giovedì 5 gennaio 2017

Uomini e conigli




di Enzo Barone

“Vuoi sapere come e perché? Cosa mi trovo a fare? Se me ne rendo conto? La verità, la vuoi sapere? la verità è che non lo so bene cosa, quando e perché.  Neppure adesso, non credere, non ho capito come ci sono finito dentro a ‘sta situazione. Ma le cose della vita, si sa, capitano e basta. Il resto son ciacole da serve.
Però se vuoi adesso ti dico tutto, cominciando da principio, anche se un principio, logico intendo, in questa storia non so se esiste.
Un anno, due fa, non mi ricordo bene, ero un vecchio mona come tanti. Trottavo tranquillo verso la pensione. Pensavo di stare per finire coi turni e le rotture di balle del magazzino. Navigavo verso una vita senza troppi beccheggi o sbattimenti eccessivi. Da due anni avevo anche smesso de mbriagarme e di cioccolatine di via Vespucci non ne assaggiavo più da un pezzo. La fijola piccola era là per maritarsi ed io in fine mi credevo di aver acquistato un pò di pace in questo mondo. E cosa vai a pensare che possa ancora capitare dopo un divorzio, due alluvioni e un coma etilico? ma ecco che il motore della vita da un gran strattone e s’intoppa di colpo; si ,mona d’un bifolco, te capita tutto assieme, senza preavviso. Così alle nove e mezza di una sera di un gran nebbione, mentre che sei davanti alla tv a guardare il calcio e aspetti moglie e figlia, andate a Mira per comprare l’abito bianco, tiri su il telefono dopo sei squilli, il bastardo, e qualcuno senza troppi preamboli ti dice che le mie congiunte son state prese dentro da un camion nel mentre che passavano la strada e ora sono entrambe su un tavolo di un obitorio.
Come fai ora mona de un Tomaso? Come si fa adesso? E’ troppo. Non ce la faccio. Vorrei fuggire da qualche parte o affogare dentro al merlot, stavolta fino a creparci sul serio? Il riconoscimento, il funerale, la messa, le visite, le pratiche: tutto in un soffio e mi pare di essere in un incubo. Non capisco più niente. Ma faccio tutto. Così, per inerzia allucinata.
Poi, quando piano piano mi torna tutto chiaro e capisco ciò che mi è capitato e sembra che non mi resti nient’altro fuorché la disperazione, mi capita ancora quello che non mi aspetto. Una sera, due giorni dopo il funerale, io sto al balcone a guardare la piazza con il sigaro in bocca e il Pernaud sul tavolino, pensando appunto cosa ancora sto a fare su ‘sta maledetta terra, solo col mio sprofondare.
Sento qualcuno che mi chiama giù da basso. E’ il Mino Buriel che si sbraccia e grida. Vuole salire a tutti i costi. Ha con se una gabbietta con qualcosa dentro. Mino, l’amico delle grandi sbronze, l’ultimo che mi è restato forse. Si ficca dentro senza tante cerimonie, come la buriana del maestrale. Nella gabbietta ci sono due conigli: uno bianco e uno caffelatte, maschio e femmina.
- Prendili, Giona, tonto d’un vecio, ti riempiranno la vita, più di quanto puoi credere.
Non gli ho detto niente. L’ho abbracciato e gli ho pianto anche sul collo per dieci minuti buoni. Fino a quel momento mi ero tenuto tutto dentro da quel giorno bastardo. Poi li ho presi e lui è sparito così com’era arrivato.

Di compagnia me ne fecero, non ghe ne dubbio: prima li tenevo sul poggiolo, ma infastidivano i vicini. Zigavano molto e si mangiavano le imposte dei serramenti. Allora decisi di lasciarli in cucina, sotto il lavello. Dapprincipio erano paurosi e ritrosi, ma presero presto confidenza. Presero a camminarmi sopra i piedi mentre stavo in poltrona, mi seguivano quando andavo in gabinetto, si accovacciavano ai miei piedi quando ero a letto e poi dopo due settimane il maschio aveva preso l’abitudine di salirmi con le zampette davanti su per la mia gamba, zigando per chiedermi di essere portato su sul tavolo per mangiare le insalate o il mais del mio piatto. Dopo l’incidente avevo chiesto due mesi di malattia per ritornare in me e riposare, ma in realtà non mi riusciva né l’una né l’altra cosa. Uscivo verso le nove del mattino, mi ficcavo in bocca una sigaretta e facevo un giro bello lungo a piedi per Mestre che poi finiva in genere in laguna. A volte camminavo per un pezzo nell’acquitrino, inzaccherato fino al polpaccio. Strappavo una canna e quando trovavo le cime dal cilindro bruno delle mazze sorde le colpivo con tutta la forza con la canna, facendole volare. Non ne lasciavo una dritta. Oppure andavo a piedi fino al Marco Polo sempre fumando, per guardare gli aerei, quanti che partivano e quanti che arrivavano in un certo orario, di quali compagnie, con quale la forma, se andavano a sud, a sud-est, a sud ovest o verso le Alpi magari.
Non c’avevo orari: tornavo quando attaccavo a tossire e non smettevo più. Trovavo, ostia! la casetta testa all’aria, le gambe dei tavoli mangiati, le riviste morsicate, le stanze tutte piene delle olivette nere delle bestie. Ah ah ah…sacramento, che spasso quelle bestiole! Era solo per quello che tornavo a casa, per dare loro le bietoline, le carote, le erbette da campo, carezzare la femmina, a volte.
Poi dopo un mesetto ecco la prima sfornata: dentro sul sofà del tinello trovo sei cosette rosacee appena partorite. Devo esser sincero da prima ho pensato subito: ma puttana d’una Eva, giusto sul mio sofà dovevate venire a nascere? Perché devi da sapere che oramai dormivo solo là, che non avevo cuore di tornare nel letto matrimoniale.
Poi però li ho guardati bene, sono sceso giù e sono andato a prendergli dal negozio di animali dietro l’angolo della biada. Ho pulito i cuccioli, ho preparato un letto di biada e li ho messi lì con la madre. Sono stato tutta notte a guardare quelle robette, tutte spelacchiate, e con gli occhietti chiusi, accoccolati e poppare il latte dalla mamma.
Mi sono detto: ecco un pochetto di vita che ritorna in casa, mondo porco, forse questo rottame de vecio c’e ancora per qualcosa. Io posso anche stendermi sulla poltrona, non è mica un dramma! Uno dei piccoletti tra l’altro non l’era mica tanto sano: respirava a fatica e non si attaccava bene al capezzolo. Era una pena, povero!
Il mattino dopo - avrò dormito si e no due ore – esco di nuovo per i miei giri, gli amici del Bar Moro, la piazza, la darsena, la laguna. Stavolta però ho il pensiero a tornare ad un ora precisa.
Devo anche passare dal fruttivendolo per farmi dare qualche carota fresca, uno, due finoci. Che la madre mangi decentemente, mi dico. Poi il pomeriggio e la notte la passo col coniglietto mezzo malato. Me lo metto sulla pancia coperto con la lana e ogni due ore gli do il latte con un biberon piccoletto – quello che trovo tra i giochi di Floriana piccola. –
Io di animali non ne ho mai avuti; avevo sempre pensato che non era roba per me. Mi era capitato di ricevere quei primi due e non avevo saputo dire di no. A quel punto però ci ero dentro, volendo o no, mi sentivo obbligato a prendermene cura, a portarli avanti.

Dopo, i giorni a venire fu tutta una conseguenza, un susseguirsi di vita che proliferava, cresceva, si moltiplicava. Come dice il Vangelo? “ Crescete e moltiplicatevi”. Mi sa che i conici il catechismo lo prendevano sul serio, più dei cristiani.
Ci fu la seconda sfornata di coniglietti dopo un altro mesetto, dopo seguirono la terza, la quarta, ormai al ritmo di ogni tre, due settimane. Dopo un pò avevo anche un parto a settimana. Qualcuno nasceva morto, qualcun altro faceva fatica a poppare; qualche madre ci restava secca, qualcun’altra faceva a morsi con un'altra che le prendeva lo spazio. I maschi invece in genere stavano sulle loro, apatici, pigri, con gli occhietti mezzi chiusi; a volte marcavano dei punti della casa con le feci o l’urina; a volte lottavano furiosamente tra loro per una femmina. Varda Giona, la vita è forte, molto forte, mi dicevo. Te vedi ‘ste bestiole: si affannano, sfamano i piccoli, lottano, s’ammazzano! Io che non sarei mai riuscito a capire perché ne avanzava ancora della mia, vivevo prendendo da loro tutta questa vita che cresceva e si moltiplicava attorno. Me ne sfamavo, ne prendevo quanta più ne potevo, la succhiavo come un parassita. 
C’era sempre qualcosa da fare: portare da mangiare, nettare per terra, curare i cuccioli deboli, separare le bestie in certe zuffe. Uscivo sempre meno. Mangiavo poco e di fumare mi era passata la voglia: preferivo comprare la biada o portarli dal veterinario, se serviva. Bere, dico la verità, si un pochetto dai! per chiudermi lo stomaco se avevo fame.

Un giorno, poi, mi ha suonato uno. Era incazzato nero. Dice che è dell’Asl; dice perché non ho risposto al telefono, perché poi non ho aperto a nessuno di quelli che sono venuti prima; dice che io rischio grosso, di brutto. Non faccio neanche in tempo a rispondere che il telefonino lo avevo lanciato nella laguna la settimana dell’incidente e il cavo del telefono di casa se lo erano mangiato i conigli e che tante volte la mattina sono fuori. Ma poi quando se ne va, guardo il calendario della cucina e vedo che il cerchietto rosso del giorno del ritorno al lavoro: è rimasto nel foglio del mese prima. Mi è proprio passato di mente di tornare a lavorare. Dopo la visita di quel matto non ho cercato più nessuno e nessuno mi ha cercato.
Quel macaco di Montagnoli mi avrà cacciato senz’altro. Non sono più andato, ma dev’essere così perché l’ultima volta che sono passato dalla banca Zandomenego, il cassiere, da lontano mi ha fatto cenno di andare via che per me non c’era nulla.
Qualcosa però ho ancora da parte, e poi c’è l’orticello appena fuori dal centro per gli ortaggi.
Io dico la verità: a quel punto non sapevo neanche in che mese mi ero, da quanto che facevo quella vita. Dopo tre mesi o forse più, ti dico, mi sono perso, ci sono cascato dentro fino al collo. Mi sentivo portato via come dalla corrente di una piena, dove l’unica soluzione logica era lasciarsi andare e stare a vedere. Ora ci sono conigli nella camera, sul letto, nella cucina e nel tinello, nel bagno e nel ripostiglio. Salgono sui piedi, sul tavolo, si rincorrono sul letto, giocano dentro la dispensa e sul water. Vivono sul comò, dentro agli armadi e alla doccia, negli stipetti e dentro le pentole, hanno fatto le tane in mezzo ai libri e nelle scatole di scarpe e quelle le hanno trasformate in coriandoli di cuoio. Gli abiti, i piumoni, le camicie se le sono mangiate tutte. No, il puzzo delle cacche e dell’urina è l’ultimo dei problemi: non lo sento neanche, credimi.
Cammino per casa per andare di là o di qua, stando sempre attento per evitare di pestare conigli: sono tutti per i piedi. La camera, il letto se lo sonno presi da un pezzo, tanto quel poco di sonno lo faccio da mesi seduto su di una sedia della cucina con le gambe distese sull'altra e va così.
Se mangio un poco vado in balcone, di nascosto, si, pure se piove, che sono gelosi se mi vedono prendere qualche bietola, verzetta o radicchietto e diventano cattivi. A me basta poco. Il denaro che mi resta va ormai quasi tutto per loro, per le mie bestie.
Di gente no, non ne viene mai. Tu sei stato il primo quest’anno. Non che mi cerchino in tanti, ma mia figlia di Torino o Fedriga che veniva per la dama li faccio aspettare fuori e li porto per piazza Ferretto, in un caffè magari.
Pensi all’igiene, alla pulizia? Vuoi sapere se netto per terra con l’acqua o do la straccia in bagno? Ma ti se matto? La casa è loro ormai. Zigano, corrono, saltano, mangiano, cagano e pisciano, dormono e fottono, in continuazione, tutti i minuti. Ah ah ah…sono solo un ospite in casa mia. E che dovrei fare? Lo sai tu? Io non so. Cacciarli tutti? Abbandonarli? Le bestie ormai son qua. Non posso far altro, non ho le forze, non posso.
Io ci vivo in mezzo, voglio solo un po’ di spazio, per vivere, da animale pur'io. E’ mostruoso? Ma cosa ne sai tu? Io in ‘sta maniera, combattendo coi denti per farmi spazio in mezzo a loro, per mangiare, dormire, sopravvivere, vivo la vita selvatica delle bestie e va in mona il dolore e tutte 'ste rogne de noi umani!
Ti pare folle? Tu dici che non potevo andare più avanti in questo modo? 
E casa mia non la potrei mai lasciare. E no, eh!
Ma è anche loro, dei conigli. L’hanno presa, fatta propria a con tutti i loro diritti. Cosa vuoi che faccia allora, dimmelo tu che sei un genio? Do fuoco all’appartamento?
Esattamente quel che ho fatto appena adesso, mio buon pompiere che mi hai ascoltato pietosamente e adesso mi guardi senza più parole.”

 
Carini gennaio 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 commento:

  1. Una tensione fra la spinta alla vita e ed il vortice verso l'auto-annientamento, con finale a sorpresa.

    RispondiElimina

Questo blog consente a chiunque di lasciare commenti. Si invitano però gli autori a lasciare commenti firmati.
Grazie