle diverse parti di uno stesso paese (emblematico il caso italiano), si erano mobilitate nel cosiddetto fronte interno, lavoro nelle fabbriche di armi, le donne avevano sostituito gli uomini arruolati nei lavori usualmente svolti da manodopera maschile. Terminata la guerra, rimanevano sul campo nove milioni di morti mentre si contavano più di ventuno milioni di feriti. L’inutile strage aveva però devastato materialmente e moralmente una platea ben più ampia. Milioni di reduci al loro ritorno trovano situazioni precarie, non riescono a reinserirsi spesso nel circuito economico, la povertà diffusa e il diffondersi di malattie (epidemia di Spagnola) disegnano un quadro delle condizioni materiali grigio e devastante. La delusione per il sacrificio non ripagato si sparge come un veleno che paralizza qualsiasi capacità critica. Le menti e i corpi sono esausti, facili all’ira e preda di cattivi consiglieri. Già durante il conflitto si era parlato del nemico interno, il disfattismo. I principali imputati erano i Socialisti che avevano detto no alla guerra e soprattutto quella parte di loro che, persino a conflitto iniziato, si ostinava nelle sue posizioni di internazionalismo pacifista. Del resto, ufficialmente il Partito aveva fissato definitivamente il suo atteggiamento nel motto di Costantino Lazzari: <<né aderire, né sabotare>>, estraniarsi spiritualmente senza creare difficoltà pratiche. Tuttavia, in certi ambienti reazionari si costruì la paura complottista tesa ad identificare nelle loro istanze, improbabili congiure mondiali ordite ai danni della piccola Patria italiana. D’altra parte, ai contadini spediti in trincea s’era fatta la promessa della distribuzione di terre al termine del conflitto, senza che ciò avesse un seguito. Le neonate leghe contadine, bianche e rosse al Sud e nel Lazio, sindacati e gruppi organizzati all’interno delle fabbriche del Nord iniziano dure manifestazioni per rivendicare diritti e salari adeguati, occupazioni dei luoghi di lavoro e violenze contro i datori, l’ennesimo governo Giolitti non sceglie di seguire la linea Pelloux ed evita di reprimere nel sangue i moti sindacali.
Ad esacerbare ulteriormente gli animi si pone la questione politica internazionale.
L’intervento degli Stati Uniti aveva di fatto sbloccato ed accelerato la fine della guerra ma aveva anche sovvertito i piani di riassetto postbellico orditi dall’Intesa. A pagarne le conseguenze era stata anche l’Italia, ma non nel modo che la propaganda nazionalista volle narrare e cioè di una “vittoria mutilata”. Se è vero, infatti, che il Patto di Londra, sottoscritto tra l’Italia e la Triplice Intesa, veniva solo in parte rispettato nella conferenza di pace di Parigi, era pur vero che l’Italia acquisiva quasi tutti i territori irredenti. Il Presidente americano Wilson cercò di imporre un freno al tentativo di Francia e Inghilterra, ma soprattutto della prima, di distruggere economicamente e territorialmente la Germania, lavorò per far riconoscere il principio di “autodeterminazione dei popoli” e per la nullità di tutti i trattati internazionali “segreti”, qual era appunto il Patto di Londra e soprattutto si adoperò per la nascita della Società delle Nazioni. Principi di democrazia e diplomazia internazionale ritenuti validi oggi, ma che per le maggiori potenze europee del tempo dovevano essere inutili orpelli. Tralasciando in questa sede le conseguenze, non sempre altrettanto positive, di questa linea occorre ricordare quale impatto essa ebbe nella percezione comune, quale fu il comportamento dei rappresentanti del governo e l’incauto messaggio di Wilson alla popolazione italiana. Esempio da manuale di come da buone intenzioni si possano generare risultati nefasti. Come percezione e realtà divergano fino a non incontrarsi più prima che si compia l’evento traumatico, il bagno di sangue della Seconda guerra mondiale. Le scaturigini politico-diplomatiche di quel 1919 piovute su tessuti sociali tragicamente provati alimentarono a dismisura e indirizzarono il malcontento verso uno spirito di rivalsa e di contrapposizione. Per gli Austriaci e i Tedeschi gli Italiani erano dei traditori, per gli Italiani Francia e Inghilterra non avevano tenuto fede ai patti, i Francesi dovevano vendicare Sedan e umiliare a loro volta i Tedeschi mentre gli Inglesi sì preoccupavano di limitare l’ascesa economica e commerciale di qualsiasi potenza continentale. Wilson, per conto suo, era riuscito a scontentare tutti, perfino in patria, dove i Repubblicani riusciranno nell’intento di sabotare la partecipazione statunitense alla neonata Società delle Nazioni, ricacciando perentoriamente gli Usa nell’isolazionismo. Nell’Europa orientale addirittura la guerra continuava. Gli ex-alleati dell’Intesa ora combattono a fianco dei Bianchi contro l’Armata Rossa bolscevica in una guerra civile interna all’ex impero zarista. Il pericolo della Rivoluzione socialista spaventa governi e borghesie europee.
È facile, a distanza di un secolo, focalizzare quelle tendenze che giunte a compimento porteranno agli scenari storici successivi proprio perché siamo a conoscenza di ciò che è accaduto negli anni seguenti il ‘19. Si può senz’altro affermare che l’atteggiamento vendicativo nei confronti della Germania, l’umiliazione economica, si sono rivelati carburante per la propaganda nazionalsocialista, nonostante i lodevoli sforzi della Repubblica di Weimar. Allo stesso modo, seppure ingigantito dalla propaganda dannunziana e mussoliniana, il trattamento dell’Italia a Parigi contribuì alla crescita di sentimenti ostili verso gli alleati di guerra ed accrebbe quel mito-complesso della Patria offesa, condannata a subire i soprusi delle potenze plutocratiche e relativo senso di inferiorità. Non si vogliono negare i tentativi egemonici e lo sfruttamento di posizioni di vantaggio che sono le logiche ricorrenti dei rapporti fra gli stati, tuttavia abili narrazioni trovarono linfa in quel momento grazie a quella particolare congerie. Arguti, quanto inascoltati,  studiosi capirono per tempo che erano state gettate le basi di una futura catastrofe. Keynes su tutti. Erano gli anni in cui l’Europa non ascoltava quelle voci. Il 1919 fu questo calderone, un coacervo di pulsioni, egoismi, recriminazioni, vendette, rivalse dal quale uscirà poi il Fascismo, vi sono in nuce gli elementi della storia che catapulteranno le popolazioni europee verso la tragedia della Seconda guerra mondiale. L’ultimo grande evento della storia in cui l’Europa sarà centrale. Triste.
A distanza di un secolo esatto, il mondo è cambiato. Importanti mutamenti politici hanno ridisegnato la mappa geopolitica mondiale, ideologie diverse dal liberalismo e dal liberismo sono state soppiantate nell’illusione della realizzazione concreta di un presente senza più storia, alimentato dalla comunicazione globale che attualizza e induce a pensare ad una sorta di orizzontalismo paritario, dove ogni singolo si sente portatore di una nuova e definitiva sovranità. In un importante saggio del 2017, dal titolo “Populismo digitale”, il sociologo Alessandro Dal Lago esamina le dinamiche che hanno visto nascere ed affermarsi i nuovi movimenti politici che più hanno beneficiato delle nuove forme di comunicazione, specialmente internet e i social network connessi. Ne escono fuori aspetti problematici e controversi, che gettano potenti dubbi sulla credenza secondo la quale l’arena virtuale creata da queste nuove possibilità comunicative rappresenti una vera forma di democrazia diretta. Al di là delle tendenze manipolatorie cui si prestano tali mezzi da parte di consorterie più o meno interessate, è opportuno analizzare gli effetti che una comunicazione ad una dimensione, quella virtuale, induce negli individui. Infatti, nascondersi dietro internet, al riparo di uno schermo e armati di tastiera, produce atteggiamenti non comparabili con l’interazione reale, un po’ come coloro che al volante di un’auto si trasformano in altro da ciò che in contesti diversi sono, mutazione pirandelliana. Tale contesto comunicativo caratterizza sempre più le società del Terzo millennio, anche le meno opulente.
Dal punto di vista sociale, l’ultimo decennio ha visto prodursi una serie concatenata di effetti negativi derivanti dalla peggiore crisi economica del Secondo dopoguerra. Ad essi si associano le grandi trasformazioni tecnologiche, le occasioni di delocalizzazione per le imprese e l’aggressività dei Paesi emergenti. A farne le spese il vecchio continente più di tutti, l’Italia ha perso in termini di ricchezza reale diverse posizioni e sopporta il peso di un debito pubblico fra i più elevati del pianeta. Il processo di integrazione europea, dopo decenni di conquiste e di espansione, sembra essersi arrestato ed entrato in crisi, le politiche monetarie imposte dall’adesione all’euro vengono considerate, dai paesi in difficoltà, come perniciosi ostacoli all’esercizio della sovranità nazionale e gruppi politici nati sull’onda di simili proteste si sono ingrassati nel giro di pochi anni. Per concludere il quadro, non bisogna sottovalutare la presa di determinati modelli culturali consumistici irradiati dai centri del capitale planetario. Competizione, successo, denaro, carriera e arrivismo sono oramai parte del sistema valoriale di ognuno, senza che questo susciti più scandalo. La religione del denaro si afferma ormai anche nelle periferie del mondo occidentale. Tutto si può comprare, tutto ha un prezzo ed è fungibile. Per cui rottamare è sempre preferibile perché semplice, mentre la riflessione sul passato abortita. Si potrebbe dire che questo è lo Zeitgeist, lo spirito del tempo, l’immagine della società esplosa o baumanianamente detta liquida, i legami sempre più deboli illudono e abbindolano i singoli della loro fittizia libertà, non solo politica. La rete è il luogo paradigmatico di tale manifestazione.
Questo quadro, estremamente incerto e fluido può fare da terreno, in analogia col secolo scorso, ad avventure politiche autoritarie? Sta già accadendo? Gli storici non sono concordi nel leggere la realtà attuale. Se Luciano Canfora si dice preoccupato da quanto visto nell’ultimo decennio, ed in particolare dalla destra di Salvini, di diverso avviso è lo stesso Gentile che ascrive il leghismo populista salviniano ad una delle diverse e possibili  espressioni dei tradizionali movimenti di destra presenti in Europa. Altri notano che una vera deriva pseudodemocratica in realtà investe l’altra forza di governo il M5s.
Per meglio capire, occorre analizzare la particolare congiuntura che ha portato alla nascita ed all’affermarsi di queste forze nel contesto politico italiano. La Lega di Matteo Salvini è un partito classico, con una struttura ramificata nel territorio ma impiantata solo in una parte ben delineata del Paese, il Nord, con qualche propaggine al Centro; le ultime adesioni registrate anche nel Meridione sono perlopiù mero ceto politico itinerante in cerca di poltrone, altro è invece il diffuso consenso nei confronti del leader, di cui si dirà più avanti. Il Movimento 5 Stelle, di Casaleggio e Grillo, nasce invece tutto nell’antipolitica militante, per negazione dell’esistente; porta una struttura debole, basata su esperienze di comitati civici, di movimentismo variegato e multicolore alla quale si associa l’ombra digitale del sistema Rousseau e le piattaforme collegate dei blog del Movimento. Nonostante i tentativi di spacciare la partecipazione di qualche decina di migliaia di cittadini per democrazia diretta, in un paese che ha sessanta milioni di abitanti, l’organizzazione della macchina pentastellata induce a nutrire parecchi dubbi sulla trasparenza e verificabilità di determinate procedure di espressione e rilevazione del consenso. Per tacere del trattamento riservato alla dissidenza interna. Ma perché due forze così dissimili sono riuscite a guadagnare un grande consenso nelle ultime elezioni politiche? La risposta probabilmente non risiede tanto nella loro struttura organizzativa ma nel loro messaggio e nella modalità della sua diffusione. Lega e 5S vengono definite forze “populiste”, ed il populismo ha fatto la sua ultima ricomparsa in Italia già da oltre un decennio. Le sue istanze sono la cosiddetta “voce del popolo” senza mediazione alcuna, pura, anzi rozza; semplicistica e riduttiva nell’affrontare problematiche complesse, ignorante delle materie in cui pretende imporsi; illusa di poter contare oltre ogni competenza specifica. Dall’altra parte, ogni populismo ha i suoi burattinai, i quali devono prima d’ogni cosa far credere che esista un “popolo”, indistinto nella sua composizione sociale ed economica, che ha interessi comuni e non contrapposti al suo interno, il cui forte collante è il nemico. Un nemico che di volta in volta assume un nome diverso, la politica tradizionale, Mattarella, l’euro, l’Europa e i suoi burocrati, gli immigrati, la Francia e l’elenco potrebbe continuare, perché sempre in aggiornamento.
Di questa nuova forma della politica che è assieme nuova forma della comunicazione si è fatto portavoce, più e meglio di altri, Matteo Salvini. Oggi il suo nome sembra riscuotere il maggior consenso fra gli elettori italiani, anche al Sud. Non è un partito, ma un leader.
Molti hanno visto nell’affermazione di questo  leader una pericolosa deriva populista e hanno istituito, senza mezzi termini, dei paragoni con Mussolini e la nascita del Fascismo. È indubbio che sia il primo che il secondo sentono il loro tempo, fiutano come nessuno le debolezze e le tendenze delle masse, le manipolano abilmente e ne traggono beneficio. Tuttavia questo non basta per aspettarci la rifondazione di un regime totalitario. La nostra democrazia vive già una sua fase di trasformazione tanto da essere da alcuni ribattezzata democrazia recitativa o democratura, cioè vuota di reale partecipazione. Ciononostante, l’impalcatura costituzionale ed istituzionale che sorregge lo Stato è oggi incomparabilmente più solida, e rigida, di quanto non fosse nel 1919. Lo Statuto albertino era una carta concessa da un sovrano e larghe erano le sue maglie, la nostra Costituzione è invece il frutto più maturo di un momento storico-ideale che vide l’Italia rinascere dopo la procella fascista e la Guerra. Il patto tra le forze antifasciste di allora garantì la costruzione di un sistema istituzionale complesso, di un equilibrio non facile da scardinare con semplici maggioranze parlamentari.
È però inutile negare i continui attacchi al sistema.
Con modalità diverse, e probabilmente anche finalità diverse, già i governi Berlusconi e Renzi avevano provato ad alterare gli equilibri costituiti con le loro proposte di riforma costituzionale, a tutto vantaggio dell’esecutivo. L’attuale governo non pare in grado di formulare una proposta condivisa di riforma, troppo distanti sono le posizioni al suo interno anche solo riguardo l’ordinaria amministrazione. Il pericolo, meno visibile, risiede invece nella tendenza, soprattutto del leader della Lega, ad evocare una sorta di perenne stato d’eccezione, caratterizzato da una narrazione farcita di minacce incombenti e conseguenti soluzioni sbrigative generalmente irrispettose di norme, convenzioni, leggi e consuetudini ma volute dalla maggioranza da lui incarnata e perciò sacre.
Taluni caratteri, riproponentisi mutatis mutandis, in diversi fasi storiche hanno portato Umberto Eco a teorizzare, nel 1995, l’esistenza dell’Ur-fascismo, il fascismo perenne sempre in agguato, perché visione del mondo che precede la forma storica. Analogamente Theodor Adorno aveva pensato alla personalità autoritaria, un profilo psicologico base, tipico portatore della mentalità fascista.
Queste considerazioni hanno certamente fondamento filosofico e psicologico, possono valere in larga misura anche oggi. Rimane da capire quale potrebbe essere o è già l’attuale forma storica di questa tendenza. Coincide con l’operato di governo e col messaggio mediatico del ministro Salvini o risiede nella discutibile elaborazione delle opinioni e la mancanza di trasparenza interna nei meccanismi decisionali dei 5Stelle o in entrambi? Oppure nessuno dei due.
Oltre il patto di potere che regola i rapporti fra le due attuali forze di governo è ormai evidente come profonde siano le divergenze in ogni campo ed un semplice contratto non potrà reggere a lungo. I provvedimenti economici orientati finora prevalentemente dalle promesse elettorali del Movimento di Di Maio avranno sicuramente un certo impatto sulla sua tenuta politica, purtroppo analogo ma di segno opposto potrebbe essere l’impatto sui conti pubblici, e si sa il redde rationem di ogni esperienza di governo rimane l’efficacia delle misure intraprese in campo economico.

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