di Daniela Palumbo
Ho
visto “The lobster”, il film. In compagnia di un’amica, com’era mio desiderio.
Questa
non vuole essere una recensione, per la quale non sarei sufficientemente
qualificata, ma una semplice chiacchierata, del tutto amichevole. Che non so
neppure se mi riuscirà tanto bene, ma tentare “non nuoce”. Magari immaginando
anche un bar, una tazzina di caffè fumante … Direi anche una sigaretta se non
fosse che il fumo “nuoce” gravemente.
Il
primo approccio col film è stato possibile grazie a Facebook, dove un amico ha
pubblicato le foto delle locandine, sottolineandone l’originalità assoluta. C’è
un ritratto dei due protagonisti (non insieme: l’uno o l’altra, da soli): parti
del corpo, del busto in particolare, sia di lei che di lui, si alternano a
vuoti inquietanti; cosa che fa pensare da una parte all’asportazione degli
organi, o all’amputazione in seguito a una cancrena, dall’altra alla sparizione
progressiva della persona, riconducibile all’idea degli spettri, ad esempio, o
di certi supereroi, con facoltà di “sparire” (vedi l’uomo invisibile).
Dopo
la locandina, il trailer, dove il comico paradossale di cui è permeato il
racconto emerge con forza, o se si preferisce, “trasuda” (il protagonista viene
spesso inquadrato mentre è intento a spalmarsi uno strano unguento sulla
schiena), creando l’aspettativa del divertimento, dello spasso, della risata;
aspettativa delusa sin dai primi minuti e dalle prime scene. Una musica fatta di pochissime note, ripetitive, tagliente come l’archetto di un violoncello, accompagna dall’inizio alla fine lo sviluppo della vicenda, in un crescendo di assurdità sempre più crudeli.
Riassumo
la trama, in poche righe: in una società colpita da fobia verso i single, gli
“scoppiati” vengono accalappiati come cani randagi e “concentrati” (nel senso
più nefasto del termine) in un albergo lussuoso, dove avranno 45 giorni per
rimediare alla loro “menomazione” e trovare un compagno o una compagna, pena la
metamorfosi. Allo scadere perentorio del termine stabilito, se ancora single,
questi saranno tramutati, infatti, in animali.
Non
manca qualche illusione di libertà: l’animale si può scegliere (molti i cani,
numerosi i cavali, qualche pesce o qualche uccello, qua e là, e un unico
crostaceo: un’aragosta); al momento dell’accettazione in albergo è possibile
dichiarare, e scegliere, il proprio orientamento sessuale (omo od etero; mai bi-, nonostante il leitmotiv della storia
sia la “coppia”; interessante controsenso); si può optare per un numero di
scarpe piuttosto che per un altro, ma non è dato scegliersi i vestiti (che sono
uguali per tutti, come le divise o i celeberrimi “pigiami a righe”).
E
il nostro eroe? Ci si chiede se troverà la salvezza nell’accoppiamento
(nient’altro che bestiale) con la più spietata delle “cacciatrici” di solitari
tra le ospiti del lager-hotel, con la quale lui tenterà disperatamente di
camuffare il suo lato umano, fino al sacrificio estremo (fingere indifferenza
dopo la morte del proprio fratello/cane). Oppure se approderà alle tanto
agognate sponde di una ideale Itaca, quella che ogni naufrago aspira a
(ri)trovare, (ri)scoprendo l’Amore …
Proprio
questo amore, con la A maiuscola, nascerà tra le file di un gruppo di fanatici
resistenti (in uno scenario alla Sherwood,
con tanto di alberi, buche sul terreno, tagliole e conigli selvatici) che si
scoprirà essere una realtà più crudele della precedente (nel bosco si balla
rigorosamente da soli, così come nei saloni dell’hotel si ballava
esclusivamente in coppia). Qui il protagonista s’innamora, subito corrisposto,
di una donna miope, proprio come lui. Ma, costretti a nascondersi come
clandestini agli occhi degli altri membri del gruppo, e soprattutto della
terribile leader, doppiamente braccati (dai cacciatori di solitari, da un lato,
e dai propri “compagni”, dall’altro), i due amanti scoprono a loro spese che l’amore è menzogna, oltre che
condivisione di difetti, comunione di paranoie, identificazione in negativo.
Tanto
nell’albergo - dove una donna si finge zoppa per poter avvicinare uno zoppo e
un uomo si provoca ferite al naso per “legare” con una donna sanguinante dalle
narici – quanto nel bosco, in mezzo ai “ribelli” (miope lui, miope lei, miope…l’altro?
l’ipotetico rivale), la bugia o il difetto, la malformazione, sono alla base di
tutto. E stridono con l’autenticità del rapporto, chimera irraggiungibile,
impossibile a viversi se non nello spazio angusto di un appartamento in città, alla presenza di
altri, senza stridore d’archi (non credo sia casuale), col sottofondo di
chitarre armoniose.
Poche
risate, dunque. Personalmente, ne ho registrate un paio, due soltanto, ma ben
piazzate. E alla fine del film (finale rigorosamente “aperto” come nella migliore
tradizione del cinema “di nicchia”) la domanda è stata: finiremo tutti per
sbatterci la testa contro un muro o per cavarci gli occhi l’un l’altro nella
speranza di trovare l’anima “gemella”? La risposta io non ce l’ho, amici miei,
no di certo. Però ho un solletico alla schiena, ed un singhiozzo, che mi è
venuto così all’improvviso, chissà come mai. E che non mi passa …
Molto bello, brava. Mi ricorda i comenti ai film di Moravia, geniale, raffinatissimo, dilettante delle recensioni.
RispondiEliminaOgni volta che leggo un tuo apprezzamento è come se ricevessi un premio!
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