domenica 18 marzo 2018

Moralia 8. La vita iniziale





“godere un solo minuto di vita iniziale”
Ungaretti “Girovago”

 di Enzo Barone

Mi capita, sempre più spesso, di percepire il correre del tempo (o il nostro fluire verso lui immoto, che è lo stesso in fondo) come un vertiginoso procedere verso un progressivo inarrestabile dissesto, verso la rovina, verso il guasto di molte relazioni. Soprattutto quelle di lungo corso, basate su una frequenza durevole, quotidiana. Succede con i colleghi di lavoro, con alcuni amici, con i parenti, con i partner soprattutto.

Non succede sempre e non in tutti i casi, sia chiaro. Molti rapporti si alimentano del tempo come un incendio dei rami secchi: si esaltano nell'inossidabilità del legame. I legami di amicizia vera ad esempio spesso si fortificano negli anni, forse anche perché non esigono la durevolezza del convivere.
Ma tornando ai legami di convivenza, ultimamente ho quasi l’impressione che quelli durevoli siano ormai fenomeni quasi innaturali, una sintomatologia molto sporadica, delle manifestazioni difficilmente rintracciabili in natura, come i diavoli della Tasmania o come le tigri albine.
In verità, al netto di dissidi e strappi più o meno gravi, il frequentare qualcuno per tanto tempo, quotidianamente, la prossimità continua e inevitabile tra le persone tante volte, troppe, porta semplicemente ad una perdita di carica elettrica, ad un decadimento atomico dell’energia, ad una entropia degli affetti. E quindi alla naturale conseguenza della dissoluzione del rapporto; tante volte non c’è uno strappo, non accade nulla di particolarmente esiziale. Semplicemente quella ricchezza, quel fascino che c’era nei primi anni o mesi di conoscenza, vanno ad esaurirsi; il gusto di limone è stato succhiato via dal ghiacciolo, e adesso non rimane che l’amaro del ghiaccio senza sapore, lo stecco di legno, e basta. Tante volte in questo tipo di relazioni il tempo somiglia tanto ad una bella camicia di cotone: dopo alcuni anni inevitabilmente lo sfavillio smagliante della stoffa sparisce ed al suo posto emergono piano piano le trame del tessuto liso, la verità, il logorio della sua pura sostanza di cui essa è costituita al posto della texture fiammante.
Il non avere più nulla da dire, la difficoltà a sorprendere e a sorprendersi, magari il semplice fastidio dell’altro sempre attorno. Mera struttura in luogo della poesia, direbbe Benedetto Croce.
Questo è il momento in cui si è sopraffatti da una somma nostalgia, quella della fase aurorale della relazione, quando l’iniziale empatia, l’incantesimo del non conoscersi quasi per nulla ci inebria; quando assaporiamo il gusto inesprimibile (e per ciò stesso sublime) del mistero di uno spirito che promette, ma ancora non si rivela pienamente. I tesori indicibili che potrebbe offrirci si nutrono di sapienti silenzi, della luce di poche, nude parole, di sguardi indecifrabili: i gesti, le parole, gli istinti, i moti d’animo sono la foresta baudelariana fitta di simboli nella quale cercare una via, un senso. A me e a molti altri, per esempio non affascina certo far la conoscenza di persone che mi seppelliscono sin da principio con un pleonastico diluvio verbale. Persone che spasimano dalla voglia matta di dir subito tutto di sé, di mostrarsi immediatamente per quello che sono, ignorando che nel momento stesso in cui ritengono di mostrarsi rivelano di sé solo il simulacro vuoto delle loro vuote parole.
Il troppo noto, la piena rivelazione e troppo precoce di ogni cosa: questo mi atterrisce.
Con una donna con cui percorrere un lungo tratto della propria vita possiamo sin da principio, trovare una qualche magica sintonia, coltivare la speranza di poterci fidare, la sua frequentazione può essere persino legata al semplice fatto che ci rassicuri, non ci crei problemi, ma per quello che mi riguarda (e non sono il solo) non ha nessun fascino la conoscenza di qualcuno del quale avrei la sensazione di avere capito perfettamente tutto.
Questo in fondo vale anche per tutte le opere d’arte, per la pittura e la scultura, per la poesia, per il cinema.
E d'altronde nell’esperienza la conoscenza non è mai completa; non ci soddisfa mai totalmente, perché essa è sempre un punto di partenza, non un arrivo.

Invidio tante volte l’english way of life, - nella fenomenologia mitologica che noi italiani ci siamo costruiti almeno - quell’ironico, distaccato, dosatissimo modo di centellinare affetti, emozioni, partecipazione ai sentimenti; quell’arte dell’elusione studiata, del declinare elegantemente le aggressioni emotive, quel non chiedere mai troppo, insomma quell’assoluta difesa della linea di confine della propria dimensione personale più intima. Benché lo stile sia impraticabile pienamente da noi mediterranei forse qualcosa da loro bisognerebbe imparare.
E si perché la troppa familiarità e prossimità con qualcuno può generare non solo noia, ma anche conflittualità, intolleranze.
Ecco forse occorrerebbe contemperare sensibilità a distacco; passione e rispetto dei limiti: dosare addirittura l’erogazione del sentimento – l’erogazione non l’intensità! - come si fa con i farmaci, in dosi variabili e omeopatiche a seconda dell’occorrenza. Mi accorgo di sembrare gretto e stupidamente cinico: correrò il rischio.
Bisognerebbe non chiedere, non saper, non cercare mai troppo dalla donna, dall’uomo che ci sta accanto per tanto tempo; conservare di quella persona uno spazio, un territorio inesplorato e inaccessibile anche, soprattutto per noi, rinunciando a priori al principio dell’appartenenza reciproca assoluta, giocata nella dimensione dell’indagine esaustiva dell’universo dell’altro. Anche perché l’eccessiva conoscenza comporta quasi sempre l’assunzione di una confidenza che spesso si fa liceità, diritto automatico nelle liti all’infrazione sistematica di ogni limite – estremo invalicabile della dimensione assoluta e individuale della persona - che il rispetto sacro dell’altro, anche del partner, impone.
La conoscenza è molto pericolosa: in fondo forse è questo che voleva dirci il Padreterno quando proibì ad Adamo ed Eva di mangiare il frutto proibito. Immagino l’Eden come un meraviglioso e perenne giardino dell’oblio, della dissennata ignoranza, dello smarrimento gioioso di sé, del beato godimento di ogni cosa, proprio perché eternamente primigenia perché ogni cosa non è guardata per essere conosciuta ma appunto goduta. Ecco il puro godimento sensuale, ma anche spirituale è abbandono alla suprema incoscienza. Forse è nel destino dell’umana semente, ma la sete di conoscenza a lungo andare dà l’infelicità. O perché genera sete di altra conoscenza, essendo quella umana per definizione perennemente insoddisfacente o, all’opposto, perché nella presunzione di aver troppo conosciuto ad un certo punto ci sentiamo inariditi, depauperati di quell’antico, fatale vizio del vivere.

C’è un sistema poi, quello di un mio carissimo amico, adesso volato via da qualche parte, quello di restare con la propria donna per tutta la vita un eterno fidanzato, condividendo con lei anche per molti giorni tutti i momenti significativi della vita degli innamorati, ma tornando a casa propria però ogni qual volta ne sentisse l’esigenza, così senza ragioni, anche senza aver litigato prima, a vivere la propria vita di essere individuale, tutelandola così dall’invadenza inevitabilmente debordante dell’amatissimo compagno. Ci ha vissuto felice per tanti anni con la compagna, senza l’ombra insidiosa della consuetudine a intorbidare la luce del suo fidanzamento senza fine.

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