mercoledì 16 settembre 2015

STORIE




by Pippo Zimmardi

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Si identificava con i disperati che fanno perdere le loro tracce o che si rendono autori di atti inenarrabili. Di fatto scomparve dai banchi di scuola per ricomparire in edicola nella copertina patinata di una rivista.

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Compare dal fondo scuro della strada. Sottile con un vestito chiaro a mezze maniche. Quando gli passa vicino, appena illuminata dal fanale, nota le scarpe da tennis e i calzini bianchi. Lei lo guarda stupita come per dirgli:

- Ma come, sei in moto? –

Lo supera e si dirige sicura verso una macchina che, appena in sosta, lampeggia.


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Nel bar di via Belmonte arrivano le voci ritmate di un corteo. Una signora che mi sta accanto commenta con la cassiera. A suo avviso gli studenti non avrebbero alcun motivo di protestare se non quello di perdere giorni di scuola. Non vogliono studiare e oltretutto non si capisce niente di quello che vogliono. Gridano. Sto per intervenire ma mi trattengo. Cerco di capire le parole dei manifestanti. Effettivamente non riesco ad intendere nulla se non la parola leader. Esco fuori e mi avvicino. Tre colonne colorate di Tamil avanzano ordinate. Chiedono il riconoscimento dell’autonomia della loro regione da parte del governo italiano. Le  loro rivendicazioni fanno riferimento alle nostre guerre di indipendenza. Nei cartelli, tra le bandiere gialle e rosse, l’effige di un signore baffuto che in maniche di camicia sorride  chissà da dove. E’ il loro capo. Bambini e donne in prima fila accennano a passi di danza, ai lati giovani con la videocamera garantiscono la documentazione. Altri ragazzi distribuiscono volantini. Sul marciapiede due di ragazze indigene scimmiottano ridendo i movimenti dei ballerini. Due signori in vestito blu e cravatta rallentano il loro passo, si fermano e guardano incuriositi. Cercano di coordinarsi all’evento sbirciando nei volantini dei vicini. Uno dei due dice all’altro: ma dov’è con precisione lo Sri Lanka?

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Michele aveva un amico non vedente che lo seguiva per conferenze, cene e salotti. Andavano spesso anche al cinema. All’uscita l’amico si divertiva a commentare i film. Per lui, a causa dei medesimi doppiatori, era sempre un solo film in più parti e con frequenti scambi di ruoli. Michele girò un piccolo film 16mm con il suo amico. Lo mise ad un semaforo di una strada trafficata a brandire un pugnale di plastica in mezzo alla folla che attraversava col verde, stranita.







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Si fece condurre dal suo amico alla stazione per segnare gli orari dei treni che l'indomani l'avrebbero potuto portare in città. Tra una informazione e l'altra decise tuttavia di prendere a volo l'ultimo treno disponibile in serata. L'ex moglie del suo amico accogliendolo nella sua villa si era presentata vestita da sacerdotessa  druidica. Avrebbero dovuto trascorrere insieme la vigilia di natale e, su proposta dell’amico e della sua ex, un numero imprecisato di giorni successivi. Non era stato avvisato, non aveva pigiama, cambio e spazzolino, ne' voglia di suonare il violino per loro. Prima di mezzanotte fu in città, a casa sua.



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Dopo avere accompagnato la madre  in un pub del centro ad intervistare il  cantautore del momento,  Il figlio di otto anni, di ritorno a casa, le disse:

-       Mamma mi piace quando mi porti nei bassifondi della citta –



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-       esistono baci brutti?

Alice, otto anni:

-       si, i baci finti.





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Al centro della landa desolata una baracca la cui porta malconcia esibisce il cartello: sexy shop

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Perché i posacenere erano svuotati, i piatti puliti e i letti rifatti e allora lui capì della visita.





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Sposini, ventiquattro ore insonni da un aeroporto all’altro, mamme, papà ed amici li attendono dal viaggio di nozze, la Giamaica è il ricordo gradevole dei loro discorsi, lui non ha più la fede al dito, lei sì, ma seguirà la scelta del consorte all’arrivo, a casa e ne parlano.

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Sull’aliscafo apro a caso Deleuse e trovo il commento a Stromboli di Rossellini. Scorro, leggo l’indice di immagine tempo: un capitolo su Nietzsche e Welles, ci do una occhiata. Welles e il falso: verità e apparenza azzerate nella dinamica delle forze.

Nell’aprile 1882 Nietzsche è a Messina. Scrive una cartolina entusiasta dei luoghi. Riparte tuttavia per Roma qualche giorno dopo. A colpa dello scirocco reale e metaforico, si giustifica.

Nietzsche è passato per Stromboli?





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Binocolo. Dopo avere osservato i loro movimenti, le pause, i tuffi bassi di testa delle signorine e quelli alti a carota dei signori, le nuotate, le salite e le discese in barca, le remate, i ritorni. Dopo avere contato i passi di danza e i nuovi ospiti, seguito i camerieri, apprezzato le altezze, baciamani, i due pezzi, gli asciugamani e le cuffie colorate. Ora che sono tutti sul ponte, seduti alla stessa tavola, che sorseggiano, considerata l’ora, l’aperitivo e senza cura pizzicano patatine, noccioline e grasse olive, ora credo di sentire le loro voci e le loro risate. Un flash è poco più di uno sputo alla luna medio alta all’orizzonte, rossa come nella canzone.



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Baruchello a proposito della moglie Lydie di Duchamp: Lei credeva nella rincarnazione lui (Duchamp) l'unica cosa in cui si sarebbe reincarnato era una scacchiera.



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La padrona di casa gli indica un oggetto e lui le dice che è di un pantografo per subito correggersi del lapsus, è un metronomo. Lei gli spiega che si tratta di un metronomo particolare che si mette a scandire il tempo nei momenti meno prevedibili e opportuni, notte o giorno, per conto suo, senza nessuna spiegazione.

Lui prende in mano lo strumento gli da la corda, toglie  il tassello di carta ripiegata che blocca la lancetta e il metronomo si mette a scandire il tempo mentre a lui viene la voglia di svolgere il tassello di carta che gli è rimasto in mano, così tanto per curiosità. E una volta ben dispiegato  legge: istruzioni per l’uso del pantografo.

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Un ragazzo e una ragazza si baciano nell'attesa della metropolitana in una lunga apnea che sembra continuare nei baci di un'altra coppia all'interno del vagone in corsa. Alla prima fermata lui scende e lei lo saluta a gesti oltre lo scivolare della bussola, dal finestrino e nella fuga delle luci in partenza. Mimano con gioia  il loro segno d’intesa. Quando il convoglio prende velocità lei si siede. Abbandona la testa sullo schienale del sedile. Nel suo viso né tristezza né gioia. Si è spenta. Tira fuori il cellulare. Intorno al display sono attorcigliati una quantità spropositata di elastici. Ci gioca.

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Lei sale sul vagone della metropolitana. Ha le guance colorite, il mento a punta, capelli neri appena sul collo, occhi e bocca furbi. Veste pantaloni e camicetta bianca con sopra uno spolverino scuro mezza gamba a doppio petto. È carina e, a suo modo, elegante. Si siede nel primo posto libero che trova. Capita accanto ad un ragazzo. Di fronte ha una donna di mezza età e un'altra ragazza più giovane. I portelli si chiudono e il treno riparte. La ragazza apre la sua borsa colore tela grezza, tira fuori uno specchietto. Lo porta all'altezza degli occhi, della bocca… Per piccole smorfie controlla le sbavature del rossetto. Con rapidi movimenti della mano si sistema i capelli e conclude  rinnovando le pieghe del suo spolverino. Forse andrà a teatro o al cinema o ad una cena importante o ad una inaugurazione o ad un appuntamento. Ripone lo specchietto nella borsa, indugia a cercare e controllare qualcosa nel suo fondo. Nessuno sembra badare ai suoi gesti. Il treno si è già fermato una volta e poi un'altra. Gente sale e scende. La corsa riprende accelerando nel suo sibilo abituale. Qualcuno legge, altri fissano lo sguardo in una rassegnata sospensione che si spezza quando la signora di fronte alla ragazza, fulminea e gridando inizia a schiaffeggiarla. Le sventaglia scapaccioni sul viso, sulle spalle, sul petto. Impreca, in tono crescente, qualcosa che sembra un rimprovero o una rampogna astiosa. Dopo un primo attimo di stupore, la ragazza para i colpi, si scansa e guarda con uno sguardo interrogativo i passeggeri intorno che non intervengono. Quando la signora sembra essersi sfogata si ricompone, in un piglio di soddisfatta severità. La ragazza, controlla veloce il fondo della sua borsa e alla prima fermata scende. La signora vestita da un ampio abito estivo dai colori vivaci, casalinga anni '60, tira fuori dalla sua borsa  carta e penna e inizia a scrivere. Veloce senza interruzioni,  fluida e senza essere disturbata dai movimenti del treno velocissimo. Il foglio di carta dove scrive sembra non esaurirsi mai. Potrebbe essere l'inizio di un film.

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Il suo mestiere era quello di scrivere i libri per gli altri. Biografie, raramente saggi, spesso tesi, mai romanzi. Una volta un cliente gli chiese il racconto avventuroso delle sue  peripezie da  reduce.

Di solito ascoltava seduto in salotto o nel tinello con un piccolo registratore acceso. Faceva qualche domanda. Guardava le foto delle persone e dei luoghi che gli mostravano. Prendeva poche note. Quella volta il cliente:

 - voglio che lei vada di persona in quei posti. Voglio che si renda conto -

Non andò da nessuna parte. Fu irreperibile per un paio di settimane. Disse poi che tutto ormai era cambiato mostrando fotografie di un centro commerciale.

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