“godere un solo minuto di vita
iniziale”
Ungaretti “Girovago”
Mi capita, sempre più spesso, di percepire il correre del
tempo (o il nostro fluire verso lui immoto, che è lo stesso in fondo) come un
vertiginoso procedere verso un progressivo inarrestabile dissesto, verso la
rovina, verso il guasto di molte relazioni. Soprattutto quelle di lungo corso,
basate su una frequenza durevole, quotidiana. Succede con i colleghi di lavoro,
con alcuni amici, con i parenti, con i partner soprattutto.
Non
succede sempre e non in tutti i casi, sia chiaro. Molti rapporti si alimentano
del tempo come un incendio dei rami secchi: si esaltano nell'inossidabilità del
legame. I legami di amicizia vera ad esempio spesso si fortificano negli anni,
forse anche perché non esigono la durevolezza del convivere.
Ma
tornando ai legami di convivenza, ultimamente ho quasi l’impressione che quelli
durevoli siano ormai fenomeni quasi innaturali, una sintomatologia molto
sporadica, delle manifestazioni difficilmente rintracciabili in natura, come i
diavoli della Tasmania o come le tigri albine.
In
verità, al netto di dissidi e strappi più o meno gravi, il frequentare qualcuno
per tanto tempo, quotidianamente, la prossimità continua e inevitabile tra le
persone tante volte, troppe, porta semplicemente ad una perdita di carica
elettrica, ad un decadimento atomico dell’energia, ad una entropia degli
affetti. E quindi alla naturale conseguenza della dissoluzione del rapporto;
tante volte non c’è uno strappo, non accade nulla di particolarmente esiziale.
Semplicemente quella ricchezza, quel fascino che c’era nei primi anni o mesi di
conoscenza, vanno ad esaurirsi; il gusto di limone è stato succhiato via dal
ghiacciolo, e adesso non rimane che l’amaro del ghiaccio senza sapore, lo
stecco di legno, e basta. Tante volte in questo tipo di relazioni il tempo somiglia
tanto ad una bella camicia di cotone: dopo alcuni anni inevitabilmente lo
sfavillio smagliante della stoffa sparisce ed al suo posto emergono piano piano
le trame del tessuto liso, la verità, il logorio della sua pura sostanza di cui
essa è costituita al posto della texture fiammante.
Il
non avere più nulla da dire, la difficoltà a sorprendere e a sorprendersi, magari
il semplice fastidio dell’altro sempre attorno. Mera struttura in luogo della
poesia, direbbe Benedetto Croce.
Questo
è il momento in cui si è sopraffatti da una somma nostalgia, quella della fase
aurorale della relazione, quando l’iniziale empatia, l’incantesimo del non conoscersi
quasi per nulla ci inebria; quando assaporiamo il gusto inesprimibile (e per
ciò stesso sublime) del mistero di uno spirito che promette, ma ancora non si
rivela pienamente. I tesori indicibili che potrebbe offrirci si nutrono di
sapienti silenzi, della luce di poche, nude parole, di sguardi indecifrabili: i
gesti, le parole, gli istinti, i moti d’animo sono la foresta baudelariana fitta
di simboli nella quale cercare una via, un senso. A me e a molti altri, per
esempio non affascina certo far la conoscenza di persone che mi seppelliscono
sin da principio con un pleonastico diluvio verbale. Persone che spasimano
dalla voglia matta di dir subito tutto di sé, di mostrarsi immediatamente per
quello che sono, ignorando che nel momento stesso in cui ritengono di mostrarsi
rivelano di sé solo il simulacro vuoto delle loro vuote parole.
Il
troppo noto, la piena rivelazione e troppo precoce di ogni cosa: questo mi atterrisce.
Con
una donna con cui percorrere un lungo tratto della propria vita possiamo sin da
principio, trovare una qualche magica sintonia, coltivare la speranza di
poterci fidare, la sua frequentazione può essere persino legata al semplice
fatto che ci rassicuri, non ci crei problemi, ma per quello che mi riguarda (e
non sono il solo) non ha nessun fascino la conoscenza di qualcuno del quale avrei
la sensazione di avere capito perfettamente tutto.
Questo
in fondo vale anche per tutte le opere d’arte, per la pittura e la scultura,
per la poesia, per il cinema.
E
d'altronde nell’esperienza la conoscenza non è mai completa; non ci soddisfa
mai totalmente, perché essa è sempre un punto di partenza, non un arrivo.
Invidio
tante volte l’english way of life, -
nella fenomenologia mitologica che noi italiani ci siamo costruiti almeno - quell’ironico,
distaccato, dosatissimo modo di centellinare affetti, emozioni, partecipazione
ai sentimenti; quell’arte dell’elusione studiata, del declinare elegantemente
le aggressioni emotive, quel non chiedere mai troppo, insomma quell’assoluta
difesa della linea di confine della propria dimensione personale più intima.
Benché lo stile sia impraticabile pienamente da noi mediterranei forse qualcosa
da loro bisognerebbe imparare.
E
si perché la troppa familiarità e prossimità con qualcuno può generare non solo
noia, ma anche conflittualità, intolleranze.
Ecco
forse occorrerebbe contemperare sensibilità a distacco; passione e rispetto dei
limiti: dosare addirittura l’erogazione del sentimento – l’erogazione non
l’intensità! - come si fa con i farmaci, in dosi variabili e omeopatiche a
seconda dell’occorrenza. Mi accorgo di sembrare gretto e stupidamente cinico:
correrò il rischio.
Bisognerebbe
non chiedere, non saper, non cercare mai troppo dalla donna, dall’uomo che ci
sta accanto per tanto tempo; conservare di quella persona uno spazio, un
territorio inesplorato e inaccessibile anche, soprattutto per noi, rinunciando
a priori al principio dell’appartenenza reciproca assoluta, giocata nella dimensione
dell’indagine esaustiva dell’universo dell’altro. Anche perché l’eccessiva
conoscenza comporta quasi sempre l’assunzione di una confidenza che spesso si
fa liceità, diritto automatico nelle liti all’infrazione sistematica di ogni
limite – estremo invalicabile della dimensione assoluta e individuale della
persona - che il rispetto sacro dell’altro, anche del partner, impone.
La
conoscenza è molto pericolosa: in fondo forse è questo che voleva dirci il
Padreterno quando proibì ad Adamo ed Eva di mangiare il frutto proibito.
Immagino l’Eden come un meraviglioso e perenne giardino dell’oblio, della
dissennata ignoranza, dello smarrimento gioioso di sé, del beato godimento di
ogni cosa, proprio perché eternamente primigenia perché ogni cosa non è guardata
per essere conosciuta ma appunto goduta. Ecco il puro godimento sensuale, ma
anche spirituale è abbandono alla suprema incoscienza. Forse è nel destino
dell’umana semente, ma la sete di conoscenza a lungo andare dà l’infelicità. O
perché genera sete di altra conoscenza, essendo quella umana per definizione
perennemente insoddisfacente o, all’opposto, perché nella presunzione di aver
troppo conosciuto ad un certo punto ci sentiamo inariditi, depauperati di
quell’antico, fatale vizio del vivere.
C’è
un sistema poi, quello di un mio carissimo amico, adesso volato via da qualche
parte, quello di restare con la propria donna per tutta la vita un eterno
fidanzato, condividendo con lei anche per molti giorni tutti i momenti
significativi della vita degli innamorati, ma tornando a casa propria però ogni
qual volta ne sentisse l’esigenza, così senza ragioni, anche senza aver
litigato prima, a vivere la propria vita di essere individuale, tutelandola
così dall’invadenza inevitabilmente debordante dell’amatissimo compagno. Ci ha
vissuto felice per tanti anni con la compagna, senza l’ombra insidiosa della
consuetudine a intorbidare la luce del suo fidanzamento senza fine.
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