sabato 20 febbraio 2016

È questo l’Islam che fa paura (T. Ben Jelloun)



 
 
Recensione di Francesca Saieva
In È questo l'Islam che fa paura (Bompiani, 2015) T.Ben Jelloun, noto scrittore-giornalista maghrebino, affronta con lucida obiettività una questione alquanto spinosa e controversa, l'islam e la sua identità, offrendo un'accurata riflessione sui 'limiti' dell'islamismo che, come egli scrive, si pone come "una deriva dell'islam nel senso di una deviazione, un allontanamento".

Un testo fluido e piano nella scrittura, tanto da consigliarne la lettura a un pubblico adulto e giovane, strutturato in due parti. Nella prima, più fruibile, l’autore, sulla scia di scritti precedenti  (Il razzismo spiegato a mia figlia e Non capisco il mondo arabo), con la chiarezza e la semplicità richiesta a un genitore nel trattare  un tema così delicato, rispondendo alle domande della figlia, effettua una disamina sull'Islam, sulle sue implicanze e conseguenze fondamentaliste nonché sui fraintendimenti derivati da una lettura univoca del Corano. La seconda parte, un’appendice corposa in cui lo scrittore raccoglie parte di articoli pubblicati tra il 2012 e il 2015 che ripercorrono circa un ventennio della storia araba e dei coinvolgimenti internazionali, con gli Usa di Bush e di Obama e con la Russia di Putin.
È questo l'islam che fa paura è  certamente una analisi sul colonialismo e sulle politiche imperialiste, sulle conseguenze delle primavere arabe e sullo Stato islamico odierno, dall'acronimo ISIS, ma v’è anche dell'altro. Mi riferisco a una riflessione sul concetto di civiltà e di identità, che si fa nelle parole di Ben Jelloun itinerante, perché aperto al dialogo e alla conoscenza, al fine di un'obiettiva critica sulle responsabilità dell'Oriente come pure dell'Occidente. "Non si può lottare contro l'islamofobia - asserisce l'autore - se non lottando  contro l’ignoranza da entrambe le parti. Non c'è uno scontro di civiltà, c'è solo uno scontro di ignoranze, e questo scontro è terribile perché genera infelicità, guerre e razzismo."
Mi concedo, a questo punto, una digressione.
Parlare di identità, sul piano storico, non è mai stato facile, soprattutto se tale concetto non viene circoscritto all'idea di uno Stato-nazione, ma si relaziona a quello di uno Stato di diritto. Perché, se nel primo caso, l'identità potrebbe sempre appellarsi alla memoria storica e alla necessità di un senso di appartenenza, sempre contestualizzato, nel secondo caso, l'identità implicherebbe democrazia, libertà, individualità e laicità, di matrice sicuramente apolide. Concetti, questi ultimi, noti (almeno formalmente) in Occidente, ma culturalmente estranei al mondo arabo. "Si dimentica che il mondo arabo - scrive il nostro - è diverso e poco simile al resto, e mostra ovunque un punto comune, il non riconoscimento dell'individuo. La rivoluzione sarà completa quando permetterà che l'individuo, entità unica e singolare, emerga. È quello che è riuscita a fare la rivoluzione francese".
D'altro canto, credo che all'occidentale la questione sulla sua identità storica non sia mai sembrata del tutto spinosa, perché, passando per la riforma protestante, le scoperte geografiche e la rivoluzione copernicana, l'idea di homo faber si era smisuratamente consolidata a modello antropocentrico e, proprio mentre quest'uomo pensava a liberarsi dall'oscurantismo medioevale, erigeva un nuovo pilastro imperiale: l'identità dell'Occidente. Un pilastro sprezzante, a volte, anche nei confronti di un "islam sano" che comunque ha pur sempre avuto delle difficoltà a rapportarsi con la democrazia e la laicità. Scrive Ben Jelloun "il musulmano in generale non accetta il sistema della laicità. Perché l'Islam per lui è tutto: una religione, una morale, una visione del mondo, una pratica quotidiana... Il credente non può immaginare un paese musulmano che separi la Moschea dallo Stato. Non è impossibile, ma al di là della Turchia, nessuno stato islamico ha osato spingersi verso la laicità". Parole dure e sofferte perché provengono da profonde radici arabe, così come piene di speranza quelle rivolte al Marocco "paese emergente" nella sua apertura all'Occidente e all'Africa, alla nuova costituzione tunisina pro l’uguaglianza uomo-donna, la libertà di coscienza e il divieto alla tortura fisica. Piccole gocce nel mare, dal momento che "l'uguaglianza dei diritti fra l'uomo e la donna è esattamente ciò che gli islamisti non possono accettare. Perché quello che l'utilizzazione della religione in politica nasconde, é la paura della donna". Secondo gli integralisti, infatti, "la liberalizzazione dei costumi avrebbe provocato la destrutturazione della cellula familiare".
Un libro di lotta e di resistenza, così è stato definito. Libro di grande respiro che fa cultura e informazione attraverso il pensiero arguto e riflessivo, partecipativo e a un tempo distaccato dell'autore in questo viaggio nell'islam, in cui la jihad coranica si scontra con la jihad guerriera, quella "senza volto contro la laicità, contro la tradizione della satira, dello humor, della derisione, della critica acerba e feconda". Un islam straziato da insanabili incomprensioni tra sciiti e sunniti e ancorato al wahabismo (esercizio della sharia, in nome di un islam rigoroso che non ammette dialogo). Un excursus sui flussi migratori e sull''ambiguità' francese, in termini di accoglienza. Un libro-denuncia, quindi, nei confronti di Boko Haram e del suo movimento criminale, della brutalità, ma anche dell'identità culturale di Bashar Al-Assad, dei complotti occidentali, di "pesi e misure differenti" nel trattare la questione israelo-palestinese, del ruolo strategico della Siria nei rapporti tra Usa e Russia e delle ingerenze dell'Arabia Saudita; testo-denuncia, ancora, di una jihad europea e delle sue cause. E tanti sono gli interrogativi che restano, come quello di "capire chi finanzia, chi arma questo Stato sanguinario". Questione che rimane aperta, come si addice a chi è disponibile al dialogo e cerca di non perdere lucidità di fronte a "ignoranza e mediocrità".
Toccanti le parole di Ben Jelloun nell'articolo (che fa da chiusa al testo) "la poesia come orizzonte", soglia che separa e ricongiunge quel "noi " fatto di "molti popoli e molte culture". Un noi, purtroppo, fagocitato sempre più dalla 'arroganza' e dalla 'impostura'. Uomini, quindi, ma indegni di appartenere alla specie animale. "Non abbiamo mai visto dei leoni riunirsi e allearsi per pianificare la distruzione di altri animali perché non si comportano come loro o perché sono liberi".
In tanto efferato orrore, emerge anche la condizione dell'intellettuale e Ben Jelloun si chiede se, in questo tragico presente, la poesia sia ancora possibile. Forse, soltanto quando l'intelligenza avrà colto ogni "possibile", in nome della "dignità"e della "grazia", soltanto allora sarà valsa la pena di "attaccarsi a un ramo d'albero dalle radici soffocate e reclamare l'umano".

 

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